Libertà di espressione e blasfemia: il precedente danese

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In Francia gli intellettuali si scontrano sui limiti della libertà di espressione, e di insegnamento: da un lato, un docente decapitato per aver sottoposto all’attenzione dei suoi allievi le vignette su Maometto di “Charlie Hebdo”; dall’altro, intere correnti teoriche, dagli studi postcoloniali al concetto di intersezionalità, accusate di favorire l’integralismo religioso, minando alla radice la laicità e la democrazia (https://www.opendemocracy.net/en/can-europe-make-it/open-letter-the-threat-of-academic-authoritarianism-international-solidarity-with-antiracist-academics-in-france/). Vale la pena ripercorrere un dibattito analogo, ma vecchio di quindici anni: la controversia seguita alla pubblicazione, nel 2005, delle caricature di Maometto in Danimarca. “Vecchio” per modo di dire, perché tutti i nodi sollevati in quell’occasione restano irrisolti.

I fatti: il più venduto quotidiano del paese, lo Jyllands Posten, commissiona una serie di vignette raffiguranti il profeta, con l’esplicito obiettivo di mettere alla prova il grado di autocensura della cultura danese, alla luce del clima di intimidazione – scrive il giornale – formatosi intorno a chi esprime posizioni critiche sull’Islam. Dopo le proteste di alcune organizzazioni di musulmani danesi e il rifiuto del governo di incontrare i rappresentanti diplomatici di Paesi musulmani, la polemica divampa su scala globale, con imponenti manifestazioni, talvolta violente (si contano in tutto almeno 200 morti), contro la Danimarca (che viene anche boicottata commercialmente) e l’Occidente tutto; contemporaneamente in Europa montano (non solo verbalmente) il razzismo e l’islamofobia.

Nell’articolo che introduce le dodici caricature prescelte, lo Jyllands Posten invoca una serie di principi “liberali” (laicità, democrazia, libertà di espressione), presentandoli come incompatibili con il rispetto per la sensibilità religiosa. Il quotidiano giustifica quindi la sua provocazione con una necessità per così dire pedagogica: i musulmani devono imparare che la libertà di espressione, declinabile anche come satira e dileggio, è parte integrante della democrazia. Un tema ricorrente, nel dibattito che si scatena nella società danese, è la funzione del contesto, che rappresenta forse il maggior contributo fornito alla filosofia politica e del diritto da questa vicenda. Differenti preoccupazioni filosofico-giuridiche si intrecciano infatti con resoconti empirici alternativi. Dove situare, ad esempio, l’inizio della controversia: nel clima di minaccia alla laicità della società danese o più indietro, nell’islamofobia fomentata dalla guerra al terrore post-2001? All’epoca in Danimarca il governo di centro-destra dipende dall’appoggio del Partito del popolo, una formazione populista che molti danni ha fatto alla politica del Paese; esso stigmatizza tutti i musulmani come “cancro” nel corpo della società danese, accostando il Corano e l’hijab al Mein Kampf e alla svastica. E lo Jyllands Posten contribuisce non poco ad alimentare l’idea di uno “scontro di civiltà”.

Tra le molteplici posizioni critiche verso la pubblicazione delle vignette, formulate tanto da immigrati quanto da intellettuali e militanti “autoctoni”, un primo livello attiene proprio alla loro opportunità: la blasfemia sarebbe accettabile se il contesto, appunto, fosse all’insegna dell’inclusione e del rispetto, anziché di uno strutturale misconoscimento dei musulmani (religiosi e non) da parte della società europea nel suo complesso. Si mescolano qui inviti all’autolimitazione motivati dalla paura di ritorsioni terroristiche, richiami al politically correct e la convinzione che il rispetto sia una questione etica, non di opportunità.

Su un piano filosoficamente più alto si situa la polemica sul ruolo del contesto nell’interpretazione dell’universalismo. Lo Jyllands Posten e i suoi difensori enfatizzano i valori dell’illuminismo come patrimonio dell’intera umanità; tuttavia, obiettano in molti, ciò che viene presentato come universalismo costituisce in realtà una proiezione del liberalismo occidentale.

Nel corso del dibattito, però, alcuni studiosi sollevano un problema più radicale: ciò che impedisce il dialogo non è solo che alcuni principi (come la libertà di espressione) non siano relativizzati, ma che l’universalismo cui ci si appella per difendere la pubblicazione delle caricature ricalchi le peculiarità di una specifica cultura, quella danese, in particolare la componente luterana e quella illuministica. In altre parole, l’ostacolo non sta nell’universalismo morale o nei principi liberali in sé e per sé, ma semmai nella loro nazionalizzazione: poiché tali valori sono proclamati come consustanziali alla storia del Paese, l’unico modo legittimo per comprenderli, ed eventualmente accettarli, passa per l’introiezione della cultura danese. Con sprezzo di una visione dialogica dei principi liberali e democratici, che ne riconosca la relatività, ossia il carattere fallibile e transeunte, si esclude quindi a priori che gli “altri” – in particolare, i musulmani – possano contribuire con apporti degni di nota alla definizione della libertà di espressione, e dei suoi confini. Paradossalmente, mentre l’universalismo viene “nazionalizzato” dai difensori delle vignette, i musulmani danesi si appellano, inascoltati, al principio (illuministico!) del rispetto per le convinzioni altrui.

Sono passati quindici anni, e in Francia si ripropone il mortifero conflitto tra coloro che elevano le raffigurazioni di Maometto in pose oscene o sembianze bestiali a emblema della libertà di espressione e chi crede che la blasfemia vada pagata con la vita. Tertium non datur? Occorrerebbe un gigantesco, e complicato, lavoro di traduzione tra culture completamente diverse di concetti (a partire da quello di sacro) e norme etiche, nonché una riflessione collettiva sulla politica delle alleanze: sulla base di identità – di classe, etnia e genere – accomunate dall’oppressione o di principi “universali”, con tutti i problemi che conseguono all’una e all’altra opzione?

Dopo un decennio dominato, in Danimarca così come in Norvegia (meno in Svezia, che infatti viene criticata per il suo multiculturalismo), dalla preoccupazione di rivendicare – in funzione antimusulmana – una libertà di espressione concepita in modo essenzialistico e astorico, la strage di Anders Behring Breivik del 22 luglio 2011 rappresenta una sorta di tragica nemesi: a raccogliere i frutti di un principio inteso in modo incondizionato (tutti hanno il diritto di dire tutto, purché sia conforme alle norme culturali egemoniche) è stata infatti la destra neonazista, che da anni può scrivere e gridare indisturbata il suo credo razzista, islamofobico e antisemita, nel Nord Europa e non solo.

Gli autori

Monica Quirico

Monica Quirico, storica, è honorary research fellow presso l'Istituto di storia contemporanea della Södertörn University di Stoccolma. La sua ricerca verte sulla storia e la politica svedese, spesso in prospettiva comparata con l'Italia. Tra le sue pubblicazioni più recenti, Socialismo di frontiera. Autorganizzazione e anticapitalismo (Torino, Rosenberg & Sellier, 2018), scritto con Gianfranco Ragona.

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