USA. Le elezioni e la democrazia appesa a un filo

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Nonostante i sondaggi dessero per sicuro vincitore Joe Biden, l’elezione presidenziale negli Stati Uniti si è rivelata una vera competizione all’ultimo sangue che, qualunque sia il risultato finale, apre la porta a sicuri strascichi conflittuali. 

Negli Stati chiave la distanza fra i due contendenti è davvero di strettissima misura e ciò che sta accadendo negli ultimi Battleground States lascia col fiato sospeso gli osservatori che seguono l’andamento di una sfida sul filo di lana di una manciata di voti. La Georgia, per esempio, che inizialmente dava un vantaggio a Trump del 2 per cento, mentre scrivo diventa appannaggio di Biden per poche centinaia di voti; il Wisconsin è stato vinto da Biden per circa 20.000 voti con un misero margine dello 0.6 per cento; mentre la strategica Pennsylvania, che aveva visto inizialmente uno scarto a favore di Trump dell’11 per cento, con la conta dei voti per posta attribuisce ora al Presidente in carica un vantaggio solamente dello 0.3 per cento. Sono questi i numeri che mettono in evidenza la spaccatura dell’elettorato statunitense, che certamente non lascia presagire nulla di buono, stanti le dichiarazioni precedenti l’Election Day dei due sfidanti, ciascuno dei quali, a modo proprio, ha affermato che non avrebbe accettato una sconfitta di misura.

Il dato che emerge con estrema evidenza è come i voti per posta nella maggioranza dei casi, e certamente nella fondamentale Pennsylvania, siano andati ‒ secondo pronostici ampiamente condivisi ‒ in grande misura a Joe Biden. Al momento in quello Stato addirittura il 78 per cento dei suffragi postali ha favorito quest’ultimo, contro un 19.3 per cento andato a vantaggio di Trump, ciò che rischia di ribaltare completamente il risultato venuto fuori dal voto in presenza. Si tratta dello scenario che Donald Trump aveva già anticipato fin da marzo e che ha affrontato facendo partire una pesante campagna di delegittimazione del voto postale, accusato da lui e da tutti i suoi di ogni nefandezza e possibili manipolazioni (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2020/08/01/usa-scenari-di-fantapolitica/). Il fine era di precostituirsi una valida ragione per sollevare un conflitto di fronte alle Corti di giustizia, in particolare alla Corte Suprema federale quale ultima istanza di giudizio, qualora – come puntualmente sta accadendo ‒ le sue previsioni si fossero rivelate corrette. 

A marzo Donald Trump non poteva sapere che a un mese e mezzo dalla data delle elezioni Ruth Bader Ginzburg, una dei membri più progressisti della Corte Suprema, sarebbe venuta a mancare, dandogli la possibilità di nominare al suo posto la giudice conservatrice Amy Coney Barrett. Un vero colpo di fortuna per il Presidente USA più allergico alle regole, scritte o meno, che si sia mai visto! Un principio consuetudinario, mai finora violato, avrebbe infatti richiesto di attendere il risultato delle elezioni, in modo da lasciare al suo vincitore di operare la sostituzione di una carica così importante per l’individuazione dei diritti fondamentali di tutti i cittadini americani. Se ci si potrà ancora sposare fra persone dello stesso sesso, se le donne americane potranno ancora scegliere di abortire oppure quali diritti ad essere curati rimarranno ai più deboli, per esempio, dipende dalla visione sul punto della Corte Suprema e perciò in grandissima misura da quella scelta che, a rigor di democrazia, sarebbero stati il Presidente e il senato espressi dal popolo nell’attuale elezione a dover operare. A partire dalla tristemente famosa decisione Bush v. Gore, in cui nel 2000 la Corte Suprema federale bloccò un nuovo conteggio manuale dei voti in Florida, attribuendo la vittoria a Bush per soli 537 voti, la più alta istanza giudiziaria statunitense si è però anche auto attribuita la competenza a decidere sui conflitti relativi alle elezioni presidenziali. È per questo che Donald Trump non poteva certamente lasciarsi sfuggire l’occasione, che il destino gli ha offerto su un piatto d’argento, di sostituire la Ginzburg con una giudice a lui vicina (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2020/09/29/stati-uniti-la-democrazia-alle-corde/).  Anche per questo, di fronte a un risultato elettorale che si preannuncia sul filo del rasoio di una manciata di voti in moltissimi Stati, è impensabile che Donald Trump, qualora sconfitto, non metta in atto il piano ‒ da tempo architettato e meticolosamente portato avanti grazie anche a un fato amico ‒  di sollevare un conflitto di fronte a un giudiziario che sa essere suo alleato. In una conferenza alla Casa Bianca il Presidente ha, infatti, appena puntualmente affermato che i voti legalmente validi attribuiscono senza dubbio a lui la vittoria, eliminando così ogni residuale dubbio circa le sue intenzioni di ricorrere alle Corti. 

Questioni analoghe sono d’altronde già state sollevate nei due casi arrivati alla Corte Suprema dalla Pennsylvania e dal North Carolina, in cui le disposizioni dei legislatori in relazione al momento ultimo per considerare validi i voti ricevuti per posta sono state sovvertite dal giudiziario o dal comitato elettorale con l’avallo delle corti. In entrambi i casi la Corte Suprema federale, adita in composizione ridotta, non ha raggiunto una decisione perché in stallo sul quattro a quattro, riservandosi almeno in un caso di ritornare successivamente sulla questione. La partecipazione della Barrett alle prossime eventuali decisioni sul punto dovrebbe far pendere l’ago della bilancia a favore di Trump e se nuove e diverse cause ‒ basate per esempio sulla necessità di un ulteriore conteggio negli Stati in cui il margine di scarto è ridottissimo come in Nevada o in Wisconsin ‒ dovessero essere intentate, la composizione piena della Corte (che giocherebbe ancora a favore del Presidente) potrebbe assicuragli la vittoria finale, realizzandone così il disegno originario, che Michael Moore ha definito diabolico.

In verità però, diabolico o meno che siano il personaggio e i suoi disegni, se mai così dovesse andare, Donald Trump non farebbe che mettere a nudo le fragilità di un sistema, come quello statunitense, in cui il Presidente viene eletto attraverso un meccanismo farraginoso, complicato e poco democratico come il collegio elettorale e una Corte Suprema, tutta a nomina politica, interpreta troppo spesso secondo linee partigiane la più fondamentale delle leggi, ossia la Costituzione. 

Certo, si dirà, meglio un conflitto giudiziario, anche se politicamente orientato nei suoi esiti, che un conflitto armato per le strade. Il problema è tuttavia che la delegittimazione della Corte Suprema (la cui autorevolezza è essenziale per il funzionamento del gioco democratico) che un simile scenario determinerebbe, potrebbe funzionare proprio da detonatore di quel conflitto civile che in molti paventano.  Il caso Dred Scott, in cui nel 1857 la Corte Suprema federale si dimostrò troppo partigiana a favore degli schiavisti e a seguito della cui decisione il paese si ritrovò catapultato nella guerra civile perché il diritto aveva fallito nell’offrire una soluzione rispettabile e autorevole, insegna.

Momenti difficili, dunque, e di estrema tensione, che fanno per attimo perfino dimenticare la paura per la pandemia.

Gli autori

Elisabetta Grande

Elisabetta Grande insegna Sistemi giuridici comparati all’Università del Piemonte orientale. Da oltre un ventennio studia il sistema giuridico nordamericano e la sua diffusione in Europa. Ha pubblicato, da ultimo, Il terzo strike. La prigione in America (Sellerio, 2007) e Guai ai poveri. La faccia triste dell’America (Edizioni Gruppo Abele, 2017)

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