Dato per assodato il generale sollievo, e anche la gioia, che hanno salutato la vittoria di Biden, molti commenti hanno già messo in luce tutti i nodi che restano irrisolti e che verranno al pettine (https://volerelaluna.it/mondo/2020/11/10/gli-usa-hanno-davvero-voltato-pagina/). Al di là dei retori nostrani, che inneggiano alla rinascita dell’America come paese guida (ma ne abbiamo proprio bisogno?) e a Biden come presidente bipartisan, il rischio è che il concetto di bipartisan implichi il predominio dei poteri forti, una consistente fetta dei quali si è spesa pesantemente per l’elezione del candidato democratico, frustrando tutte le speranze di cambiamento, anche limitato.
A integrazione dell’ultimo, molto utile, intervento di Elisabetta Grande su queste pagine (https://volerelaluna.it/mondo/2020/11/12/le-elezioni-statunitensi-e-la-difficile-marcia-per-la-giustizia-sociale/) vorrei aggiungere alcune riflessioni sullo stato della sinistra radicale dopo l’esito elettorale.
La salute non è gran che buona. La maggior parte delle formazioni progressiste e socialiste, che si erano raccolte attorno a Bernie Sanders e a quella che la rivista Jacobin ha definito la sua «Guerra dei 5 anni», hanno dovuto superare la delusione della sconfitta e impegnarsi (peraltro abbastanza disciplinatamente) nella campagna elettorale a sostegno di Biden. Molti auspicavano che questo impegno significasse che almeno una parte degli obiettivi politici e sociali della mobilitazione potessero trovare posto nel programma di Biden, se eletto (e Sanders ci ha provato). Ma appena garantita l’elezione, sono subito partiti gli attacchi da parte delle forze dell’establishment contro la sinistra del partito, accusata di essere responsabile di un risultato sotto le
aspettative (https://jacobinmag.com/2020/11/alexandria-ocasio-cortez-democrats-aoc-biden-trump). E questo nonostante i dati indichino che il partito ha perso dove aveva candidati più di destra, e che molti progressisti sono stati eletti anche a livello statale e locale (https://www.thenation.com/article/politics/democratic-voters-want-more-than-the-status-quo/). Il disincanto è forte, e l’atteggiamento prevalente è: «bene Biden ha vinto, è il male minore, ma adesso dobbiamo organizzare l’opposizione alla nuova amministrazione» (https://jacobinmag.com/2020/11/joe-biden-administration-opposition-push-left) che «non merita un’oncia di fiducia».
La posizione più ottimistica e positiva è quella espressa in un altro articolo apparso su Jacobin: è più facile lottare per obiettivi come Mediacare for All, Green New Deal e democratizzazione sindacale con Biden che con Trump: dobbiamo costruire una forte coalizione che faccia pressioni su Governo e Parlamento (https://jacobinmag.com/2020/11/donald-trump-presidency-biden-win).
Il problema è che la campagna elettorale ha impegnato molte energie del movimento, e non è detto che sia facile oggi riprendere una mobilitazione su vasta scala. Di fronte a Trump e alla destra che non accettano il risultato delle elezioni e incitano allo scontro istituzionale e sociale (il faro della democrazia che entra nella affollata compagnia dei regimi autocratici?), dai siti di sinistra sono partiti appelli a scendere nelle strade (https://jacobinmag.com/2020/10/election-electoral-college-trump-popular-vote) e anche a prendere in considerazione lo sciopero generale (https://www.thenation.com/article/politics/trump-labor-general-strike/), ma niente di tutto ciò è finora successo. E a proposito del fronte del mondo del lavoro, due dati negativi: Trump ha preso l’82% dei voti degli elettori che dichiaravano il lavoro come primo problema; nella progressista e democratica California, un referendum ha approvato (con il 60% dei voti) la Proposition 22, una proposta delle compagnie che offrono lavoro gig, come Uber, Lyft e altre, che esclude questi lavoratori dai benefici sindacali di base, e li classifica come independent contractors, facendo alcune concessioni su una limitata assistenza sanitaria solo per chi lavora oltre un certo numero di ore, e fissando una paga base a circa 5.5 $. (https://www.thenation.com/article/politics/prop-22-labor/). Molti osservatori parlano del peggior attacco ai diritti dei lavoratori dal Taft-Hartley Act del 1947, e il timore è che questa vittoria possa preludere ad attacchi simili a livello federale. Questo per ricordarci quanto il paese che esce dai quattro anni di regno di Trump sia un paese profondamente diviso, e come la divisione passi all’interno degli stessi soggetti sociali.
Il compito di organizzare una efficace pressione dal basso sull’Amministrazione Biden sarà un compito molto difficile per i movimenti USA, e ci ricorda quanto sia complicato il problema del rapporto fra impegno sulle scadenze elettorali e capacità di costruire organizzazione sul terreno sociale.