Si è molto dibattuto sugli effetti geopolitici dell’epidemia COVID-19. Alcuni le attribuiscono effetti dirompenti sugli equilibri fra le grandi potenze. Molti, con sfumatura più sottile, ne evidenziano il ruolo catalizzatore nell’accelerare tendenze già in atto o latenti. Sia in Asia che in Europa si è seguito un percorso che dalla crisi sanitaria ha portato a limitazioni dei rapporti sociali e delle attività economiche, applicando modelli di gestione dell’epidemia che hanno riflesso differenze ideologiche, politiche e culturali. Negli Stati Uniti, alle due crisi (quella epidemiologico/sanitaria e quella economica) che hanno caratterizzato gli altri Paesi si è presto aggiunta la dimensione tipicamente americana del conflitto razziale: l’uccisione brutale di George Floyd da parte della polizia ha infatti riaperto la piaga del comportamento abusivo delle forze dell’ordine nei confronti degli afroamericani, esibendo di nuovo il peccato originale del razzismo, che neppure la Presidenza di Obama, dopo decenni di rivendicazioni per i diritti civili e rivoluzioni culturali apparentemente irreversibili, è riuscita a redimere.
Si è trattato di un tragico “incidente” non correlato direttamente con l’epidemia, ne’ con la recessione che ne è seguita. Esso ha però costituito l’occasione per un movimento di contestazione che, pur avendo avuto precedenti sotto il segno di Black Lives Matter, non aveva raggiunto fin dagli anni ’60 una dimensione di massa comparabile, ne’ un’analoga capacità di suscitare simpatie e consensi anche in ampi settori della popolazione bianca. Lo dimostrano la vastissima percentuale (76%) di Americani che considererebbero ormai il razzismo come uno dei principali problemi del Paese e il quasi altrettanto consistente sostegno (64%, secondo Reuters/Ipsos) alle mobilitazioni di giugno. E’ proprio questa terza crisi che ha preso il sopravvento. Essa ha agito da catalizzatore di tutti i conflitti latenti provocati prima dall’epidemia, che proprio fra la popolazione nera e le minoranze etniche meno protette aveva mietuto la maggior parte delle vittime, e poi dalla recessione, con le sue pesanti conseguenze sociali e occupazionali (la popolazione dei disoccupati avrebbe ormai raggiunto cifre enormi, intorno ai trenta milioni secondo le stime più clementi).
Come ha osservato l’economista Roubini, le proteste suscitate dall’uccisione di George Floyd hanno assunto da subito una fortissima dimensione sociale, ciò che spiega come la partecipazione dei giovani bianchi disoccupati o sottoccupati alle manifestazioni degli afroamericani sia stata così rilevante. Forse per la prima volta, si è assistito a una mobilitazione su tematiche di interesse generale di un ceto emergente ma disperso e frammentato all’interno della working class: il precariato composto da lavoratori a tempo parziale e con contratti temporanei gravitante intorno al mercato del lavoro della cosiddetta gig economy, divenuto ormai centrale per una quota sempre più consistente di forza lavoro giovanile scolarizzata [N. Roubini, The stock is deluding itself, intervista a Spiegel International, 12 giugno 2020 ].
L’evoluzione delle tre crisi non è stata lineare, ma ha seguito un processo tortuoso in cui si sono intrecciate la dimensione sanitaria, quella sociale innescata dalla recessione e infine quella razziale e politica, riflettendo così per intero la complessità del panorama americano. Le caratteristiche federali del Paese e la sua stessa eterogeneità economica, sociale e politica hanno favorito approcci radicalmente diversi da Stato a Stato al controllo dell’epidemia, che in parte sono stati determinati dalla diversa incidenza del contagio, assai minore nel Midwest, e in parte hanno riflesso gli indirizzi politici prevalenti nei singoli Stati. Non sono mancate le manifestazioni di radicale rifiuto delle politiche di confinamento che erano state varate soprattutto da parte dei Governatori Democratici. Le mobilitazioni in favore della riapertura sono state promosse e sostenute non solo dalle frange di destra estrema e suprematiste, ma anche da una popolazione bianca apparentemente simile, nella sua composizione, ai settori di classe lavoratrice della Rust Belt che alle elezioni del 2016 avevano voltato le spalle al Partito Democratico votando in massa per Trump. E’ probabile che, anche in questo caso, siano prevalse reazioni simili contro politiche ritenute elitarie e poco sensibili alle preoccupazioni primarie di chi ha visto in pericolo, anzitutto, la stabilità del posto di lavoro e la propria immediata sussistenza. Non può pertanto sorprendere che queste manifestazioni siano state accolte con aperta simpatia dal Presidente, con la cui strategia esse si trovavano in consonanza.
Per un certo tempo le reazioni negative nei confronti della controversa, oscillante e contraddittoria performance del Governo federale nel contrasto all’epidemia sono state bilanciate da una sostanziale approvazione del consistente pacchetto di aiuti economici varato dal Governo e dal Congresso dopo un lungo negoziato che ha coinvolto anche l’opposizione. Ne è riflesso eloquente il sorprendente picco elevato di consensi verso l’operato complessivo del Presidente Trump raggiunto nel mese di aprile [Cfr. W. Galston, Presidential approval: Trump’s re-election prospects look bleak, in www.brookings.edu], mentre il suo indice di gradimento ha poi continuato a declinare vistosamente per raggiungere infine il punto più basso, con un distacco di nove punti rispetto a Biden e una significativa erosione nel sostegno da parte delle donne e dei bianchi meno scolarizzati, proprio nella prima settimana di giugno, segnata dalle manifestazioni di protesta [N.Cohn, New numbers suggest a major erosion of Trump’s support, in New York Times, 10 giugno 2020]. Anche se non si conoscono analisi statistiche in grado di stabilire correlazioni fra le tre distinte crisi, sembra lecito supporre che proprio il diffuso rigetto del razzismo abbia finito per avere un effetto di trascinamento, sommando la forte percezione negativa per le reazioni presidenziali alle proteste (appoggiate solo dal 35% degli americani) a quelle per la gestione della crisi sanitaria e alle insoddisfazioni crescenti della classe lavoratrice. E’ possibile che questa apparente saldatura abbia avuto luogo dietro l’impulso predominante del precariato giovane e scolarizzato della gig economy, lontano dalla cultura della vecchia classe operaia, meno gravato di pregiudizi e più sensibile a rivendicazioni di diritti e libertà. Difficile perciò dire se queste settimane abbiano provocato anche un durevole slittamento di percezioni anche in quei settori popolari che avevano fin qui sostenuto Trump. L’erosione di consensi fra i bianchi meno scolarizzati captata dai sondaggi della Gallup e riportata da CNN e New York Times sembrerebbe confortare tale ipotesi, anche se dati di altra fonte [Sondaggi Wall Street Journal/NBC e The Economist/YouGov, riportati da J. Cassidy, Economic reality bites Wall Street and Trump, in New Yorker, 12 giugno 2020] continuano a riflettere una diffusa opinione che il Presidente in carica sia “più affidabile” di Biden per ridurre il tasso di disoccupazione e assicurare una ripresa economica.
L’andamento dell’economia sembra quindi rappresentare, in contrasto con l’appannamento dell’immagine del Presidente in tutti gli altri campi, la variabile cruciale su cui egli può ancora contare per incarnare di nuovo quella improbabile saldatura che si era realizzata alle elezioni del 2016, almeno sul piano delle percezioni e delle attese, fra gli interessi del settore finanziario e delle grandi corporations e quelli dei ceti popolari e delle classi medie declassati dalla globalizzazione e delusi dalla conversione “neo-liberale” del Partito Democratico.
Com’è apparso evidente fin dall’inizio, quando Trump aveva intenzionalmente minimizzato l’impatto dell’epidemia, l’Amministrazione federale ha scelto, fra i diversi modelli epidemiologi, quello che prevedeva un minor numero di casi critici, ritenendo quindi non indispensabile un confinamento rigoroso e indefinito. Quest’azzardo, che ha comportato l’assunzione di grossi rischi, sembra essere stato la conseguenza di alcuni tratti caratteristici del modello di crescita degli Stati Uniti. Come ha affermato l’economista Mark Blyth, una differenza sostanziale fra il modello di sviluppo americano e quello di economie trainate dall’esportazione come quelle dell’Europa nord-occidentale, consiste nella presenza, in queste ultime, di ampie strutture di welfare dotate della precisa funzione di assorbire gli shock economici. Negli Stati Uniti, dov’è la flessibilità del mercato del lavoro che supplisce alle deficienze del welfare state, a seguito di uno shock come quello attuale la prima reazione non è quella di proteggere le imprese e i posti di lavoro, ma piuttosto di salvare il sistema finanziario e di lasciare che l’economia assorba poi il colpo, attraverso la disoccupazione e l’aggiustamento dei prezzi. Poiché un simile modello non è sostenibile in caso di una prolungata chiusura dell’economia, la scelta quasi obbligata da parte di Trump è stata, come aveva del resto previsto Blyth nel marzo scorso, di “salvare temporaneamente le imprese, sostenere in parte il consumo e abbandonare il confinamento appena possibile” [Sondaggi Wall Street Journal/NBC e The Economist/YouGov, riportati da J. Cassidy, Economic reality bites Wall Street and Trump, in New Yorker, 12 giugno 2020]. Se queste peculiarità del modello di sviluppo americano hanno influito sia sulla scelta del modello epidemiologico, sia sulle caratteristiche del “pacchetto di stabilizzazione” approvato alla fine di marzo [“Non si tratta per nulla di uno stimolo economico. E’ una serie di pagamenti di sopravvivenza, che dureranno soltanto alcuni mesi” era stato il commento a caldo di J. Tankersley, “A lifeline? At least for a few months”, in New York Times, 26 marzo 2020], un decisivo impulso – tutto politico – è venuto dall’imminenza delle elezioni presidenziali, che ha accresciuto l’urgenza di esibire al più presto concreti segnali di ripresa economica. La scelta politica di sottostimare l’impatto dell’epidemia per puntare tutto sulla riapertura si è ovviamente basata sull’assunto che gli effetti della prima fossero assimilabili a quelli di uno shock esterno di breve durata, superabile da una rinnovata fiducia di consumatori ed investitori, sostenuti da adeguate misure di politica fiscale. La medesima fiducia, del resto, ha a lungo prevalso fra gli operatori finanziari, producendo una singolare divaricazione fra la vivacità della Borsa e l’andamento pesantemente negativo dell’economia reale, anche se confortato a maggio da dati inaspettatamente favorevoli sull’aumento dell’occupazione. La stessa Federal Reserve ha presto raffreddato gli entusiasmi eccessivi [Powell delivers a stark message to the markets, in Financial Times, 12 giugno 2020], mentre molti economisti hanno sollevato fondati dubbi che una ripresa rapida come quella auspicata possa effettivamente realizzarsi [Harvard’s Reinhart and Rogoff say this time really is different, in www.bloomberg.com, 18 maggio 2020, e J.K. Galbraith, The illusion of a rapid US recovery, in Project Syndicate, 9 giugno 2020]. Vi osterebbero le modifiche strutturali intervenute dagli anni ’60 a questa parte nell’economia americana a causa della globalizzazione: la flessione della domanda internazionale riguarderebbe in particolare i beni d’investimento e i servizi avanzati in cui gli Stati Uniti si sono specializzati, mentre l’incertezza e l’insicurezza sulle prospettive di lavoro si rifletterebbero inevitabilmente su una maggiore propensione al risparmio piuttosto che al consumo, colpendo in particolare tutto l’esteso settore dei servizi su cui la domanda interna si era andata sempre più orientando, in rapporto alla quota (un tempo predominante) riservata ai beni di consumo durevoli, adesso importati in maggiore proporzione. Una buona parte delle carte economiche di Trump si gioca sulla scommessa che questo scenario depressivo più profondo non si materializzi, o venga quantomeno oscurato e attenuato da una ripresa congiunturale nell’ultima parte dell’anno, ciò che è certamente possibile ma non contraddice conseguenze negative più a lungo termine. Un ultimo aspetto riguarda, infine, i possibili effetti distributivi asimmetrici del pacchetto di aiuti economici, che – a causa delle caratteristiche del “modello” economico americano citate in precedenza – rischiano, come già avvenuto dopo la crisi finanziaria del 2008, di beneficiare le grandi corporations più delle piccole imprese e dei lavoratori individuali: le prime potranno contare su un’assistenza a lungo termine attraverso gli interventi della FED, mentre per i secondi sono per ora previste solo elargizioni di entità ridotta e a breve termine [ T. Wu, How to avoid a “rich man’s recovery”, in New York Times, 23 giugno 2020.
Il dato economico sarà certamente cruciale nelle strategie elettorali ma va comunque valutato all’interno di uno scenario politico che le crisi degli ultimi mesi hanno profondamente trasformato, riportando in primo piano questioni latenti che proprio il buon andamento complessivo dell’economia nel primo triennio di Trump aveva posto relativamente in sordina, quali le carenze del sistema sanitario americano, l’insufficienza dei sistemi di assicurazione sociale e da ultimo e soprattutto, l’ancora irrisolta e drammatica questione dei pregiudizi e delle discriminazioni razziali. Specialmente su quest’ultima questione, come si è visto, i sondaggi colgono uno spostamento dell’opinione pubblica in senso progressista che sembra travalicare i consueti confini dei partiti, ridimensionando il sempre più frequente appello del Presidente allo slogan nixoniano della “maggioranza silenziosa”. Resta da vedere quanto questa scossa nell’opinione pubblica abbia modificato in profondità, o quantomeno incrinato, un panorama politico che pareva cristallizzato in una marcata polarizzazione fra i due maggiori partiti, con un Partito Repubblicano ormai spostato su posizioni identitarie che, proprio per quanto riguarda il suo atteggiamento nei confronti delle minoranze etniche e il rispetto dei valori liberal-democratici, lo collocherebbero molto più a destra della posizione conservatrice ad esso attribuita convenzionalmente, e in sostanza ben più vicino – secondo i nostri parametri – ai partiti “illiberali” dell’Est che ai Popolari Europei [ B. Walker, How do Trump’s Republicans compare to the rest of the world’s political parties?, in New Statesman, 6 giugno 2020; S. Chinoy, What happened to America’s political center of gravity?, in www.nytimes.com, 26 giugno 2019].
Lo spostamento del centro di gravità della politica americana intorno al quale i due maggiori Partiti avevano orbitato almeno sino alla fine degli anni ’60 è avvenuto gradualmente. Per quanto riguarda i Repubblicani, il loro scivolamento su posizioni di destra tinte di nazionalismo populistico si è verificato soprattutto dopo il ripiegamento dalla Presidenza “imperiale” di George W. Bush, con molti tratti autoctoni (il Tea Party, i gruppi di pressione come i Citizens United che hanno rafforzato il potere delle lobby d’affari sulla selezione delle élite politiche e sui processi elettorali e la crescente influenza delle correnti evangeliche fondamentaliste), ma non senza analogie con le trasformazioni subite altrove, specialmente in Europa, dalla Destra tradizionale. Fenomeni per certi versi simili erano già accaduti anche in un lontano passato. Analogie sono state rinvenute con la situazione del 1880-1890 quando, in reazione alle sempre più organizzate Labor Unions, il Partito Repubblicano aveva abbandonato Lincoln e la sua visione d’una società “armoniosa” e interclassista per allinearsi agli interessi dei “baroni industriali”, in una fase che aveva visto la rapida industrializzazione del Paese accompagnata (come adesso) da un parallelo aumento della concentrazione della ricchezza e delle diseguaglianze sociali [H. Cox Richardson, A political historian explains why Republicans’ shift to the extreme right could backfire, in https://qz.com, 14 novembre 2016]. Mancava, certo, l’ingrediente del populismo che, negli Stati Uniti come in Europa, è oggi soprattutto il portato della globalizzazione e delle profonde trasformazioni nei modi di produzione che ne sono conseguite, che hanno declassato e svalorizzato ampi settori sia della classe lavoratrice, sia dei ceti medi.
Nonostante i precedenti storici non manchino, proprio la polarizzazione politica sembra costituire l’elemento più emblematico e preoccupante della situazione americana attuale, ad occhi americani che hanno ancora ben presenti sia i tratti della affluent society, sia l’immagine di un ordinato gioco di alternanza politica governato dal centro. Sembra influenzato da questa percezione anche un politologo tedesco-americano come Yasha Mounk, attento osservatore del populismo, il quale si spinge ad attribuire la divisione senza precedenti del Paese alle narrative estremizzate di “una parte delle classi dirigenti, di destra ma anche di sinistra”, che sarebbero in contrasto con un atteggiamento in maggioranza molto più equilibrato del “popolo americano” [Y. Mounk, L’estremismo delle élite USA, in La Repubblica, 13 giugno 2020].
La realtà sottesa alla “polarizzazione” americana è però più complicata, com’è stato evidenziato – da punti di vista teorici e politici distanti ma complementari [Amy Chua, Divided we fall. What is tearing America apart?, in Foreign Affairs, July/August 2020], da due studi recenti. Il primo [Ezra Klein, Why we’re polarized, Simon and Schuster, 2020] si è soffermato sul processo che, a partire dagli anni ’60, ha investito i due principali partiti americani, trasformandoli, da formazioni ideologicamente e sociologicamente composite, in gruppi più identitari e caratterizzati da una distinta composizione etnica: minoranze, neri e bianchi liberal o progressisti con i Democratici e soprattutto bianchi (circa il 90%) con i Repubblicani. Secondo questa chiave di lettura “identitaria”, tanto la radicalizzazione del Partito Repubblicano, quanto la prevalenza di Trump sulle tradizionali élites aristocratiche del partito sarebbero state prodotte dal crescente timore della popolazione bianca meno privilegiata di perdere il proprio status sociale relativo, a causa dei mutamenti demografici prodotti in parte dalle migrazioni e a fronte dell’ascesa sociale e politica delle minoranze, emblematicamente rappresentata dalla Presidenza di Obama.
Da una prospettiva di una “destra” moderata e non populista, un secondo studio [M. Lind, The new class war, Portfolio/Penguin, 2020] adotta invece una lettura paradossalmente “di classe” degli stessi fenomeni. Secondo Michael Lind, dopo un periodo di oltre trent’anni dalla fine della seconda guerra mondiale in cui era rimasto in vigore un contratto sociale improntato a una sostanziale condivisione del potere con le classi lavoratrici, che avevano così potuto beneficiare di una forte protezione sindacale e di salari crescenti, la fine del comunismo e della guerra fredda avrebbero favorito una opposta rivoluzione dall’alto. Una nuova overclass composta di élites manageriali – tanto conservatrici quanto liberal – avrebbe imposto un neoliberalismo tecnocratico che, cogliendo l’opportunità della globalizzazione, avrebbe progressivamente eroso le posizioni delle classi lavoratrici, fiaccando la forza contrattuale dei sindacati, congelando i salari reali e ricreando un’enorme diseguaglianza economica. L’ascesa, non soltanto negli Stati Uniti, di movimenti populistici facilmente manipolabili da demagoghi, sarebbe la diretta conseguenza delle frustrazioni prodotte da questo processo che ha progressivamente consolidato l’egemonia economica, sociale e culturale di una nuova e composita “classe” egemone, definita secondo parametri eclettici in cui si sentono echi di Veblen e di Galbraith, ben più che di Marx.
Ciascuna delle due analisi adotta una chiave di lettura unilaterale: l’identità nel caso di Klein, le motivazioni di classe per Lind. Entrambe presentano carenze concettuali e lacune. Insieme, però, esse descrivono una realtà complessa, cogliendone diversi strati o sfaccettature: il divario non solo ideologico ma anche etnico e razziale fra i due maggiori partiti e le indubbie caratteristiche di classe (ma in parte e nello stesso tempo anche “razziali”) della rivolta populista di una parte consistente delle classi lavoratrici contro le élites: una rivolta che in apparenza ha colpito soprattutto Hillary Clinton e i Democratici, ma in realtà ha piegato a un’ingloriosa capitolazione anche l’aristocrazia repubblicana, costringendo a un impressionante ripiegamento entro i confini nazionali un partito che, poco più di un decennio fa, era ancora guidato da baldanzosi Neocon, lanciati verso l’esportazione manu militari della democrazia americana. Di fronte a una percepibile involuzione del sistema americano a causa di conflitti identitari o di classe le due analisi non sembrano trovare soluzioni condivise, anche se finiscono per trovare qualche punto di convergenza proprio al di fuori della “grande politica”. Klein rivendica la necessità di diluire le rigide e polarizzate identità etniche e politiche in una prassi imperniata soprattutto sulle realtà locali, mentre Lind vede una via d’uscita nella restaurazione di un “pluralismo democratico” fatto d’istituzioni ed entità intermedie, politiche o sindacali, laiche o religiose, capaci di limitare e controllare gli eccessi delle élites e di restituire voce e potere alle classi lavoratrici. Forse queste ricette, pur rappresentando bene certi aspetti fondanti della cultura politica americana, quali la fiducia in una rigenerazione politica dal basso (grassroots) mediante istituzioni comunitarie di base, appaiono troppo frettolose, risultando specialmente estranee ai modi pensare europei. Analisi come quelle di Klein o Lind riescono tuttavia a dar conto della complessità dei comportamenti politici americani, radicati in identità difficili da scalfire e sovrapposte a vecchi e nuovi conflitti di classe, acuitisi in forme diverse negli ultimi decenni.
Le mobilitazioni di giugno, che il profondo disagio sociale prodotto sia dalla crisi sanitaria che da quella economica hanno contribuito ad esaltare, sembrano aver messo in moto dinamiche positive soprattutto nel campo delle diseguaglianze razziali, attivando non soltanto le coscienze ma anche concrete politiche di riforma con al centro il problema della accountability delle forze di polizia, spia sensibile di una situazione diffusa di pregiudizio razziale. E’ presto per valutare se questo movimento, nato su una questione specifica anche se alimentato da altre crisi, sia dotato di un potenziale trasformativo sufficiente per produrre un cambiamento radicale non solo sul piano culturale, ma anche su quello politico. Alcuni segnali in questo senso sembrano giungere da parti insospettate: se finora il tanto vantato sistema di checks and balances aveva fallito nell’intento di porre un argine alle tendenze autoritarie del Presidente, il maldestro tentativo di mettere in campo le forze armate contro i manifestanti ha prodotto una decisa battuta di arresto da parte di esponenti militari di primo piano, in carica e non. Questa sembra essere stata la prima, vera inversione di tendenza, cui hanno fatto poi seguito numerose altre defezioni in campo repubblicano, non solo da parte di quegli ex “adults in the room” che si erano in precedenza illusi di poter influenzare dall’interno la Casa Bianca. A queste crepe si sono aggiunte, più recentemente, le inattese sentenze sui diritti LGBT e degli immigrati giunti in minore età negli USA (DACA), entrambe in senso contrario alle attese del Presidente e, infine, le brucianti censure imposte alle esternazioni presidenziali dai social media che ne avevano finora assecondato l’aggressiva e martellante politica di comunicazione. I militari e il sistema giudiziario costituiscono due pilastri fondamentali del sistema americano. Trump ne aveva a suo tempo ben compreso l’importanza, circondandosi di personalità con le stellette e, approfittando degli avvicendamenti alla Corte Suprema, spostando gli equilibri della Corte in favore dei giudici di tendenza conservatrice.
Soprattutto le prese di posizioni critiche da parte dei militari, certo non sospetti di tendenze “progressiste”, potrebbe costituire il sintomo d’una salutare reazione in difesa delle istituzioni. Più complesso un giudizio sulla Corte Suprema, i cui ultimi pareri potrebbero essere più il frutto di un dibattito sul piano tecnico/giuridico che l’effettivo segnale di un’inversione di tendenza in senso liberale. Certo è che il sistema giudiziario, che ha opposto resistenze fin dai primi provvedimenti di Trump sull’immigrazione e continua a frapporsi all’impronta partigiana dell’attuale Dipartimento di Giustizia, continuerà a costituire un terreno di scontro, come anticipato dallo stesso Presidente in una recente intervista al Wall Street Journal [“Sto firmando ora la nomina di molti giudici….avremo potenzialmente quasi 300 giudici, tutti conservatori, molto rispettati. Resteranno in carica per molti anni”, in Transcript of President Trump’s interview with the Wall Street Journal, in WSJ, 18 giugno 2020], interpretabile come un primo abbozzo di programma elettorale. Non senza qualche malcelato imbarazzo sui punti più delicati delle “rivelazioni” di Bolton, come le asserite oscillazioni sulla Cina, Trump vi appare elusivo sulla pandemia e concentrato sui temi economici: difesa dell’acquis dei tre anni di Presidenza e, soprattutto, valorizzazione degli elementi positivi (crescita dell’occupazione e delle vendite al dettaglio, riapertura della grande maggioranza delle piccole imprese) che accrediterebbero una ripresa dell’economia già prima di novembre. Ne esce confermata la narrativa che si era tratteggiata all’inizio e che era apparsa per Trump quasi come una strada obbligata, anche se non priva di rischi.
Rimasto in ombra (ma anche meno esposto) durante la fase più acuta dell’epidemia, Biden sembra aver recuperato apprezzamento e consensi, ancor più per demerito dell’avversario che per merito proprio, da un’inaspettata fase “di movimento” per la quale non appariva in principio tagliato. Il suo profilo moderato non ne potrà certo uscire completamente ribaltato: esso (a parziale correzione delle tesi di Ezra Klein) rispecchia infatti le caratteristiche d’insieme di un Partito Democratico che ha risentito in maniera minore dei Repubblicani delle tendenze alla polarizzazione, registrando sì un certo spostamento a sinistra ma restando ancora fondamentalmente una “big tent“, un ampio contenitore di tendenze diverse. L’impatto delle tre crisi ha però prepotentemente riportato in primo piano, oltre alla questione razziale da sempre irrisolta, anche le istanze sociali che erano state al centro della campagna di Sanders e che rispondono a profonde modificazioni del panorama economico, sociale ed infine politico, indotte dalla globalizzazione e dalla “rivoluzione dall’alto” che l’ha accompagnata. Nel dibattito intellettuale e soprattutto economico di queste settimane si colgono bene queste inquietudini. Economisti come il Nobel Angus Deaton s’interrogano sugli “United States of Despair” soffermandosi sulle diseguaglianze che si sono approfondite nell’ultimo decennio attraverso una costante flessione dei salari reali, rischiando di essere ancora accentuate dalla recessione prodotta dal COVID-19, mentre altri rivendicano la necessità di un nuovo “contratto sociale” che affronti i problemi strutturali dell’insicurezza economica e delle diseguaglianze con nuove strategie, focalizzate sul cambiamento dei modi e processi di produzione e sull’integrazione dell’agenda dello sviluppo con quella sociale [A. Case, A. Deaton, United States of Despair e D. Rodrik, Stefanie Stantcheva, The post-pandemic social contract, in Project Syndicate, 15 e 11 giugno 2020]. Su un piano più generale, analisi come quella di M. C. Klein e M. Pettis [M.C. Klein e M. Pettis, Trade wars are class wars, Yale University Press, 2020] hanno messo a fuoco i nessi fra compressione salariale e ineguaglianze, crescita trainata dalle esportazioni e surplus strutturali in alcuni Paesi (Cina e Germania) e finanziarizzazione dell’economia negli Stati Uniti. Le medesime analisi hanno prodotto un’adeguata spiegazione teorica della reazione avversa alla globalizzazione che ha trovato espressione in Trump, fornendo anche spunti per una possibile strategia progressista alternativa. Ritornano inaspettatamente centrali, in questo dibattito, l’importanza attribuita ai fenomeni del conflitto sociale non come elemento distruttivo ma come possibile stimolo riformistico, e l’attenzione rinnovata a una “nuova classe operaia”, i cui comportamenti politici sono stati spesso imprevisti e spiazzanti in rapporto alla sua immagine tradizionale ma che ha riassunto anche un inedito protagonismo nei mesi del confinamento, coprendo tutte le filiere più esposte ed essenziali delle produzioni e dei servizi strategici. Interesse rinato anche nel Regno Unito, dove la classe operaia ha assunto, con Brexit, un ruolo analogo a quello giocato negli USA con il sostegno a Trump [si veda Battle for the working class, in the Economist, 13 giugno 2020].
Il risultato delle elezioni di novembre dipenderà da molti fattori, alcuni dei quali in parte imponderabili (l’evoluzione dell’economia e l’andamento dell’epidemia), mentre altri saranno oggetto di una competizione che si preannuncia aspra su diversi terreni di scontro: le manovre spregiudicate negli swing states e sulle procedure elettorali e certamente anche il conflitto istituzionale per riaffermare il “privilegio esecutivo” e per stabilire un più stretto controllo sul giudiziario. Un’agenda progressista come quella che Biden intenderebbe ora rappresentare, imprimendo al suo programma un’ampiezza di visione all’altezza di quella che lui stesso ha definito “un’era di trasformazione”, difficilmente potrà avere successo, se non riuscirà a incidere anche sui temi sociali di fondo di cui il nazional-populismo di Trump si è finora agevolmente appropriato. Le tre crisi gliene offrono un’imprevista occasione.