Il 15 novembre si sono svolte in Brasile le elezioni amministrative (comunali). Una verifica importante sul piano politico perché erano chiamati al voto quasi 150 milioni di elettori a poco più di un anno dalle future elezioni presidenziali. Ha partecipato al voto poco più del 70% degli elettori e si è votato elettronicamente per cui un’ora dopo la chiusura dei seggi si conoscevano già i dati (da notare che in Brasile in più di un caso anche gli accordi stipulati dai sindacati vengono sottoposti al voto elettronico dei lavoratori).
L’attenzione alla scadenza elettorale era aumentata dal fatto che avveniva in un momento in cui le destre estreme stavano subendo sconfitte politiche. Dopo le elezioni in Messico del 2018 e in Argentina nel 2019, infatti, quest’anno si è confermato un forte giro nel vento politico in Bolivia, Cile, Stati Uniti e Perù. Un significato particolare, ovviamente, ha in tutta la regione latino americana la sconfitta di Donald Trump, alleato di ferro di Bolsonaro.
Quelle brasiliane erano elezioni amministrative ma la situazione nazionale ‒ con l’aumento della povertà e della disoccupazione (che nel 2019 è aumentata al 12%), la concentrazione della ricchezza (il 10% della popolazione ne detiene il 50%), la riforma del lavoro (che lo precarizza ancora di più), la riforma delle pensioni (che aumenta l’età del ritiro e riduce i benefici), il congelamento per 20 anni delle spese primarie del Governo nel sistema di salute nonché l’aumento della violenza contro le donne e il persistere delle disuguaglianze razziali ‒ hanno aumentato l’insoddisfazione della gente che già prima della pandemia era stanca e delusa delle politiche del Governo Bolsonaro. Le candidature erano evidentemente espressione delle presenze organizzate locali ma tutti questi fattori, aggravatisi con la pandemia Covid-19 e il comportamento irresponsabile di Bolsonaro nel non seguire le indicazioni della Organizzazione Mondiale della Salute, sono stati sullo sfondo. Va inoltre considerato che il sistema elettorale brasiliano per le elezioni comunali è simile a quello italiano: vince al primo turno chi supera il 50% dei suffragi e, in mancanza, si va al secondo turno con ballottaggio tra i due candidati che hanno ricevuto più consensi.
Ebbene, solo in due città capitali (il Brasile è una Federazione di Stati) i candidati dello schieramento bolsonarista passano al secondo turno mentre in tutte le altre grandi città sono sonoramente sconfitti. È il caso, per esempio, di Celso Russomano (Republicanos) a São Paulo, Delegada Patrícia (Podemos) a Recife, Coronel Menezes (Patriotas) a Manaus, Bruno Engler (PRTB) a Belo Horizonte. Così quasi tutti i commentatori brasiliani e dell’America Latina segnalano che il voto amministrativo rappresenta una dura sconfitta di Bolsonaro. Immediata la dichiarazione di Lula: «L’estrema destra è stata la grande sconfitta in queste elezioni».
Ma se Bolsonaro ha perso, chi ha vinto? Tutti quelli che gli si oppongono. Ma in questo ampio ventaglio si trovano prima di tutto le forze politiche moderate della destra brasiliana tradizionale che ottengono notevoli successi diffusi soprattutto nelle medie e piccole città, ma anche in diverse capitali di Stati. Sembra che il voto dato in passato a Bolsonaro sia rientrato nelle formazioni politiche tradizionali. Joao Pedro Stedile, dirigente del Movimento Sem Terra, sottolinea come le forze che rappresentano la base di massa per il consenso elettorale della destra estrema e golpista abbiano subito significativi insuccessi nelle elezioni. Così è successo ai due più importanti candidati della Chiesa evangelica a San Paolo e a Rio de Janeiro mentre le affermazioni delle migliaia di candidati della chiesa evangelica e delle forze militari e di polizia sono state assai poche. Ciò che ha caratterizzato queste elezioni è stato lo spostamento del voto dalla destra estrema al centro moderato. Infatti lo schieramento progressista recupera molti voti persi nel 2016, in particolare dal PT (il Partito dei Lavoratori fondato e diretto per molti anni da Lula), ma rimane lontano dai precedenti risultati ottenuti anche localmente nei periodi delle presidenze di Lula e di Dilma Rousseff.
Per tradizione, al primo turno elettorale ogni formazione politica si presenta autonomamente e ciò favorisce le formazioni politiche che hanno i maggiori consensi; il metodo delle alleanze scatta al secondo turno.
In Brasile ci sono a sinistra quattro formazioni politiche: il PT, partito dei lavoratori; il PSOL, partito del socialismo e della libertà (formazione nata sulla critica all’azione del PT); il PCdoB, partito comunista del Brasile; il PDT, partito democratico laburista (aderente all’internazionale socialista). Ebbene, in quasi tutti i comuni questi partiti si sono presentati separatamente per cui molti osservatori avevano previsto una sonora sconfitta. Inoltre questi ultimi anni sono stati molto difficili, in particolare per il PT (lo tsunami antipetista, venne chiamato) contro il quale si è scatenata l’offensiva moderata e di destra con il golpe blanco contro la presidente Dilma Rousseff e l’arresto e la condanna di Lula fondati su prove false costruite da Sérgio Moro (diventato poi ministro della giustizia nel Governo Bolsonaro). Ciononostante, nel momento in cui si dava per scontato, anche a sinistra, un suo declino irreversibile, i l PT ha deciso di presentarsi autonomamente alle elezioni e oggi dichiara, forse con un’enfasi eccessiva, che il declino è interrotto e la ripresa dei consensi in corso. Ma l’autosufficienza è stata una prerogativa che ha caratterizzato tutte e quattro le formazioni politiche di sinistra. Ciò ha sicuramente pesato in alcune città, anche se non è stata la catastrofe che alcuni paventavano. Ha pesato, in particolare, in alcune città come Rio de Janeiro (dove il PSOL e il PT si erano dichiarati disponibili a rinunciare per realizzare una coalizione che però il PDT non ha accolto) dove non ci sarà al secondo turno un candidato progressista (cosa che sarebbe avvenuta se si fossero sommati i dati dei candidati di sinistra che hanno partecipato).
Insomma, in questa occasione il messaggio di Lula del 2018 per l’unità delle forza politiche in difesa della democrazia non è stato raccolto. Oggi peraltro la formazione di alleanze a sinistra per i ballottaggi è in corso. Già realizzate in due città importanti: São Paulo, dove Guilherme Boulos, candidato al primo turno per il PSOL, sarà sostenuto da tutte le formazioni di sinistra e progressiste, e Porto Alegre, dove la candidata Manuela d’Ávila del PCdoB sarà analogamente sostenuta. Manuela, riferendosi alle deputate federale Fernanda Melchionna (Psol) e statale Juliana Brizola (PDT), ha dichiarato: «Saremo ora tre donne unite per dimostrare che Porto Alegre potrà imboccare un nuovo cammino di attenzione alle persone e di crescita economica». Ma non saranno battaglie facili, soprattutto se la destra si dovesse ricomporre.
Comunque anche in Brasile si apre nuovamente una fase di ripresa della vitalità democratica, più efficace quanto più le convergenze e l’unità delle sinistre e dei lavoratori si affermeranno nell’azione popolare. A questo obiettivo fanno appello alcuni dei sindacati più importanti: più esplicitamente la CUT (che sostiene la necessità dell’unità tra PT, PSOL, PCdoB e PDT), ma anche Força Sindical indica ai suoi sindacati e alle federazioni affiliate di appoggiare le candidature che possano difendere la democrazia e ridare dignità al lavoro e alla ripresa economica.
Va aggiunto che la competizione elettorale è stata all’apparenza abbastanza tradizionale, scarsamente influenzata dai movimenti delle donne, dai giovani e dalle popolazioni indigene, che hanno invece caratterizzato i conflitti in Bolivia, Cile e Perù. C’è comunque un rinnovamento in atto: dei 44 candidati a sindaco che concorreranno al secondo turno nelle città capitali, 15 sono di origine africana, anche se solo cinque sono donne (mentre esse rappresentano il 52,49% dell’elettorato).
L’indicazione è chiara: in vista delle elezioni presidenziali del 2022 sono necessarie alleanze e un rinnovamento dei partiti progressisti per dare maggior peso alle donne, ai giovani e alle minoranze etniche che reclamano spazi per essere protagonisti e costruttori del proprio futuro.