Dove sta andando la Svezia?

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È avvenuto ciò che si temeva succedesse: i Democratici Svedesi (d’ora in poi SD) – la nostra Lega, per intenderci – che nelle elezioni del 2014 avevano ottenuto il 12.9 % dei suffragi, ora con 62 seggi e con il 17.8% dei voti, costituiscono l’ago della bilancia. A poco più di 10 giorni dalle elezioni, nelle quali l’87,4 % degli aventi diritto ha votato, sono in corso frenetiche – frenetiche per gli standard svedesi – consultazioni tra i partiti. E ciò perché il risultato elettorale vede due blocchi contrapposti: l’uno – il blocco rosso-verde composto dai Socialdemocratici, dai Verdi e dalla Sinistra che ha ottenuto 143 seggi; – l’altro, la cosiddetta Allians , che mette insieme Moderati, Liberali, il Partito di centro /(ex partito dei contadini) ed i Cristiano-democratici con 142 seggi. Dunque con un solo seggio in più per i rosso-verdi. Ma come far funzionare un governo con una maggioranza così esigua? Il problema è che, apparentemente, il partito di Jimmie Akesson e Mattias Karlsson nessuno lo vuole. Anche se a livello comunale ad esempio, in due comuni importanti della Dalecarlia, i Moderati (d’ora innanzi indicati come M), avendo perso la maggioranza, hanno già dato la loro disponibilità ad allearsi con loro. Nel momento in cui scrivo queste note, nessuna soluzione è stata ancora raggiunta. Intanto gli SD aspettano. Aspettano perché sanno che saranno cercati ed allora porranno le loro condizioni. Sanno inoltre di poter contare sulle ‘simpatie’ del 25% circa degli iscritti al sindacato LO e su una forte adesione femminile (22 %) nei settori comunali dell’assistenza e dei servizi sociali. Significativa al proposito l’intervista ad un infermiera che afferma di essersi licenziata perché ‘stufa di dover fare più l’insegnante di svedese che il proprio mestiere’.
Sul successo degli SD circolano varie ipotesi. Quella più corrente è il razzismo. Ed al proposito si fa riferimento ad un’indagine del 2014 dell’università di Linkoeping secondo la quale, tipicamente, il votante per gli SD è una persona ostile nei confronti dello straniero. Altri commentatori sottolineano invece l’abbandono da parte dei socialdemocratici (d’ora in poi indicati come S) della loro tradizione. Così, l’editoriale del 12 settembre del quotidiano della sera Aftonbladet, dopo aver commentato il recupero degli S nelle ultime battute della campagna elettorale – un recupero che ha loro consentito di raggiungere un 28,4% dei suffragi grazie a una forte mobilitazione del movimento operaio e ad una serie di promesse importanti in tema di welfare -, ne spiega la debolezza con il fatto di essere venuti meno appunto alla loro tradizione. Una debolezza misurata sul 40% dei suffragi che per decenni ha espresso in cifre il dominio del Partito. Dunque non sarebbe soltanto la critica diffusa nei confronti di una politica non abbastanza dura nei confronti dei migranti ad accrescere le simpatie di una parte dell’opinione pubblica per gli SD, bensì anche una ‘cattiva gestione della distribuzione delle risorse’. Secondo l’ex Primo Ministro socialdemocratico Goeran Persson infatti, il partito ‘è venuto meno al suo compito fondamentale e cioè quello di evitare uno sviluppo economico dove pochi ottengono molto e gli altri vengono messi da parte’. Un rilievo che, continua l’editoriale, trova conferma nel fatto che ‘in dieci anni il numero dei miliardari in Svezia è passato da 35 a 187 mentre mezzo milione di pensionati si può permettersi a fatica tre pasti al giorno’. Ed ecco allora che la vecchia nozione di ‘classe’ ricompare. Ricompare in un articolo del quotidiano liberale Dagens Nyheter che evidenzia il nesso statisticamente significativo tra livello di istruzione – inteso appunto come indicatore di classe sociale – e la propensione a votare per gli SD. Più in generale infatti, lo ‘zoccolo duro’ del partito pare essere costituito da un gruppo sociale che, soprattutto a partire dal 2006, è fuori dal mercato del lavoro o vive di precariato.
E gli svedesi di prima generazione – i migranti che hanno infine conquistato la cittadinanza – cosa pensano loro del risultato elettorale? Probabilmente coglie nel segno Nadia Bakawi, 27 anni, nata e cresciuta a Hoerby, una cittadina della Scania di circa 7000 abitanti dove più di un voto su tre è andato a favore degli SD, quando vede nella paura e nei pregiudizi le ragioni del loro successo. E significativamente Bakawi aggiunge: ’qui, in paese, non è come nelle grandi città dove ci sono persone provenienti da altre culture’. Come dire: è anche nell’ assenza di confronto tra culture diverse che nasce l’intolleranza.
Che peso attribuire a questo 17,8 % dei SD? O più precisamente: quale lezione trarre da questo risultato? Scrive, il 14 settembre, nel già citato Dagens Nyheter il politologo Andreas Johansson: ‘ciò che abbiamo visto domenica rappresenta uno dei migliori risultati elettorali mai raggiunti in precedenza in Europa di un partito radicalmente nazionalista’. Un successo, egli aggiunge, dovuto precipuamente a due caratteristiche degli SD: ’ la prima, di non avere radici naziste; la seconda, l’aver saputo tenere testa ai programmi elettorali degli M e degli S che presentavano di fatto molti punti in comune e con il loro’. Vale a dire, ‘Promesse di una politica più restrittiva in tema di immigrazione, divieto di accattonaggio, misure più severe nei confronti della criminalità, più polizia, maggiori espulsioni e spazi minori per il multiculturalismo.’. Insomma, gli SD, dopo essere stati per anni i soli a portare avanti queste proposte, si sono adesso trovati con un sistema di partiti che ha assunto gli stessi impegni’. Forse, osserva l’editorialista, ‘E per questo che non hanno continuato a crescere’.
Si tratta di vedere ora se i Partiti tradizionali siano disposti ad un ripensamento. In tal caso e per ciò che concerne gli S, un’ indicazione per un radicale mutamento di rotta emerge indirettamente dai dati di una seconda, recentissima ricerca, sempre dell’Università di Joenkoeping. Ché i migliori risultati elettorali gli SD li hanno conseguiti in comuni caratterizzati, rispettivamente, da una percentuale maggiore di persone con un livello basso di istruzione, da una percentuale più elevata di disoccupazione giovanile, da un tasso più elevato di disoccupati e da una maggior presenza di persone nate all’ estero. Dunque un primo passo potrebbe consistere, per cominciare, nel rispolverare gli strumenti del vecchio welfare. Ma è ancora realistico immaginare un ritorno alla stagione dei Meidner e degli Olof Palme? E, prima ancora, è questa ancora un’alternativa?

Gli autori

Amedeo Cottino

Amedeo Cottino è stato professore di Sociologia presso le Università di Umeaa (Svezia) e di Torino. Si è occupato di diritto internazionale umanitario in qualità di esperto della Croce Rossa Internazionale. Ha scritto sul lavoro nero nell'edilizia e sulla criminalità dei colletti bianchi. Studia, tra l’altro, i temi dell'uguaglianza di fronte alla legge e della responsabilità individuale di fronte alla violenza.

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