Praga. A 30 anni dalla rivoluzione di velluto

image_pdfimage_print

Fatte le dovute proporzioni demografiche, la manifestazione del 23 giugno contro il primo ministro ceco Andrej Babiš, cui, stando alle stime delle compagnie telefoniche, hanno partecipato circa 286.000 persone (qualcuno scherzando dice che, su richiesta, la Huawei può fornire i loro codici fiscali), in Italia corrisponderebbe a una protesta da circa un milione e mezzo di partecipanti; cifra già ragguardevole per il nostro paese, a maggior ragione significativa per la Cechia, tradizionalmente poco avvezza a scendere in piazza. Si parla, infatti, della più grande manifestazione che il paese abbia mai visto dai tempi della Rivoluzione di Velluto, quando a protestare contro il regime comunista era arrivato mezzo milione di persone.
Le ragioni che hanno portato il 2,7% dei cechi, comprese le nutrite rappresentanze regionali confluite nella capitale da tutto il paese, a protestare sulla spianata di Letná a Praga possono essere sintetizzate nei timori per la tenuta dello Stato di diritto e dell’assetto democratico del paese, alimentati soprattutto, ma non solo, da una persona: il primo ministro ceco Andrej Babiš.

Scomode cicogne

Si parte anzitutto dall’ormai celebre causa del Nido di cicogna (Čapí hnízdo), ovvero una polivalente struttura ricettiva di lusso, parzialmente finanziata con fondi europei ottenuti, pare, in modo fraudolento. Per aggirare la destinazione dei fondi alle sole piccole e medie imprese, infatti, Babiš avrebbe scorporato una società dalla sua enorme holding Agrofert intestandola ai figli. Con questa ha poi chiesto, e ottenuto, una sovvenzione di circa 2 milioni di euro salvo poi, decorsi i termini previsti dalla normativa, riassorbire la medesima nel suo conglomerato finanziario. Elusione o violazione della legge? Spetterà alla giustizia ceca esprimersi in merito. Nel frattempo l’OLAF, l’organo di controllo europeo, si è detto convinto dell’illegittimità dell’operazione e chiede la restituzione dei fondi. Ma questo è solo l’inizio.
La Commissione europea, infatti, ha recentemente spedito a Praga un audit di 71 pagine secondo cui sul primo ministro ceco (che, ricordiamolo per i lettori italiani, è slovacco, e ha la cittadinanza ceca), graverebbe un pesante conflitto di interessi poiché, in qualità di ministro delle Finanze prima e Premier dopo, aveva, e ha, il potere di influenzare la distribuzione dei fondi europei, ovvero la possibilità di favorire le aziende della sua Agrofert che, dalla sua ascesa al governo, ha effettivamente visto un cospicuo incremento delle sovvenzioni europee ricevute. Nei suoi addebiti la Commissione, corroborata dal parere di Transparency International e di altre ONG specializzate in materia, prende le mosse dalla constatazione che, in realtà, il trust nel quale Babiš ha trasferito la sua holding per rispettare la legge ceca sul conflitto di interessi non sarebbe affatto indipendente poiché continua, seppure in modo indiretto, a far capo a lui. Ricordiamo, inter alia, che Andrej Babiš è il secondo cittadino ceco più ricco con un patrimonio stimato in 3,5 miliardi di dollari e 22.000 dipendenti in Repubblica Ceca.
A tutto ciò si aggiungano le numerose irregolarità procedurali riscontrate nelle stesse domande di finanziamento.
Da parte sua Babiš rispedisce al mittente tutti gli addebiti e a sua difesa lamenta un complotto politico ordito ai danni di tutto il paese, alimentando così quella pericolosa retorica che sta allontanando sempre dall’Unione europea più grosse fette del paese.
La Cechia, in sostanza, rischia di dover restituire all’Europa tutte le sovvenzioni ricevute dall’Agrofert dal febbraio 2017, quando è entrata in vigore la normativa applicabile al caso del tycoon ceco. Complessivamente si parla di quasi mezzo miliardo di corone, ovvero circa 19 milioni di euro, cifra che sembra aver scosso molti cechi, da sempre attenti più agli aspetti materiali della politica che a quelli ideologici. Anni fa, tanto per fare un esempio, un governo socialdemocratico è caduto per aver osato introdurre un ticket sanitario di un euro a visita medica.

Le lunghe ombre del passato

Questo conflitto di interessi di ragguardevoli proporzioni, dunque, preoccupa l’ala liberal-democratica del paese che vede minacciato lo Stato di diritto e teme un’oligarchizzazione del paese, non ultimo anche in ragione dell’influenza che il primo ministro ha sui media nazionali dopo aver acquistato i due principali quotidiani che, a discapito delle rassicurazioni del loro nuovo proprietario, si sono prontamente adeguati alla linea governativa. Tra gli altri gravi addebiti a carico di Babiš, quello di aver sostituito il ministro della Giustizia immediatamente dopo che la polizia ha chiesto ufficialmente al PM incaricato la sua incriminazione per l’affaire del Nido di cicogna, insediando tale Marie Benešová, ex procuratore generale il cui passato politico desta molti sospetti sulla sua indipendenza.
Inoltre ai manifestanti non va giù lo stretto rapporto tra il primo ministro e il presidente Zeman che sta proteggendo strenuamente questo fragile governo ottenendone in cambio un appoggio, più o meno tacito, a quel forte orientamento verso la Russia e la Cina che sta sucitando le preoccupazioni di molti per l’inquadramento geopolitico euroatlantico del paese.
Un altro aspetto interessante della manifestazione è quello ambientale; tema sempre più spesso discusso nell’arena politica. Insieme alle richieste di dimissioni indirizzate al premier ceco durante la manifestazione, Babiš è stato fortemente criticato in quanto proprietario di una holding che con l’agricoltura intensiva e poco rispettosa dell’ambiente ha fatto la sua fortuna. Una delle voci più cospicue delle sue entrate, infatti, sono i fertilizzanti chimici e l’olio di colza (additivo nei biocarburanti) con cui ha tappezzato il paese. Se alle enormi distese di appezzamenti agricoli di proprietà della Agrofert, eredità diretta della collettivizzazione forzata voluta dai comunisti negli anni ‘50, notoriamente deleterie in termini di erosione e impoverimento del suolo (cominciano a farsi sentire anche qua problemi di siccità cui i cechi non erano troppo abituati), aggiungiamo i forti sospetti, che secondo gli storici rasentano la certezza, che Babiš, figlio di un alto diplomatico comunista, abbia coscientemente collaborato con l’StB, la Stasi ceca, ecco spiegata la paura di molti per l’eredità della Rivoluzione di Velluto. Altri, più scettici, sono invece convinti che i propositi della Rivoluzione di Velluto siano già falliti perché, in realtà, l’apparato del vecchio regime socialista sarebbe in qualche modo sopravvissuto al comando cambiando solo casacca e bandiera.

Equilibrismi pericolosi

Definito sia il più orientale dei paesi europei occidentali che il più occidentale di quelli orientali, la Repubblica Ceca sembra rivivere ancora una volta quel doloroso equilibrismo tra, due mondi così diversi, Est e Ovest, apparentemente inconciliabili ma nemmeno separabili, che più volte ne ha segnato la storia. Guardando indietro nel tempo quella che si presenta ai nostri occhi è una cultura nettamente integrata da un millennio con quella dell’Europa occidentale, sposalizio interrotto solo da una pausa levantina di cui ancora oggi si curano le ferite. Nonostante ciò, complici gli scossoni economico-sociali del dopo ‘89, ampiamente sottovalutati da una classe dirigente liberale accecata dall’entusiasmo per il riavvicinamento del paese alla sfera euroatlantica, le sirene tornano a far sentire da Est il loro canto suadente promettendo la panacea a tutti i mali portati da quella Bruxelles che, nell’immaginario collettivo, avrebbe semplicemente sostituito Vienna, Berlino e Mosca. Inutile sottolineare quanta presa faccia questa narrazione tra coloro che con il 1989 hanno visto peggiorare, e non migliorare come fu loro promesso, le proprie condizioni di vita. Ovvero coloro che in altri contesti vengono chiamati gli sconfitti della globalizzazione.
Sul risultato di questo ancora irrisolto scontro ideologico è difficile fare previsioni. Per il momento, il governo Babiš ha superato la mozione di sfiducia promossa dall’opposizione, votata da 85 deputati (la Camera bassa della Cechia ha 200 rappresentanti). Se, da una parte, come detto le radici del tiglio, l’albero nazionale ceco, sembrano profondamente ancorate a Ovest, le vicende ungheresi e polacche mostrano quanto fragile e ondivago può essere lo spazio geopolitico centroeuropeo, stretto nella morsa tra i suoi due ingombranti e affamati potenti vicini.
Nella politica come nella vita, si sa, i simboli sono importanti e nei momenti di crisi possono diventare facilmente un’ancora di salvezza cui aggrapparsi. A 30 anni dagli eventi del 1989, quando molti, sulla scia di un frettoloso Fukuyama, scrissero troppo presto la parola fine sul grande libro della storia, ci attende un anniversario che potrebbe rimettere in discussione la narrazione finora consolidata della Caduta del Muro con scosse telluriche per l’assetto europeo con effetti difficili da prevedere. Ma di una previsione possiamo esser certi: al netto del riscaldamento globale, quest’anno possiamo attenderci un autunno decisamente caldo.

Gli autori

Andreas Pieralli

Andreas Pieralli, nato a Firenze da famiglia italo-ceca, vive a Praga dove lavora come traduttore e pubblicista freelance. Si interessa di politica, società, economia e storia con particolare riferimento all'Europa centrale. Collabora regolarmente con la televisione pubblica ceca dove commenta l'attualità italiana e occasionalmente con la Rai per quella ceca. Dirige la sezione praghese dell'associazione Gariwo - Foresta dei Giusti fondata a Milano dallo storico e scrittore Gabriele Nissim.

Guarda gli altri post di: