Svezia, “frugalità” a sinistra

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Al Consiglio Europeo dello scorso fine settimana, la Svezia è arrivata come parte dei frugal four, ovvero dei quattro Paesi che si opponevano alla formulazione della Commissione per il Recovery Fund europeo (insieme a Olanda, Austria e Danimarca) e che hanno negoziato al ribasso la portata del fondo – e soprattutto della sua quota di trasferimenti – e del nuovo bilancio pluriennale UE. La Svezia era, già prima della crisi del Covid, impegnata a negoziare i rabatter sui contributi al bilancio dell’Unione, ovvero gli sconti (o ristorni) che si applicano ad alcuni tra i Paesi che sono contributori netti al bilancio dell’Unione. Questi sconti, inizialmente ottenuti dalla Gran Bretagna, e poi estesi ad altri Paesi, tra cui la Svezia, erano oggetto di discussione, con la proposta da parte della Commissione predecente di eliminarli dal nuovo bilancio 2021-27. Il loro mantenimento è stato uno degli elementi del negoziato dei giorni scorsi, per convincere i “frugali” ad accettare il Recovery Fund.

In Svezia, il dibattito sul Recovery Fund ha visto inedite convergenze tra le segreterie dei principali partiti sull’opposizione a un aumento della spesa pubblica dell’Unione e sulla preferenza per un fondo che funzioni attraverso un meccanismo di prestiti da restituire, anziché di trasferimenti. In questa linea definita di “risparmio” (in svedese i paesi “frugali” sono definiti “de sparsamma fyra”, cioè i “quattro risparmiatori”) si mischiano, anche e soprattutto a sinistra, posizioni pro-rigore finanziario con posizioni contrarie a trasferimenti di risorse e potere dal livello nazionale al livello europeo.

«È una proposta veramente espansiva, noi ci aspettiamo qualcosa di più ragionevole», aveva dichiarato il 19 maggio la ministra delle finanze Magdalena Andersson, commentando le prime anticipazioni della proposta franco-tedesca. Pochi giorni dopo, il premier socialdemocratico Stefan Löfven ha aggiunto che «il fondo dovrebbe essere mirato alla concessione di prestiti, che danno incentivi più forti a un uso efficace del denaro». La linea del Governo ha raccolto un consenso quasi unanime presso le segreterie degli altri partiti, con poche eccezioni: tra queste, l’estrema destra (all’opposizione), che si oppone a ogni soluzione condivisa alla crisi; e i liberali (che danno un appoggio esterno all’attuale Governo di minoranza), tradizionalmente più europeisti, che chiedono maggiore solidarietà.

Alcune posizioni più “morbide” all’interno dei partiti al governo arrivano dagli europarlamentari dei Verdi e dei Socialdemocratici, che si sono astenuti o hanno votato a favore della risoluzione del Parlamento Europeo sul Recovery Fund. Le rare altre voci all’interno dell’establishment favorevoli a un Recovery Fund generoso – come quella dell’ex-commissaria europea Cecilia Malmström – fanno notare come la ripresa della Svezia sia legata a doppio filo a quella europea. Nonostante un lockdown straordinariamente blando, le prospettive economiche sono molto negative, a testimonianza della forte vocazione all’esportazione e dell’integrazione dell’economia svedese nel contesto europeo e globale. In una lettera aperta pubblicata dal quotidiano liberale Dagens Nyheter – il più critico nei confronti della gestione governativa del Covid – un gruppo di industriali (tra cui gli AD di Ericsson e Scania) e di leader sindacali ha chiesto al Governo di assumere un atteggiamento più solidale nei confronti dei paesi più colpiti dal Covid: «è importante che la Svezia sia percepita come una forza costruttiva e positiva nella collaborazione europea. La Svezia ha troppo da perdere nel restare a bordo campo durante un’azione fondamentale della partita». Al tempo stesso, però, dal mondo degli industriali svedesi sono arrivate voci contrarie all’introduzione di tasse europee – uno dei possibili modi di aumentare le risorse comuni, oltre ai contributi al budget degli Stati membri – in un intervento dell’ufficio di Bruxelles dell’organizzazione svedese degli industriali.

Con accenti diversi, anche il Vänsterpartiet (partito di sinistra radicale, che con la sua astensione ha permesso l’insediamento iniziale del governo Löfven) concordava con la linea nazionale di opposizione al Recovery Fund e con la richiesta di un fondo basato interamente su prestiti: «noi del Vänsterpartiet siamo d’accordo con la linea del Governo che [il fondo] sia costituito da prestiti e non da trasferimenti», ci dice in un’intervista Ilona Szatmári Waldau, componente della commissione parlamentare sulla UE, indicando come principale motivazione che «non vogliamo che il budget della UE si gonfi ulteriormente e che la Svezia debba pagare sempre di più». Il segretario uscente Jonas Sjöstedt e l’europarlamentare Malin Björk, in un editoriale sul quotidiano Aftonbladet, paventano il rischio di ingerenza della Commissione nelle politiche degli Stati membri, e denunciano l’inefficacia della spesa europea, i cui fondi, dirottati dagli investimenti per il clima e per il welfare, finirebbero «nelle tasche degli oligarchi di Orbán e dei burocrati di Bruxelles». La preoccupazione per l’assenza di condizionalità democratiche, a fronte di importanti somme dirette ad alcuni Paesi dell’Est Europa (in particolare Ungheria e Polonia), è un elemento critico condiviso da più voci oltre al Vänsterpartiet: in questo senso, hanno preso recentemente posizione ad esempio lo scrittore ed editorialista Göran Greider, vicino alla sinistra socialdemocratica, o l’ex-ministra della cultura Alice Bah Kuhnke, attualmente europarlamentare dei Verdi.

Sjöstedt e Björk chiedono al Governo di tenersi fuori dal Recovery Fund, sostenendo che «il fondo per la ripresa dovrebbe essere una questione dell’eurozona, e non nostra». Sulla stessa linea, Szatmári Waldau spiega che «la Germania e i Paesi ricchi dell’Eurozona hanno imposto politiche su altri, come Grecia, Italia e Spagna, che hanno fatto sì che questi si trovino senza risorse per affrontare la crisi del Covid, e ora devono assumersi la gran parte della responsabilità». L’argomento secondo cui il problema sarebbe dell’eurozona, e non dell’UE nel suo complesso, è portato avanti, in termini diversi, anche dai firmatari di un recente articolo sul quotidiano Expressen, figure di spicco vicine ai Socialdemocratici, che accusano il Recovery Fund di essere di fatto mirato a difendere la tenuta dell’Unione Monetaria e di avere poco a che fare con esigenze della UE, dal momento che la prima è seriamente minacciata da divergenze di condizioni economiche tra Paesi, mentre il mercato unico, secondo gli autori, non lo è affatto: «si può benissimo commerciare in un mercato unico nonostante grandi differenze di livelli di prosperità». Szatmári Waldau, più in generale, aggiunge: «noi sinistre nel Nordeuropa pensiamo che delegare decisioni alla UE peggiori le condizioni che abbiamo ottenuto qui, grazie a un maggior successo nella collaborazione tra Governi e rappresentanti dei lavoratori. In Europa del Sud o dell’Est, dove ad esempio i salari sono più bassi, delegare maggiormente decisioni alla UE può essere visto come positivo».

Nonostante l’opinione pubblica sia nel suo insieme sempre più europeista, queste posizioni riflettono tensioni presenti in una parte dell’elettorato di sinistra e degli iscritti al sindacato, che identifica la crisi del modello svedese con le politiche europee di stampo neoliberista. In realtà, anche in Svezia la svolta neoliberista inizia prima dell’adesione all’Unione Europea (avvenuta nel 1995), e procede su linee in parte indipendenti: già negli anni ´80, ha osservato il sociologo Göran Therborn, le disuguaglianze hanno iniziato a crescere vertiginosamente, guidate dalla concentrazione verso l’alto della ricchezza e dall’aumento dei redditi da capitale, grazie a deregolamentazione dei mercati finanziari e misure a vantaggio dei proprietari immobiliari. Ai primi anni ´90 risale l’ingresso dei privati nel welfare, in particolare nella scuola, nella sanità e nell’assistenza agli anziani – settori su cui la discussione è stata ovviamente intensa durante la crisi del Covid. Una terza tappa della traiettoria neoliberista risale infine ai governi di centrodestra dell’Alliansen (2006-2014) che hanno approvato riforme fiscali e tagli dei sussidi pubblici. Come sottolinea Therborn, il grande aumento delle disuguaglianze è largamente dovuto a decisioni politiche, di cui condividono la responsabilità sia la destra sia i governi socialdemocratici dai primi anni ’80 in poi.

Non mancano posizioni critiche all’interno dei Socialdemocratici. «La Svezia è stata per un bel po’ di tempo un paese estremamente conservatore per quanto riguarda le idee di politica economica» ci dice in un’intervista Markus Kallifatides, professore alla Stockholm School of Economics ed esponente dei Reformisterna, un’associazione interna al partito socialdemocratico che ne rappresenta l’ala più progressista, e che ha lavorato intensamente negli ultimi anni per riportare al centro dell’agenda socialdemocratica la lotta alle disuguaglianze e l’analisi di classe. Tra le poche voci dissidenti nel partito al governo, i Reformisterna hanno chiesto al premier di cambiare posizione e di sostenere una proposta ambiziosa di Recovery Fund, a condizione che l’UE non ripeta gli errori commessi durante la crisi finanziaria post-2008. «In Svezia come in tutta Europa, il principale problema è l’aumento delle disuguaglianze, e la difficoltà delle politiche pubbliche di migliorare le condizioni di vita delle persone» sostiene Kallifatides. La lotta alle disuguaglianze rafforza la democrazia, e «la democrazia ha bisogno di muscoli: l’Unione Europea ha impedito agli Stati membri di sviluppare i loro, senza averne di propri. La UE non ha messo al centro il miglioramento della vita quotidiana delle persone, dei lavoratori che faticano ad arrivare a fine mese. Le divisioni di classe sono enormi, all’interno della stessa Svezia. La UE non ha contrastato queste disuguaglianze, me neanche i Governi nazionali». Anche se la proposta della Commissione non è perfetta, aggiunge Kallifatides, «si percepisce finalmente uno spostamento in una direzione progressista», con provvedimenti finalizzati a una ripresa trainata da investimenti, alla creazione di posti di lavoro attraverso investimenti “green”, a interventi territoriali di interesse pubblico e alla riconversione ecologica. «Il nostro partito è stato purtroppo sulla difensiva per un lungo periodo e ha cercato di posizionarsi come “migliore” nel tenere in ordine le finanze pubbliche – migliore dei principali oppositori – giocando così sul loro campo» e l’obiettivo dei Reformisterna è di riportare i Socialdemocratici sul proprio terreno.

Come sappiamo, dopo lunghe trattative che hanno trasformato l’ultimo vertice del Consiglio nel più lungo summit europeo dai tempi di Nizza, i frugal four hanno accettato un compromesso descritto perlopiù come una vittoria dell’accordo franco-tedesco e dei paesi dell’Europa meridionale, in primis l’Italia. Nonostante la Svezia e i suoi alleati abbiano “spuntato” l’aumento della quota di prestiti nel Recovery Fund e il contenimento del bilancio generale UE rispetto alle rispettive proposte iniziali, non si leggono entusiasmi sui media svedesi.

Subito dopo la conclusione del vertice, il premier Löfven ha difeso l’accordo raggiunto, lodando la priorità data agli investimenti sostenibili e climate-friendly e ricordando che gli sconti negoziati dalla Svezia sul contributo annuale al bilancio UE nei prossimi anni sono i più alti di sempre. Il Vänsterpartiet ha però lamentato il compromesso al ribasso sulle clausole di rispetto dello Stato di diritto e promette di ricorrere al Consiglio costituzionale, perché l’assenso dei negoziatori svedesi a Bruxelles non rispetterebbe il mandato ricevuto dai parlamentari a Stoccolma.

Insomma, il dibattito sul Recovery Fund non accenna a chiudersi. L’accordo è stato accolto con favore da molti nel campo progressista europeo, perché – nonostante alcune criticità – può rappresentare un importante passo avanti verso una politica fiscale comune. La sensazione è che, a parte alcune voci dissonanti, questo sia proprio il motivo per cui suscita perplessità e scetticismo nella sinistra svedese, tanto radicale quanto “di governo”.

Gli autori

Cristiano Lanzano

Cristiano Lanzano è un antropologo culturale e si occupa di politica, economia e risorse naturali in Africa occidentale. Vive e lavora a Uppsala, da dove segue la politica svedese (su cui ha scritto in passato per "il manifesto" e "Sbilanciamoci").

Lara I. Vernaccia

Lara I. Vernaccia è un'economista e si occupa di politiche europee e di questioni di economia internazionale e dello sviluppo.

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