«Asini siate e non pecore matte» (Paradiso, canto V, 80, citazione infedele). A proposito dei gilet gialli

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L’asino è un animale notoriamente ostinato, disobbediente. Non esegue gli ordini che non gli piacciono, recalcitra. Qualche volta, oltre a recalcitrare, scalcia contro chi lo tormenta. Non si lascia condurre al macello senza resistere. Ma non carica in gruppo giù per un vallone come qualche volta fanno i montoni. Sa trovare una giusta misura. Gli asini umani, capaci di ragione, di previsione, di collaborazione, fanno benissimo a disobbedire a leggi ingiuste (si chiama disobbedienza civile). Fanno benissimo a ribellarsi contro chi li opprime, a scalciare in gruppo, se necessario. Ribellarsi a governi oppressivi è giusto. Ma danneggiare altri, o gli spazi pubblici, quando ci si ribella produce un danno immediato per i colpiti, e può causare vittime, come è capitato, perché ci sono casi in cui non ci si può fermare.

Le forme di lotta e di espressione

Per chi le osservi dall’Italia, le manifestazioni dei gilet gialli (GJ) sono soprattutto un sintomo, un segnale di tensioni e di possibili sviluppi della società francese; un segnale molto forte anche per le barricate, gli incendi, le vittime, tre fino a oggi. Non è fuori luogo perciò cominciare dalle forme di lotta dei GJ, che sono state talora distruttive e hanno fatto parlare alcuni commentatori non troppo precisi di “colpo di Stato”.

A fine novembre (vedi “Le Monde” del 26/11) i portavoce nominati si sono dissociati dalle violenze, dagli incendi, dai morti. Ma sappiamo tutti che di assalti alle zone rosse si può morire. Non è una predica a casa d’altri, è una riflessione sul nostro passato, l’aggiornamento di discussioni cui abbiamo partecipato. Per ora la polizia francese non ha fatto nulla di simile alla macelleria della caserma di Bolzaneto, e forse, per quel che se ne capisce, ha bastonato anche i casseurs, non solo i normali manifestanti. E Macron ha dovuto cedere. Ma gli sviluppi della protesta e le alleanze destra/sinistra in Italia obbligano a preoccuparsi delle evoluzioni possibili, a guardare ai primi atti istituzionali, alle dichiarazioni, alle forme di rappresentanza.

Ho usato come fonte “Le Monde”, “Liberation” e qualche notizia attendibile in rete.

Il linguaggio, le affermazioni, le prime richieste non sono confortanti. Al di là di ciò che si legge sulla composizione sociale, sulla distribuzione geografica, sulle tendenze politiche, i primi atti istituzionali fanno pensare a una replica transalpina dei 5 stelle. Se è vero, non è confortante. Non hanno eletto o nominato dei rappresentanti, noti al movimento, ma otto comunicatori, messaggeri, di cui fanno parte Eric Drouet, l’autista che ha promosso la manifestazione del 17 novembre, e Priscillia Ludosky, promotrice della petizione contro l’aumento dei prezzi del gasolio. Non sono i nomi, quasi tutti ignoti, a far trasalire; né l’opposizione alla tassa sul carbonio, su cui tornerò. È il modo oscuro, e contestato da molti nelle rispettive aree, della nomina. Non si sa chi abbia votato né come. Il comunicato ripreso da “Le Monde” parla di «Consultazione di circa 30.000 persone», ma non spiega quando realizzata né come. In ogni caso si tratta di numeri modestissimi, paragonabili a quelli dei 5S, mentre i numeri dei manifestanti sono grandi, come le richieste. La volontà del movimento viene rappresentata come univoca, mentre è frammentata. I portavoce dicono di non voler essere né dirigenti né leader, ma intanto avanzano richieste rivoluzionarie – dissoluzione dell’Assemblea Nazionale, del Senato, costituzione di una Assemblea dei Cittadini, dimissioni del Presidente della Repubblica – che dovrebbero essere sottoposte a referendum popolare. Sembra di essere in Italia. I portavoce sembrano pensare che le costituzioni si possano cambiare a pezzi, con un referendum, senza coerenza e senza transizione giuridicamente definita; che organi costituzionali si possano abolire o creare su richiesta da Facebook e senza un percorso garantito. Rispetto ai GJ i 5S hanno avuto in più la forza aggregante della Piattaforma Rousseau, e la intollerabile dipendenza da essa: la disciplina, la gerarchia mascherata da democrazia diretta.

Anche la tecnica dei blocchi delle strade e delle pompe di benzina mi ricorda precedenti italiani. I blocchi dei GJ, in quanto distinti dalle manifestazioni, non sono stati effettuati da cortei numerosi, con cartelli e slogan, che occupano materialmente la strada, e perciò impediscono il passaggio, ma da poche persone che occupano la sede stradale e impediscono di passare, senza che nulla spieghi all’automobilista chi e perché lo sta bloccando. A spiegarlo c’è solo la divisa, il gilet giallo. Mi è capitato di essere bloccato, a una rotonda molto frequentata, all’epoca dei “forconi”. Pensai subito che si trattava dei forconi perché si sapeva che c’erano blocchi in corso, ma non c’erano cartelli o slogan a ricordarmelo. L’uomo in mezzo alla strada ogni tanto faceva passare qualcuno per non creare code infinite e rivolte, ma sceglieva lui chi far passare e quando. Che si trattasse di una manifestazione politica e non di una follia personale o di una rapina, lo dovevo sapere io. Che criterio usasse il manifestante per lasciar passare o bloccare – la lunghezza della coda, la simpatia o antipatia per me o per chi mi precedeva, se ne lasciava passare due – era impossibile da capire. Chi ha motivi realmente gravi per passare naturalmente prova a forzare il blocco. Davanti a una manifestazione si può parlare, farsi strada spiegando il motivo, se c’è un’urgenza. L’ho visto fare più di una volta. Davanti a uno che ti si para davanti senza neppure spiegarti chi è, che cosa fai?

Le rivendicazioni e le prospettive

Ho simpatia, e un po’ di invidia, per la rivolta in Francia contro riduzioni pesanti dello Stato sociale che noi abbiamo subìto e stiamo subendo senza reagire o resistere adeguatamente, dal governo Monti, a Renzi, ad oggi. C’è un consenso diffuso sulla varietà della composizione sociale dei GJ, e sul loro disagio, anche se i manifestanti non sembrano poveri della Francia rurale storica. Louis Maurin, direttore dell’Observatoire des Inégalités, tra gli altri, invita a non ridurre i GJ a un caso di estremismo, dimenticando le disuguaglianze inaccettabili contro cui lottano.

Si tratta di una rivolta complessiva contro il governo Macron, la sua politica, le sue leggi; ma anche contro una tendenza alla accentuazione delle diseguaglianze che precede Macron. Non si tratta di francesi contro l’Europa. Si tratta di francesi contro il loro governo. È una rivolta sociale, non nazionalistica, anche se una parte di chi l’approva sostiene il RN di Marine Le Pen. La maggioranza elettorale di Macron è stata un prodotto del sistema elettorale, del doppio turno. La percentuale di voti del Presidente al primo turno è stata di poco superiore a quella di Melenchon e della Le Pen. Naturale che molta sinistra e parte della destra si ribellino quando alle parole altisonanti si sostituiscono l’abolizione della impôt sur la fortune immobilière (IFI) (una patrimoniale) e l’aumento della tassa sul gasolio. Non dovremmo chiederci perché c’è stata una rivolta in Francia ma perché non ce n’è stata prima una analoga in Italia. Macron non è riuscito a fare senza reazioni i tagli ai piccoli ospedali, al welfare, alle tasse dei ricchi, che in Italia abbiamo subìto e subiamo senza reagire adeguatamente. La reazione degli italiani alla politica di destra fatta da sinistra si è espressa in un voto di protesta finito male anziché in una rivolta di piazza. Nel vuoto, la maggioranza relativa degli italiani ha votato un’azienda di sondaggi in rete proprietaria di un partito. I 5S e la Lega (Nazionale) hanno vinto anche rappresentando politicamente lo stesso tipo di persone che oggi manifestano in Francia, con rivendicazioni analoghe. È insieme una spiegazione del marasma italiano e un avvertimento per i possibili sviluppi del movimento in Francia. Anche Macron ha vinto uscendo dai partiti storici e su posizioni personali, un po’ come Renzi, con più successo grazie al doppio turno. È mancata in Italia, e non si è ancora manifestata in Francia, la capacità di dare al movimento di opposizione una forma politica alta, adeguata alla vastità e profondità dei problemi. Perciò sono importanti, e per ora non confortanti, i primi segnali di trasformazione istituzionale dei GJ, che non hanno ancora cercato/trovato una strada per opporsi al neoliberismo.

È anche importante ciò che resta delle politiche sociali passate. Una medica torinese che si è trasferita in Francia, anche per sfuggire alla compressione della sanità pubblica, lavora in uno dei piccoli ospedali che esistono ancora, che non fanno miracoli tecnici ma curano bene. Ci vuole qualcosa che valga la pena difendere per resistere a un cattivo governo.

C’entra davvero l’ecologia con la tassa ecologica?

La rivolta contro l’abolizione della patrimoniale da parte di chi si ribella alle disuguaglianze sembra ovvia. Caso mai non è ovvia la mancanza di una opposizione vigorosa alla proposta di flat tax in Italia, come osservavo prima.

La rivolta contro l’aumento del gasolio, ora revocato, come il rifiuto della cosiddetta tassa ecologica in Italia, richiede qualche riflessione in più. La misura francese, come quella proposta in Italia, ha ben poco a che fare con il risparmio energetico. È difficile proporre misure ecologiche reali, efficaci, senza partire dagli accordi internazionali, da scenari globali alternativi. È facile però dimostrare l’inganno di misure singole.

Non tutto si può regolare abbassandone o alzandone il prezzo. Se le automobili meno inquinanti, ora, costano il doppio di quelle che usano il gasolio, non sono incentivi e disincentivi sul prezzo che permetteranno di comprare macchine ibride o elettriche (per queste ultime non ci sono ancora le stazioni di ricarica diffuse). E, del resto, le vetture elettriche spostano l’inquinamento, non lo eliminano, perché dipendono dalle centrali. L’imposta sul gasolio finisce per rassomigliare alla tassa sul macinato. Non la si può evitare non andando in macchina, dato che per molti la mobilità in auto è una necessità, nel sistema presente, come non si poteva evitare di macinare. In sostanza, resta solo il balzello. L’imposta, però, è anche un segnale dell’abbandono tendenziale dei motori diesel da parte delle case automobilistiche, dopo il tentativo truffaldino della Volkswagen di barare sui test. Il mercato dell’usato risulterà penalizzato, senza nessun vantaggio ecologico. Ovviamente i proprietari delle macchine con motori diesel protestano. Quando le grandi aziende decisero di puntare sui motori a gasolio, la nocività degli ossidi di azoto e delle polveri sottili prodotte dai diesel era perfettamente nota ai tecnici. L’abbandono del piombo tetraetile, nocivo, aggiunto alla benzina per migliorare le prestazioni, fu l’immagine; il rinnovo tendenziale del parco auto fu il fine prevalente. Ora la doppiezza si replica.

E allora?

Può darsi che la rivolta contro il governo in Francia sia più profonda di quanto non sembri. Può darsi che, sotto la crosta delle rivendicazioni immediate, maturino fini generali. Per ora si vedono i bagliori degli incendi di auto e negozi, non si vede la luce di grandi idee. I manifestanti provengono da classi sociali che stanno perdendo terreno, che resistono alla perdita di diritti, alla riduzione di reddito e di importanza. Non provengono da una classe che è tutto, non conta nulla e vuole contare qualche cosa. Non ci sono segni, culturali, politici, in Italia e in Francia, di una tendenza egualitaria.

Ci sono invece segni, su scala mondiale, non solo francese o italiana, di una rivoluzione gerarchica, per il rafforzamento delle differenze e delle gerarchie, non solo delle gerarchie di ricchezza, ma anche di quelle di competenza, di potere, di controllo dell’informazione.

I governi in senso proprio sono solo uno degli strumenti di questa rivoluzione. Un altro è il dominio della finanza, ben esplorato e criticato. Altri ancora sono i rafforzamenti gerarchici anche nelle professioni, dagli architetti ai medici, alla ricerca. Da un lato molte attività prima esercitate da professionisti vengono scaricate sull’utente, dall’altro il costo delle apparecchiature sperimentali diventa così alto da generare per forza una gerarchia. Si pensi al costo degli acceleratori di particelle del CERN di Ginevra, o alla differenza di accesso alle risorse tra un architetto di fama, il cui costo è un vanto anche per chi lo paga e perciò brilla di luce riflessa, e un normale professionista. Spariscono i medici di base; nascono equipe chirurgiche capaci di meraviglie (loro merito!), che però intervengono sugli organi, non sul malato. Il successo dell’operazione diventa un fine, non un mezzo per il benessere del malato singolo; meno che mai per il benessere della società per cui contano di più la facilità di accesso e la prevenzione.

I costi delle meraviglie salgono; le retribuzioni del lavoratore mediano scendono. Si può lottare per il mutamento di direzione del processo in atto: non per il blocco del mutamento tecnico in atto ma per l’accesso al mutamento dei normali cittadini, per la sua estensione ai normali lavoratori. Non si può farlo senza una forte resistenza dei danneggiati, di quelli lasciati fuori.

È indispensabile perciò resistere e ribellarsi alla gerarchia delle ricchezze e dell’accesso alla conoscenza, non solo al degrado della politica che è diventata repellente. La resistenza e la rivolta da sole però non bastano. Anzi, possono contribuire al degrado politico, come dimostrano i 5S in Italia e l’imbizzarrimento di alcuni anche in Francia (Serge Petitdemange: «Tout le gouvernement est illégal car la France n’a plus de Constitution»). C’è chi ha chiesto il deferimento del potere all’esercito…

Per non contribuire al degrado anche con la rivolta, dovremmo fondere, rendere compatibili, le numerose rivendicazioni in fini generali, attingere alle numerose e autorevoli critiche settoriali, che esistono, per fonderle in una critica sociale complessiva, ritrovare la dimensione politica, la prospettiva europea, generale. Perciò i GJ mi sembrano una risposta ambigua. La loro miscela non risolta di destra e sinistra è pericolosa, come si è visto in Italia, dove il peggio deve ancora venire (dopo “il Re Travicello caduto ai ranocchi” arriva la biscia, che i ranocchi li mangia). Con ciò che i GJ chiedono e sono ci si può anche identificare. Ciò che possono produrre può anche fare paura.

 

Intervista a Louis Maurin, direttore dell’ “Observatoire des Inégalités”

Intervista a Jean-Yves Camus, direttore dell’ “Observatoire des radicalités politiques”

Le Monde, 20/11/2018, Il faut vite raccrocher les gilets jaunes aux wagons sinon ils ne voteront plus

Le Monde, 26/11/2018, Les gilets jaunes designent leurs porte parole

Faux blesse a Tolbiac, Liberation demonte la fake news…, (ozap.com)

Gli autori

Francesco Ciafaloni

Ha lavorato come ingegnere per l'AGIP mineraria fino all'estate del 1966, ho lavorato per Paolo Boringhieri editore dall'agosto '66 al 1/1/1970. Poi ha lavorato per Einaudi fino all'estate del 1980. Da allora ho lavorato per la CGIL. È stato collaboratore dei Quaderni Piacentini, di Inchiesta, di Ombre Rosse, dello Straniero, degli Asini, di Una città.

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