Due immagini aiutano a farsi un’idea della recente storia brasiliana.
La prima. Siamo ad aprile 2018, è stato infine emesso l’ordine di arresto per l’ex presidente del Paese e leader del Partito dei Lavoratori (PT) Luiz Inácio Lula da Silva: il suo popolo è riunito davanti alla sede del sindacato dei metallurgici a São Bernardo do Campo, nella zona sud di São Paulo. C’è sconcerto e gli animi sono tristi, Lula ha deciso di consegnarsi spontaneamente alla polizia e viene trasferito al carcere di Curitiba. Molti non sono d’accordo con la decisione dell’ex presidente. In questa giornata si chiude definitivamente un ciclo di riforme sociali progressiste e si consuma l’atto finale di un golpe dell’élite politico-economica brasiliana. Nel 2016, il Parlamento aveva approvato l’impeachment contro la presidenta Dilma Roussef, aprendo la strada alla restaurazione neoliberista del vicepresidente Michelle Temer. La necessità di un’alleanza di governo tra il PT e il partito centrista PMDB (Temer) esprimeva, al tempo della seconda vittoria di Dilma (2014), tutta la complessità di una stagione politica riformista che allo stesso tempo non aveva saputo rovesciare il sistema di potere saldamente in mano all’élite conservatrice bianca.
Un anno e mezzo dopo, siamo a novembre 2019, Lula viene liberato e torna trionfante alla sede del sindacato. Il “presidente” – come viene chiamato ancora oggi – parla nuovamente a un’immensa folla accorsa a dargli il benvenuto, ma la situazione è mutata radicalmente. Il suo arresto ha permesso l’elezione di Jair Bolsonaro (fine 2018) – tutti i sondaggi davano infatti come probabile una vittoria di Lula – e il Paese si trova in uno stato di shock. La crisi economica iniziata nel 2014 non è ancora terminata, mentre la promessa bolsonarista di una “nuova politica” si sta infrangendo contro la disoccupazione galoppante e i casi di corruzione che hanno colpito la sua famiglia e il suo partito. L’estate scorsa, il mondo intero si è scandalizzato per l’assoluta inadeguatezza del governo nella gestione della crisi ambientale in Amazzonia, mentre attivisti e attiviste indigene continuano a essere assassinati con sconvolgente frequenza perché difendono la foresta. Infine, i legami tra lo stesso Bolsonaro e gli ex-poliziotti miliziani che hanno brutalmente ucciso Marielle Franco sono venuti alla luce. Nel suo discorso, Lula denuncia la restaurazione neoliberista di un governo che ha attaccato frontalmente le lavoratrici e i lavoratori con una riforma delle pensioni lacrime e sangue. Ringrazia con emozione le migliaia di attivisti/e accorsi: sono gli stessi volti del marzo 2018, anche se adesso l’atmosfera è festosa e di speranza.
L’organizzazione politica più massicciamente presente a São Bernardo è il Movimento dos Trabalhadores sem Teto (MTST), un movimento sociale che da più di 20 anni organizza il popolo delle periferie urbane nella lotta per il diritto alla casa. I/le militanti del movimento vivono l’attuale fase politica con il fiato sospeso: tra il forte timore che i militari possano tornare a governare il Paese e la violenza quotidiana contro i poveri, le donne e le persone di discendenza africana. Il rapporto tra i/le militanti dell’MTST e Lula è la cartina di tornasole della complessità dei 14 anni di governi del PT (2002-2016). Infatti, durante i governi Lula e Dilma il movimento fu sempre all’opposizione, denunciando l’insufficienza delle riforme “petiste”. Allo stesso tempo, il valore positivo del programma Bolsa Familia (un modesto reddito per le famiglie indigenti), di Minha Casa, Minha Vida (programma di costruzione di case popolari a cui l’MTST ha aderito), o dell’inserimento delle quote per le persone afro-brasiliane nelle università pubbliche, è ampiamente riconosciuto. Quello che il movimento comprese rapidamente è che l’élite brasiliana non avrebbe avuto nessun timore ad abbandonare i candidati moderati per togliere definitivamente dalle stanze del potere sindacalisti (Lula) e oppositrici della dittatura militare (Dilma). La previsione si è rivelata tristemente veridica: dopo un ciclo di proteste di massa nel 2013 e il dispiegarsi del maggior scandalo di corruzione nella storia del paese – Lava Jato, coordinato dall’allora giudice Sérgio Moro, oggi ministro della giustizia di Bolsonaro! – il pericoloso ex-militare è sembrato il cavallo vincente per portare a termine l’espulsione del PT dalle istituzioni brasiliane. Ed è per questo che, nonostante l’MTST fosse in piazza nel 2013 per chiedere trasporti pubblici gratuiti, di fronte al sindacato dei metallurgici gli/le attivisti/e del movimento ingrossano le fila del presidio.
L’MTST scaturisce dall’esperienza del più grande movimento sociale dell’America Latina, i “sem terra”, che dalla metà degli anni Ottanta organizzano occupazioni dei grandi latifondi per chiedere la riforma agraria e politiche più incisive in supporto alle famiglie delle aree rurali. L’MTST si forma a partire dall’esigenza di spostare parte delle lotte nelle periferie urbane, dove le condizioni di vita delle classi subalterne sono sempre state estremamente precarie. Accesso a una casa dignitosa, al trasporto pubblico e a una salute e educazione di qualità: questi i fondamentali obiettivi di un movimento che nel corso degli ultimi vent’anni è diventato uno dei principali protagonisti della sinistra brasiliana. Per comprendere le condizioni materiali delle persone che vivono nelle periferie, basti pensare che il processo di urbanizzazione dell’intera regione metropolitana di São Paulo è storicamente fondato sulla costruzione non pianificata di abitazioni, quindi senza accesso ai servizi basici (fogne, luce, trasporti). La maggioranza dei quartieri che si trovano fuori dal centro (o che non sono zone residenziali per le classi agiate) vengono da un processo di “favelizzazione”: qui vive la maggioranza dei quasi 22 milioni di abitanti della gigantesca metropoli.
«Ocupar, resistir e morar aqui! » (Occupare, resistere, e vivere qui!) e «Criar! Criar! O poder popular!» (Creare! Creare! Il potere popolare!). Questi due slogan raccontano la lotta del movimento e mostrano le due identità fondamentali che costruiscono il soggetto collettivo. Da un lato la politicizzazione della condizione di “sem teto”, abitante della periferia, subalterno/a che non ha accesso a una casa dignitosa; dall’altro, l’appartenenza al popolo lavoratore, reale motore dell’ottava economia mondiale e costretto dal modello capitalista globalizzato a condizioni di vita iper-precarie.
L’MTST organizza e politicizza persone che vivono ai margini della società urbana, rivendicando un’identità di classe che troppo spesso è stata dimenticata dalla sinistra. Il successo politico dell’unione dell’identità “trabalhadores” con quella “sem teto” mostra nuove possibilità di organizzazione e di lotta delle classi subalterne. Allo stesso tempo, la capacità di articolazione egemonica intorno a nuovi significanti è continuamente sollecitata all’interno del movimento stesso. Recentemente, sono avvenuti il primo incontro del Collettivo delle donne del movimento nello Stato di São Paulo, che ha visto più di 600 attiviste discutere di patriarcato e protagonismo femminile, e il primo incontro del Collettivo afro-brasiliano, in cui è stata articolata la fondamentale intersezione tra condizione materiale subordinata e discriminazione razzista.
Oggi l’MTST è un movimento nazionale, la cui importanza storica è ampiamente riconosciuta dai partiti della sinistra tradizionale. La grande sfida è continuare a organizzare il popolo che vive nelle periferie e articolare la lotta per la trasformazione sociale con le altre organizzazioni della sinistra, nella speranza di costituire un fronte popolare che riesca a rovesciare la restaurazione neoliberista e antidemocratica di Bolsonaro.