L’Amazzonia è nostra. Di chi veramente?

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Come verso la fine degli anni Ottanta, l’Amazzonia è tornata a bruciare. Le immagini che mostrano l’Amazzonia in fiamme sono al centro di dibattiti che ricordano quelli che arrivarono a fare del Pianeta Terra il “personaggio dell’anno” di Time, nel 1988. In quello stesso anno, il 22 di dicembre, veniva assassinato uno dei più importanti difensori dell’Amazzonia, Chico Mendes (1944-1988) che aveva reso protagonista del dibattito un attore fino allora assente: i Popoli della Foresta, con i quali i dibattiti sull’Amazzonia acquistarono una complessità tutta diversa.

Uno degli aspetti più importanti delle discussioni sull’Amazzonia è quello della sua internazionalizzazione. La presenza dei Popoli della Foresta cambia totalmente lo scenario. L’Amazzonia era stata sempre un problema internazionale sulla base del suo destino/disincontro coloniale. È noto che i portoghesi avevano tentato di controllare la foce del Rio delle Amazzoni, per bilanciare il controllo al Sud della foce del Rio della Plata da parte degli spagnoli.

Delle oltre 200 lingue parlate dai popoli indigeni che da millenni vivono in Amazzonia nessuno parla, e nei Paesi che hanno finito per esercitare un controllo territoriale nella regione le cinque lingue dominanti sono tutte coloniali: spagnolo, portoghese, francese (Guyana), olandese (Suriname), inglese (Guiana). Ci si dimentica totalmente che la regione è occupata da 19.000 anni dalla Formação Cultural Chiribiquete (attuale Amazzonia colombiana) e ha 11.200 anni il Sitio da Pedra Pintada, Monte Alegre, nel Para’, Amazzonia Brasiliana. E la foresta oggi tanto discussa ha la sua estensione attuale di 8 milioni di kmq, solo dal tempo dell’ultima glaciazione Wurm (13-18.000 anni fa). Secondo la Teoria dei Rifugi (Aziz Ab’Saber e Vanzolini), durante questo periodo la foresta non era che un insieme di piccoli territori, che solo dopo il recedere della glaciazione e l’aumento della pluvialità del pianeta si espansero fino a occupare l’immenso territorio attuale, che ha un ruolo tanto importante per gli equilibri metabolici del pianeta, soprattutto per la dinamica idrica e le sue implicazioni climatiche.

Nella sua dimensione attuale, la foresta esiste dunque da meno di 13.000 anni, mentre la regione era già abitata per lo meno da alcune migliaia di anni. Questa è una delle verità che i Popoli della Foresta introducono nel dibattito. Contestualmente a un’altra: che in Amazzonia la co-evoluzione tra umani e natura avvenne senza necessariamente che la natura rimanesse intatta, come si usa affermare secondo i termini di riferimento del pensiero egemonico. Nessuna intangibilità. Per i Popoli della Foresta mai la natura fu considerata intoccabile. Non ha di fatto alcun senso pensare che qualcuno possa vivere tanto tempo in un dato territorio, senza saperi che si esprimono in attività di pesca, caccia, agricoltura, cura di sé (anche con medicine), capacità di proteggersi dalle intemperie (inventando forme architettoniche): insomma senza un saper-fare, un know-how, un savoir-faire. Ciò che i Popoli della Foresta chiedono è il rispetto della loro dignità in quanto Popoli, che è l’unica condizione perché si stabilisca un vero dialogo tra saperi, così che ci sia sempre da imparare, e insegnare, nel confronto tra conoscenze diverse.

Quando Chico Mendes era ancora con noi, lo slogan “L’Amazzonia è nostra” era di volta in volta una bandiera a destra, come a sinistra. Ma più di una volta sentii domandare: “Nostra di chi?”, cui seguiva immediatamente la definizione lucida del suo pensiero: l’Amazzonia era occupata da latifondisti che non rispettavano i Popoli della Foresta, e i loro confini territoriali. E denunciava senza stancarsi che la più grande minaccia e la pressione concreta contro l’Amazzonia e i suoi popoli venivano, da una parte, dall’espansione della grande industria del mercato della carne, con la piena connivenza di uno Stato che non si curava del patrimonio fondiario pubblico e favoriva in questo modo il saccheggio dei territori e, dall’altra parte, dalle migrazioni delle popolazioni contadine povere, espulse dai loro territori del Sud, Sud-est, Nord-est del Paese, in forza di una politica di colonizzazione che sostituiva la riforma agraria. La maggioranza di questi contadini era totalmente all’oscuro della complessità metabolica della riproduzione della foresta e, benché in misura molto minore rispetto agli allevamenti, alla soia e all’industria estrattiva, contribuiva alla distruzione dell’enorme patrimonio di diversità biologica e idrica. Tutto ciò attraverso politiche che potevano contare sull’appoggio pieno dei Paesi centrali, che non esitavano ad appoggiare governi esplicitamente nemici del proprio popolo, come è stato nel caso delle varie dittature.

Per tutto questo blocco di poteri nazionali-internazionalizzati, l’Amazzonia era un vuoto demografico, un concetto-entità rigorosamente coloniale, che ignorava-negava qualsiasi radice-occupazione ancestrale. Uccidere e deforestare sono diventate pratiche reciprocamente complementari. L’Amazzonia è, secondo le statistiche della Commissione Pastorale della Terra, che monitorano questo tema dal 1985, la regione brasiliana con il maggior numero di assassinati tra la popolazione rurale.

La coscienza che tutti viviamo in una stessa Casa comune, il Pianeta, non può essere una verità invocata e usata con ingenuità. È certo che ciò che succede in Amazzonia ha implicazioni globali e tocca perciò direttamente gli interessi dell’umanità. Il sistema interstatale che controlla le relazioni internazionali non può tuttavia ignorare che oggi sono le grandi corporazioni transnazionali a disputarsi i criteri e le politiche di esplorazione a livello regionale, secondo logiche che riproducono il tradizionale paradigma fordista produttivistico estrattivo che nella foresta vede solo un terreno di cui sfruttare superficie e sottosuolo, che si pongono nella prospettiva di una nuova rivoluzione biotecnologica e finanziaria che mira a uno sfruttamento diretto della foresta da parte delle grandi corporazioni della biochimica o di illusorie politiche centrate sul mercato del carbonio.

Una parte importante del destino dell’Amazzonia dipende strettamente dalla politica degli Stati che se ne dividono la sovranità. In questo senso è chiaro che l’Amazzonia deve essere vista come una regione periferica dei Paesi periferici e, in quanto tale, con un destino deciso fuori dalle sue frontiere, come sempre si verifica per le regioni periferiche e ancor di più per le regioni periferiche di Paesi periferici, e più a fondo per i gruppi e le classi sociali che sono a loro volta subalterne all’interno di queste periferie delle periferie. Nessuno di questi gradini della scala dei poteri può essere ignorato o dimenticato. Non dimenticando però nello stesso tempo il patrimonio dell’enorme riserva di conoscenze elaborata e accumulata durante millenni dai popoli di queste regioni e che è oggi proprietà e vita di centinaia di popoli indigeni, di centinaia di comunità che hanno conquistato la loro libertà nelle forme più diverse, di popolazioni trasformatesi in agricole che vivono disposte nella foresta e lungo i fiumi.

Non dimentichiamo che in media un ettaro di foresta produce ogni anno da 40 a 70 tonnellate di biomassa, una produttività incomparabilmente più elevata di quella ottenibile con non importa quale tecnologia (1 ettaro di soja arriva al massimo a produrre, sfruttando la tecnologia più avanzata e con un grande consumo di energia fossile, 5 tonnellate/anno). Questa enorme produttività biologica primaria è l’espressione più alta del modello di sviluppo e di libertà, e delle conoscenze articolate, di quelle popolazioni. È una biomassa che non è il prodotto di un solo elemento o frutto, come pretendono di essere le monocolture. Un ettaro di foresta amazzonica esprime una diversità di specie più grande di quella che si può ritrovare in una intera regione nell’area temperata del pianeta. È un’altra delle verità che questi popoli offrono per un dialogo di saperi che sia orizzontale, non gerarchico, e che richiede una decolonizzazione di un pensiero che si pretende egemonico.

Nessun futuro o destino immaginato o assegnato all’Amazzonia – che sia dai G7 o da non importa quale insieme di Stati che se ne attribuiscono titoli di sovranità – può prescindere dalla parola e dalla conoscenza dei suoi Popoli. Questa condivisione di conoscenze può solo realizzarsi compartendo lo stesso metabolismo di riproduzione della vita: sappiamo bene che non si tratta solo di un processo biologico, ma culturale, e richiede perciò il riconoscimento pieno dei suoi territori per permettere alle loro territorialità di riprodursi. 

La traduzione è di Gianni Tognoni 

Gli autori

Carlos Walter Porto-Gonçalves

Carlos Walter Porto-Gonçalves è professore ordinario presso il Dipartimento di geografia dell’Università Federale Fluminense ed è coordinatore di LEMTO - Laboratorio di studi sui movimenti sociali e le territorialità della stessa Università. È autore di numerosi articoli e libri pubblicati in Brasile e all'estero, tra cui: “Geografie; movimenti sociali, nuove territorialità e sostenibilità” (Ed. Siglo XXI), “Messico e Amazonía, crocevia della civiltà: tensioni territoriali in corso” (Ed. IPDRS, La Paz, Bolivia).

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