1.
È dal 1991 che, negli Stati Uniti, i lavoratori assistono alla drammatica e progressiva cancellazione di fatto di tutti i loro diritti, rimasti sulla carta a causa della graduale legittimazione che le Corti di giustizia, e in particolare la Corte Suprema federale, hanno garantito all’arbitrato obbligatorio quale meccanismo di risoluzione delle controversie sul lavoro. Obbligati contrattualmente a portare le proprie richieste di protezione nei confronti dei comportamenti illeciti dei datori di lavoro davanti ad arbitri privati scelti dalla controparte, i lavoratori statunitensi vedono ormai regolarmente frustrate le loro richieste. È anche per questo che, nonostante una disoccupazione ai minimi storici e con buona pace della legge della domanda e dell’offerta, i loro salari continuano ancor oggi a essere troppo bassi.
Già nel 1991, con il caso Gilmer v. Intersate/Johson Lane Corp., una Corte Suprema federale formata in maggioranza da giudici nominati da Nixon e Reagan aveva ritenuto per la prima volta vincolanti le clausole arbitrali inserite in contratti lavorativi o fra aziende e consumatori.
È però con la decisione AT&T Mobility LLC v. Conception, con cui sono state legittimate le rinunce alle azioni collettive inserite in un contratto con clausola arbitrale, che i lavoratori americani hanno visto crollare ogni possibilità di denunciare efficacemente le violazioni ai loro diritti. Le class action, entrate nel panorama giuridico statunitense nel 1966 con la Rule 23 delle Federal Rules of Civil Procedure, rappresentano infatti, come noto, uno strumento essenziale per il consumatore o il lavoratore che voglia far valere in giudizio la violazione dei propri diritti, soprattutto se la controparte è una grande corporation. Non solo l’ammontare del possibile risarcimento ai danneggiati da uno stesso comportamento dell’azienda dà loro una forza nei suoi confronti che come singoli non avrebbero, spingendo spesso l’azienda a transare la lite. Ma, in un sistema che non conosce il principio della soccombenza e in cui le spese legali sono alte, è solamente grazie alla class action che la parte economicamente debole può permettersi di intentare causa anche per danni di piccola entità. In tali casi, quand’anche risultasse vittorioso, l’attore singolo finirebbe, infatti, per avere un risarcimento di ammontare inferiore alle spese sostenute per far causa. Ecco perché le class action sono state salutate come importanti strumenti al servizio di una funzione pubblica: esse permettono “ai più deboli di far gruppo, usando i legali come loro paladini” per denunciare le violazioni subite, contro le quali non vi sarebbe invece rimedio se ciascun attore dovesse agire da solo. Riconoscere come valida la rinuncia ad agire collettivamente, sia pure di fronte all’arbitro privato e non al giudice, da parte del lavoratore o del consumatore che abbia stipulato un contratto con clausola arbitrale, significa dunque negargli in molti casi la possibilità di avvalersi dell’unico strumento che ha a disposizione per far valere le sue ragioni.
La decisione Conception ha segnato, quindi, una vittoria netta per i datori di lavoro, i quali tramite le clausole arbitrali nei contratti di lavoro e le rinunce esplicite alle azioni collettive da parte del lavoratore, sanno oggi di poter andare esenti da responsabilità qualora ne violino i diritti. Non è un caso che da tale decisione in poi le clausole arbitrali nei contratti di lavoro abbiano visto un’impennata e che oggi più del 55% della forza lavoro statunitense sia soggetta ad arbitrato obbligatorio, contro il 2% del 1992, quando il riconoscimento da parte della Corte Suprema federale della validità dell’arbitrato obbligatorio era agli albori. Ed è significativo che attualmente le clausole arbitrali obbligatorie riguardino soprattutto la forza lavoro economicamente più debole e siano applicate in particolare ai neri e alle donne.
Merita aggiungere che non sono soltanto le difficoltà economiche dei lavoratori meno abbienti a rendere l’arbitrato obbligatorio particolarmente vantaggioso per il datore di lavoro, specie se corporate. La clausola arbitrale inserita nel contratto di lavoro e sottoposta alla firma del lavoratore – la cui scelta consiste di norma solamente nel prendere o lasciare il lavoro, ma non nell’accettare o meno la clausola stessa ed essere ugualmente assunto (ed è per questo che tali clausole vanno sotto il nome di forced arbitration) – contiene sovente regole relative allo svolgimento dell’arbitrato stabilite dallo stesso datore di lavoro. Così non sono pochi i casi in cui le previsioni arbitrali stabiliscono che il foro da adire sia molto lontano dal luogo in cui si trova il lavoratore (cosa che implica costi inaccettabili per quest’ultimo, che non solo deve perdere giorni di lavoro e di paga, ma deve aggiungervi i costi del trasporto). A volte è previsto addirittura che l’arbitro sia in uno Stato diverso rispetto a quello in cui si trovano il lavoratore e l’azienda. Il datore di lavoro poi può stabilire che il diritto applicato dall’arbitro nel dirimere la controversia sia quello di uno Stato le cui regole tutelano meno il lavoratore rispetto a quelle vigenti nello Stato in cui egli lavora, o può addirittura escludere la possibilità che in caso di sconfitta gli vengano inflitti i punitive damages.
L’arbitro, inoltre, è individuato nella clausola arbitrale fra una lista a rotazione di persone che fanno parte di associazioni specificate dal datore di lavoro. E mentre le statistiche riportano che le decisioni arbitrali accordano ai datori di lavoro la vittoria in un numero sproporzionato di casi (e ciò in particolare se le interazioni fra datore di lavoro e arbitro sono frequenti), l’appello del lodo arbitrale di fronte a una corte di giustizia, tanto in punto di fatto che di diritto, è sostanzialmente precluso. Senza alcun obbligo di seguire i propri precedenti, gli arbitri possono poi decidere in modo diverso casi simili e, poiché l’intera procedura è assolutamente confidenziale, qualora il datore di lavoro dovesse vedersi condannato a risarcire i danni per un comportamento particolarmente scorretto, l’avvenimento non lascerebbe traccia nell’opinione pubblica, che ne resterebbe all’oscuro a tutto vantaggio della corporation.
2.
Ebbene, dopo anni di sostanziale cancellazione dei diritti dei lavoratori una pronuncia del gennaio di quest’anno della Suprema Corte, New Prime Inc. v. Oliveira, rimette a sorpresa in gioco l’opportunità di alcuni fra loro di rivendicare di fronte alle Corti, anche in forma collettiva, le proprie tutele.
Il caso riguarda la richiesta di un’importante società di consegne, la New Prime, di dichiarare contraria all’accordo arbitrale contenuto nel contratto di lavoro, e quindi invalida, l’azione collettiva intrapresa contro di lei di fronte alle Corti da uno dei suoi camionisti, Dominic Oliveira, a nome di tanti altri. L’attore lamenta di essere stato assunto dalla New Prime come imprenditore indipendente e non come lavoratore subordinato, così da essere privato delle corrispondenti tutele in termini di minimo salariale, straordinario e molto altro ancora. Di fronte a tale richiesta, una Corte Suprema (conservatrice) unanime dà ragione a Oliveira ritenendolo libero di adire le Corti, anche con un’azione collettiva, nonostante l’accordo arbitrale con la controparte. L’arbitrato obbligatorio – dice infatti la Corte, interpretando la normativa in forza della quale dal 1991 in poi ha legittimato l’arbitrato obbligatorio individuale nelle controversie sul lavoro – non vincola «i lavoratori impegnati nel commercio estero o interstatale».
La decisione riveste un’importanza notevolissima, non solo perché libera una parte importante della forza lavoro statunitense dal giogo dell’arbitrato obbligatorio, ma anche perché dà forza alla resistenza messa in atto da tempo dal diritto statale (e locale) per controbilanciare l’attacco ai diritti dei lavoratori proveniente dal piano federale. Inserendosi in una decennale strategia di opposizione del diritto di prossimità all’annullamento federale di quei diritti, la decisione di gennaio della Corte Suprema degli Stati Uniti apre così una finestra di recupero di tutele in un settore importantissimo, quale quello dei trasporti, in cui sono oggi caldissime le battaglie per la mancata protezione dei lavoratori derivante dalla loro classificazione contrattuale come autonomi invece che subordinati (cd. misclassification).
La sentenza della Corte Suprema federale arriva, infatti, solo pochi giorni dopo che la Commissione del lavoro californiana aveva irrogato una delle sanzioni più pesanti della storia per “furto di salario” a una potente corporation, la NFI Industries/California Cartage, società numero uno per il movimento di merci presso gli importanti porti di Los Angeles e Long Beach. Riconosciuta responsabile di aver ingiustamente considerato autonomi, invece che subordinati, 24 camionisti portuali, nel gennaio di quest’anno la società è stata condannata a risarcire agli stessi ben 6 milioni di dollari. La novità più dirompente è che per la prima volta la Commissione h esteso la responsabilità al general manager della società stessa, condannandolo al pagamento in solido, in applicazione di una recente normativa che colpisce al cuore le misclassification. Seguendo una durissima linea di attacco alle violazioni perpetrate dai datori di lavoro corporate, una diversa e recentissima normativa californiana prevede inoltre che possano essere condannati in solido perfino i clienti che ricevono le merci, quando la compagnia di cui si avvalgono (e il cui nome compare in una lista resa pubblica dalla Commissione del lavoro) non ha pagato le multe e i risarcimenti dovuti.
È dell’aprile scorso, d’altronde, una decisione della Corte Suprema della California che limita pesantemente la possibilità per i datori di lavoro di qualificare i propri lavoratori come autonomi invece che subordinati. Dichiarando che le leggi sui salari minimi e l’orario massimo di lavoro sono emanate per consentire alla gente di condurre un’esistenza dignitosa e per proteggere la salute dei lavoratori, la Corte Suprema dello Stato del sole fa così suo il punto di vista di altre corti supreme, quali quella del Massachusetts o del New Jersey, rafforzando l’azione della Commissione del lavoro nella battaglia per i diritti dei lavoratori.
In questo quadro di una riscossa dal basso, che parte dal diritto di prossimità (statale e locale), delle tutele dei lavoratori negate invece a livello federale, l’ultima decisione della Corte Suprema federale ha dunque forti potenzialità di impatto sui lavoratori della gig economy, da Amazon a Uber, da Lyft alle mille compagnie di servizi di vendita e trasporto a domicilio.
«The gig is up in California!», titolano le agenzie di stampa americane nel dare notizia di quanto qui riportato. Una nuova brezza sembra insomma spirare, in controtendenza rispetto alla direzione del vento che da trent’anni a questa parte ha spazzato via i diritti dei lavoratori statunitensi, relegandoli sulla carta, e la resistenza rispetto alla linea federale mostrata nel tempo dal diritto statale mette in chiaro la vitalità e le potenzialità di un sistema giuridico a federalismo compiuto come quello statunitense.
Una versione più ampia dell’articolo è in corso di pubblicazione su “Questione giustizia”