Cambiare per sopravvivere: l’Europa alla vigilia del voto

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«Chi oggi in Germania si preoccupa della stabilità della nostra democrazia, dovrebbe pensare al destino che è toccato ai Paesi sottoposti ai piani di salvataggio. È uno scandalo che, nell’edificio ancora incompiuto dell’Unione europea, una cura da cavallo capace di penetrare così a fondo nel tessuto sociale di una qualsiasi nazione sia stata adottata senza alcuna reale legittimazione, almeno non secondo i nostri consueti standard democratici». Jürgen Habermas, sommo filosofo tedesco “europeista”, non avrebbe pronunciato parole così dure, come invece ha fatto in un recente discorso pubblicato sul fascicolo 2/2019 di «Micromega», se l’UE negli scorsi anni avesse davvero promosso «la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri», come recita l’articolo 3 del suo Trattato istitutivo (TUE). Non solo non è stato così, ma quel che è ancor più scandaloso, per Habermas, è che le politiche di austerità siano state adottate senza procedure che le rendessero democraticamente legittime. Per questo non è un’esagerazione affermare che siano state imposte.

Il cuore del problema europeo sta qui: l’UE è un «edificio ancora incompiuto» nel quale è possibile, secondo la «legalità» vigente, assumere decisioni di enorme impatto sociale in modo non democratico. Il piano di salvataggio che la Grecia di Alexis Tsipras dovette accettare nelle drammatiche giornate del luglio 2015, dopo il referendum in cui trionfò il «no» alle proposte della troika, fu concepito e stabilito nell’Eurogruppo, cioè nella riunione informale dei ministri delle finanze degli Stati che adottano l’Euro. Che sia «informale» lo dice letteralmente il Trattato sul funzionamento dell’UE (TFUE). Fu in quella sede che il governo ellenico dovette impegnarsi a far approvare dal Parlamento di Atene il pacchetto di misure di austerità in cambio di una nuova tranche di «aiuti» da parte dei creditori internazionali, sottomettendosi al controllo di FMI, BCE e Commissione europea. Proviamo a pensare, invece, se al posto delle segrete stanze dell’informale Eurogruppo, il destino della Grecia fosse stato discusso e deciso pubblicamente nel Parlamento europeo: forse l’esito non sarebbe stato diverso, ma certamente nessuno avrebbe potuto tacciare di anti-democraticità la deliberazione dell’assemblea di Strasburgo.

La differenza è evidente. Da una parte, una riunione – informale e al buio – di rappresentanti degli esecutivi degli Stati con la moneta unica, dall’altra la sede ufficiale, pubblica e aperta dei rappresentanti dei cittadini europei democraticamente eletti, organizzati in gruppi di affinità politico-ideologica e non nazionale. Le conclusioni – lo ripeto – sarebbero magari state le stesse, perché popolari, socialisti, liberali e destre varie avrebbero forse adottato una risoluzione pro-austerità. Lo avrebbero fatto, però, dopo un dibattito alla luce del sole, agendo per conto dei cittadini dell’UE, assumendosi le responsabilità politiche di una simile, eventuale, scelta. Sarebbe potuta essere una decisione egualmente dolorosa (e, aggiungiamo, errata), ma certamente non scandalosa.

Alla vigilia delle elezioni, se si vuole ragionare e agire con consapevolezza intorno all’UE è proprio dallo scandalo denunciato da Habermas che si deve partire. E chiunque si proponga di cambiare l’UE in senso democratico e sociale – rifiutando la prospettiva dell’euroscetticismo di sinistra di intellettuali come Wofgang Streeck o di leader come Jean-Luc Mélénchon – non può sfuggirvi. I membri del prossimo Parlamento di Strasburgo, se sono davvero preoccupati che l’edificio comunitario possa andare in pezzi sotto i colpi dei nazionalismi, dovranno ingaggiare una lotta per la sovranità come il Parlamento inglese fece a metà del Seicento contro il sovrano Carlo I. Fu la rivoluzione che sconfisse l’assolutismo oltre Manica. Non si immaginano, ovviamente, sviluppi come quelli di allora, con l’esecuzione del re che si rifiutava di considerarsi subordinato alla legge e al popolo. Ma il risultato dell’azione del Parlamento dovrà essere nella sostanza lo stesso: il potere dovrà essere sottratto dalle mani dei «sovrani» dell’UE, cioè i governi riuniti nel Consiglio europeo (il summit dei capi di governo) e negli altri vertici come l’Eurogruppo, per essere affidato ai rappresentanti dei cittadini dell’unica assemblea che gode di piena legittimazione democratica.

Il primo passaggio-chiave sarà, dopo il voto, la designazione del (o della) presidente della Commissione. L’articolo 17 del TUE attribuisce la facoltà di designarlo al Consiglio dei capi di governo, «tenuto conto delle elezioni del Parlamento europeo e dopo aver effettuato le consultazioni appropriate». La persona prescelta deve sottoporsi al voto d’investitura, per il quale serve la maggioranza assoluta, da parte del Parlamento. I gruppi dell’assemblea di Strasburgo dovranno riuscire a difendere il principio che alla guida della Commissione vada uno o una fra i cosiddetti Spitzenkandidaten presentati dalle diverse famiglie politiche: il popolare Weber, il socialista Timmermans, la verde Keller, la liberale Vestager, il sindacalista Cué della sinistra o il nazional-conservatore Zahradil. E dovranno adoperarsi affinché tale designazione tenga conto per davvero del risultato elettorale: il presidente incaricato, cioè, dovrà essere colui o colei che è stato in grado di raccogliere attorno al proprio nome il più vasto appoggio fra i gruppi parlamentari.

E tuttavia, non basterà ancora. Per affrontare seriamente lo scandaloso deficit democratico nella UE dovranno essere messe in discussione tutte le prerogative decisionali appannaggio dei «sovrani assoluti» e non dei rappresentanti del popolo. Innanzitutto quelle del Consiglio dei capi di governo, a partire dalla facoltà di definire «orientamenti e priorità politiche generali» dell’Unione (articolo 15 TUE). E poi il potere dei singoli governi nazionali di scegliere i membri della Commissione (art. 17), che dovrebbero invece poter essere nominati dal presidente della Commissione stessa sulla base di un comune indirizzo politico, specchio della maggioranza parlamentare. La democrazia in Europa non la si difende a parole, ma democratizzando le sue istituzioni. Dopo il voto sapremo se qualcuno avrà la forza, se non di riuscirci, almeno di provarci.

Gli autori

Jacopo Rosatelli

Jacopo Rosatelli, dottore di ricerca in Studi politici, insegna nelle scuole superiori. Collabora con il manifesto, L’Indice dei libri del mese e Aspenia online. Insieme a Gianrico Carofiglio ha scritto, per Edizioni Gruppo Abele, Con i piedi nel fango. Conversazioni su politica e verità.

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