Al 27 marzo la Svezia registra 3.046 casi accertati di Coronavirus (il test è effettuato solo sui soggetti sintomatici), con 209 pazienti ricoverati in terapia intensiva e 92 decessi dall’inizio del contagio. La situazione è grave ma non allarmante, dichiara Anders Tegnell, l’epidemiologo dell’Agenzia svedese per la sanità pubblica le cui stime sono alla base della decisione del Governo di introdurre pochissime restrizioni, affidandosi per il resto alla razionalità e al senso di responsabilità individuale. Le autorità hanno sconsigliato (non proibito) gli spostamenti (sia all’estero che sul territorio nazionale) e i contatti ravvicinati con gli anziani (il divieto di recarsi in visita alle case di riposo è stato introdotto solo a livello locale). È stato vivamente raccomandato lo smart working ove possibile, inclusa la didattica a distanza nelle Università (dove peraltro alcuni ricercatori continuano a tenere seminari face-to-face), ma le scuole rimangono aperte, così come bar e ristoranti (sia pure con qualche limitazione nel servizio). L’unico divieto valido sull’intero territorio riguarda gli assembramenti pubblici: il tetto massimo di 500 (sic!) persone stabilito giorni fa scenderà da domenica 29 marzo a 50 (!?), ma solo per gli spazi pubblici, trasporti esclusi. Incredibile a dirsi, considerando che molti svedesi si sono infettati venendo a sciare nel Nord Italia, le stazioni sciistiche rimarranno aperte durante le vacanze di Pasqua.
Sui media si ironizza sul contrasto tra il guanto di velluto svedese e il pugno di ferro danese: la Danimarca (così come Norvegia e Finlandia) ha infatti chiuso le frontiere, e le scuole, già da giorni, pur non sospendendo la libertà di movimento. La strategia svedese di mitigazione degli effetti della pandemia, anziché di soppressione del contagio attraverso la chiusura più o meno totale, suscita irritazione e preoccupazione non solo negli altri Paesi scandinavi, ma anche in Germania e in Italia, dove i media si chiedono quanto sia rischioso l’esperimento svedese.
Se si scarta – come chi scrive si augura di poter fare ‒ l’ipotesi che la Svezia si sia imbarcata in un gioco al massacro, alimentato magari dall’autocompiacimento per il proprio modello sociale, può non essere un esercizio ozioso riflettere su come le strategie di contenimento di un’epidemia non siano mai riducibili a una questione sanitaria, ma riflettano culture politiche diverse. Questi interrogativi appaiono particolarmente pressanti in un Paese come il nostro, che da più tempo e con più rigore è sottoposto a misure lesive dei diritti democratici e delle libertà individuali in nome dell’emergenza sanitaria, come è stato ricordato più volte su questo sito.
È bene sgombrare subito il campo da un equivoco: il motivo per cui la Svezia può permettersi di scegliere un approccio soft non sta nel suo invidiabile Welfare State. I posti letto sono inferiori in percentuale a quelli italiani e pochi mesi fa alcuni ospedali hanno dovuto sospendere gli interventi non urgenti per mancanza di attrezzature. Il neoliberalismo, con i tagli alla spesa pubblica e la privatizzazione di molti servizi, ha colpito duro anche al Nord, con l’attiva partecipazione dei socialdemocratici.
Ciò che semmai continua a distinguere la Svezia da molti altri Paesi è il rapporto tra esperti e decisori. Gli enti competenti nei vari ambiti della vita sociale (immigrazione, istruzione, o sanità, appunto) godono di una peculiare autonomia nei confronti del Governo; anche nelle situazioni di emergenza (la Svezia ne ha vissute poche, in verità) è a loro, non al Governo, che viene assegnata la somma responsabilità. Non è un caso, infatti, che sia l’Agenzia per la sanità pubblica a fornire il bollettino quotidiano del contagio e a indirizzare le scelte dell’esecutivo.
Questo “governo degli esperti” presenta tuttavia non poche zone d’ombra. Innanzitutto richiama l’ingegneria sociale, ossia una politica riformista basata sulla conoscenza e sulla tecnica, che in Svezia ha fornito, soprattutto grazie ai coniugi Myrdal, le fondamenta della costruzione del Welfare State ma ha anche partorito mostri (la sterilizzazione forzata dei soggetti, per lo più donne, non in linea con i canoni della società del benessere).
In questa prospettiva, inquieta che nel dibattito svedese circoli la formula dell’“immunità di gregge”: esplicitamente menzionata ai primi segni del contagio, poi negata tanto dagli esperti quanto dal Governo, e nondimeno persistente, se è vero che gli scienziati della clinica universitaria Sahlgrenska di Gothenburg stanno lavorando a un test che permetterebbe di capire quando la società raggiungerà questo stadio. In secondo luogo, è bene non dimenticare come una particolare categoria di esperti, gli economisti, abbia fornito l’alibi, in Svezia come altrove, per la svolta neoliberale, presentata come necessità tecnica anziché come scelta politica. Infine, non si capisce perché il parere degli scienziati sia decisivo in alcuni casi, ma non in altri. Anche in Svezia la comunità scientifica denuncia l’emergenza climatica; tuttavia il paese, pur nei primi posti delle classifiche internazionali della sostenibilità, è ben lontano dall’aver intrapreso una riconversione del sistema produttivo del calibro di quella chiesta a gran voce dal movimento di Greta Thunberg. Quali esperti contano, e in quali congiunture, rimane una decisione tutta politica, anche in Svezia.
Un altro tratto distintivo del paese nordico, che potrebbe gettare una luce più rassicurante sulla via svedese alla lotta contro il coronavirus, è il livello di fiducia ancora alto (nonostante il trionfo del populismo anche nel Nord Europa) nei confronti sia delle istituzioni sia degli “altri” genericamente intesi. Nella cultura politica svedese il fatto che il governo “raccomandi” alla popolazione di osservare determinati comportamenti assume un significato forte, così come l’appello a comportarsi responsabilmente per tutelare sé stessi e il prossimo, senza ricorrere a misure coercitive. Al momento la strategia di mitigazione del contagio adottata dal Governo socialdemocratico gode della fiducia di oltre il 50% degli svedesi e dell’intero arco politico e i socialdemocratici hanno riconquistato consenso nei sondaggi.
Basteranno la fiducia sociale e l’autorità degli esperti per risolvere il paradosso della democrazia denunciato da Greta, ossia che la deliberazione e la ricerca del consenso non vanno d’accordo con l’urgenza? Oppure occorre ripensare radicalmente la democrazia?