Un’inchiesta senza fine: l’omicidio Palme 34 anni dopo

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«Enorme disappunto», «anticlimax», «fiasco totale» sono alcuni dei commenti a un evento atteso da oltre trent’anni: la conferenza stampa della Commissione d’inchiesta sull’omicidio del primo ministro svedese Olof Palme, convocata il 10 giugno per rivelare l’identità del colpevole. Il procuratore a capo dell’indagine, Krister Petersson, ha indicato in Stig Engström, soprannominato «l’uomo della Skandia», dal nome della ditta in cui lavorava come grafico, il sospettato principale. Quanto al suo coinvolgimento in un complotto che potrebbe aver visto coinvolti tanto i servizi segreti svedesi quanto la polizia politica sudafricana, non si può escluderlo – concede Petersson – ma non vi sono evidenze al riguardo.

A disattendere le aspettative non è stata solo la circostanza che il nome circolava già da tempo (anche grazie all’inchiesta del giornalista Thomas Pettersson, pubblicata nel 2018), ma anche il fatto che a carico di Engström sono state portate solo prove indiziarie: tra i primi a giungere sul luogo dell’attentato, avrebbe fornito versioni incoerenti sui suoi movimenti in quelle ore e per giunta contraddittorie rispetto a quelle di altre persone presenti sul posto; corrisponderebbe poi all’identikit fornito (nel 1986!) da alcuni di questi testimoni. Elementi che – secondo molti giuristi – non basterebbero neppure per accusarlo formalmente. Il problema non si pone, tuttavia, perché l’uomo della Skandia è morto – suicida – nel 2000. In breve: Engström, entrato subito nell’indagine perché presentatosi spontaneamente alla polizia, viene additato come il colpevole di uno dei più eclatanti delitti politici del dopoguerra a 34 anni di distanza dal crimine, a 20 dalla sua morte e – ciliegina sulla torta – senza l’arma del delitto (che non è mai stata trovata).

La conferenza stampa del 10 giugno ha posto fine all’inchiesta, archiviata perché, ha detto il procuratore, più di così non si può fare (certo, dopo 34 anni…) ma non ha affatto sanato il trauma nazionale. Del resto, un finale così sottotono, per una delle maggiori inchieste giudiziarie della storia (paragonabile, forse perfino superiore, come mole di documentazione, solo a quella sull’omicidio di Kennedy), è coerente con ciò che la Commissione ha rappresentato dall’inizio: il più grande fallimento della giustizia svedese.

Il 28 febbraio 1986, venerdì, era stato un giorno lavorativo come tanti, per Olof Palme; si prospettava un fine settimana senza impegni ufficiali e il primo ministro aveva deciso di andare al cinema – senza scorta – insieme con la moglie, Lisbeth, il figlio Mårten e la sua fidanzata. Ironia della sorte, per un uomo come Palme che fu tanto amato ma anche intensamente odiato, la scelta era caduta sul film di Suzanne Osten I fratelli Mozart, che narrava proprio di opposti sentimenti. All’uscita dal cinema (di fronte alla Skandia di Engström), le due coppie si separarono; mentre si avviavano verso la metropolitana i coniugi Palme furono raggiunti da un uomo che sparò due colpi. Uno colpì il primo ministro, che morì sul colpo, l’altro ferì, non gravemente, la moglie. I testimoni raccontarono che l’uomo imboccò di corsa la rampa di scale che portava a una via più in alto e sparì nel nulla.

La condotta della polizia apparve disastrosa sin dall’inizio. La scena del crimine fu delimitata inadeguatamente e per giunta lasciata incustodita per tutta la notte. Non stupisce quindi che i proiettili siano stati ritrovati non dagli investigatori, bensì da privati cittadini – in un punto distante una decina di metri dal luogo dell’agguato e che gli agenti avevano (in teoria) già controllato. Il numero di poliziotti assegnati all’indagine fu incredibilmente esiguo, considerando la gravità dell’accaduto, e i controlli (compresi i posti di blocco) decisamente inadeguati. Nessuno si preoccupò di mettere in sicurezza i membri del Governo, che non furono neppure informati. Il problema di fondo fu che per ore non fu chiaro chi avesse assunto il coordinamento delle indagini: il capo regionale della polizia, Hans Holmér, via per la settimana bianca, rimase irreperibile per tutta la notte. In compenso mostrò il pugno di ferro, quando assunse la responsabilità dell’inchiesta, grazie ai suoi buoni rapporti con il governo socialdemocratico: dopo pochi giorni fu fermato un trentatreenne estremista di destra, i cui diritti – si sarebbe saputo in seguito – furono ripetutamente violati, nonostante l’evidente assenza di prove. Holmér dedicò allora le sue energie a dimostrare la colpevolezza del PKK (i cui esponenti in Svezia erano trattati alla stregua di terroristi), ma anche questa pista si rivelò infondata, rivelandosi anzi una montatura. Lo scandalo che ne seguì costò la carriera a Holmén.

Nel 1988 la svolta: fu arrestato Christer Pettersson, un tossicodipendente non alieno da episodi di violenza. Lisbeth Palme lo identificò ma il riconoscimento fu inficiato da un vizio di procedura (di nuovo, l’inettitudine della polizia!), con il risultato che l’uomo fu rilasciato l’anno seguente. Del resto, che uno sbandato come lui potesse essere l’autore di un omicidio come quello, compiuto con grande freddezza e anche con notevole agilità (la corsa su per le scale) non aveva mai convinto granché. Molte altre piste si sono susseguite: CIA, KGB, fascisti croati, brigatisti italiani, la RAF, trafficanti d’armi indiani, squilibrati vari, poliziotti svedesi (molti di loro quella sera brindarono, per festeggiare l’omicidio) e molto altro ancora.

E ora, l’uomo della Skandia, che frequentava ambienti di destra, sapeva usare le armi, aveva problemi di alcool e di soldi e che, nonostante la sua sovraesposizione mediatica (un mitomane?), non fu mai considerato, dalle varie commissioni di inchiesta che si sono succedute in questi anni, degno di essere seguito da vicino. Ci fossimo stati noi avremmo fatto meglio, ha detto il procuratore Pettersson.

Palme meritava di più. La ferita della Svezia non è rimarginata; del resto, la campagna di odio che alimentò contro di lui la Confindustria svedese meriterebbe un’inchiesta a parte. Quanto alla dichiarazione della leadership socialdemocratica di voler raccogliere l’eredità del suo “martire”, è mera retorica: la politica che il partito di Palme porta avanti dagli anni Novanta è figlia del neoliberalismo, non del socialismo democratico.

Palme è sepolto nel giardino della chiesa di Adolfo Federico, a meno di duecento metri da dove è stato ucciso e a poca distanza dalla tomba di Hjalmar Branting, uno dei fondatori della socialdemocrazia. Visito la sobria lapide ogni volta che vado a Stoccolma. Spesso ci trovo fiori, ma so che ogni tanto è vandalizzata. Qualche anno fa mi sono accorta che nei pressi della lapide c’era, oltre a me, un uomo sui sessant’anni; ci siamo guardati per un po’ con aria interrogativa, e ci siamo accordati fiducia. Mi ha spiegato che per la sua famiglia di iraniani immigrati in Svezia Palme aveva significato moltissimo. Quando avevano appreso dell’omicidio alla radio, lui e i suoi genitori si erano messi a piangere. Avevano poi partecipato al funerale (affollatissimo) per rendere omaggio a un uomo che tanto aveva fatto per i Paesi come il loro, perché aveva dato sostanza alle parole “solidarietà internazionale”. Nel raccontarmi questa storia, si è commosso.

Gli autori

Monica Quirico

Monica Quirico, storica, è honorary research fellow presso l'Istituto di storia contemporanea della Södertörn University di Stoccolma. La sua ricerca verte sulla storia e la politica svedese, spesso in prospettiva comparata con l'Italia. Tra le sue pubblicazioni più recenti, Socialismo di frontiera. Autorganizzazione e anticapitalismo (Torino, Rosenberg & Sellier, 2018), scritto con Gianfranco Ragona.

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