Nel bene e (soprattutto) nel male, ciò che accade in Germania è decisivo per il futuro dell’intera Europa. Piaccia o no, è inevitabile che gli eventi politici della potenza egemone nell’UE abbiano un riverbero significativo in ciò che accade negli altri Paesi. E dunque va seguito con grande attenzione cosa sta accadendo sulla questione decisiva dei migranti: la discussione in corso nella grande coalizione al potere, ma anche l’intenso dibattito nella sinistra di opposizione. Come in Italia, così nella Repubblica federale, infatti, in questa tarda primavera è la controversia sul governo delle frontiere a occupare il centro della scena.
Nella maggioranza, lo scontro non è – come ci si potrebbe attendere – fra democristiani e socialdemocratici, ma all’interno della famiglia conservatrice. La cancelliera Angela Merkel contro il ministro degli interni Horst Seehofer, che appartiene al ramo democristiano bavarese, la CSU. Pomo della discordia: la possibilità che la Germania blocchi i richiedenti asilo alle proprie frontiere, dopo aver verificato in loco che abbiano già depositato in un altro Stato dell’Unione la domanda di protezione. A proporlo è il ministro, con tutta la sua CSU che governa la Baviera. La cancelliera, in linea con le sue precedenti scelte, non è d’accordo: per lei i migranti vanno comunque fatti entrare, per poi verificare nelle strutture di prima accoglienza all’interno del Paese se abbiano eventualmente già fatto domanda in un altro Stato.
Per chi difende un (minimo) principio di umanità, non può esserci dubbio: bisogna augurarsi che nel braccio di ferro interno ai popolari tedeschi abbia la meglio Merkel su Seehofer. Purtroppo, rispetto al 2015 – quando la cancelliera acconsentì all’ingresso di migliaia di siriani in quella ormai lontanissima «estate dell’accoglienza» – il clima è cambiato, e anche nella CDU crescono i consensi verso le posizioni del partito-fratello bavarese, che, peraltro, fa la faccia feroce anche perché convinto che sia conveniente sul piano elettorale. A ottobre in Baviera si vota: la CSU vuole a tutti i costi mantenere la maggioranza assoluta che rischia di perdere da destra, a causa dell’ascesa dei nazionalisti dell’Alternative für Deutschland (AFD).
Forza Merkel, dunque. Ma senza prendersi abbagli: la leader democristiana non è portatrice di un’idea autenticamente “progressista” della questione-migranti. Nella diatriba di questi giorni, se le posizioni della cancelliera sono preferibili a quelle del suo ministro degli interni, è pur vero che la Germania non è realmente esposta a flussi ingenti che attraversino le sue frontiere: mostrarsi aperti quando il fenomeno è soprattutto un «problema» per altri è sin troppo facile. Non solo: lei ha accettato nel programma di governo il principio del tetto massimo di migranti da accogliere annualmente, fortemente voluto dalla CSU. E, last but not least, lei è la responsabile del vergognoso accordo con il presidente turco Recep Erdoĝan fondato sullo scambio miliardi-chiusura delle frontiere. Con lo stile che le è valso l’appellativo di Merkiavelli, si barcamena in una situazione complessa con cinica intelligenza e freddo “realismo”, ma certo non si spende davvero per costruire un’alternativa solidale e umanitaria valida per l’intera Europa. Sostiene di volerlo fare – anche nel recente bilaterale con il cancelliere austriaco Sebastian Kurz – ma alle parole non seguono i fatti.
Le acque non sono agitate solo nel governo, ma anche nel principale partito della sinistra di opposizione, la Linke. Il congresso che si è appena tenuto ha evidenziato le profonde contraddizioni che attraversano anche la Germania progressista sul tema dei migranti. A confrontarsi, in modo acceso, sono due anime, riconducibili l’una ai co-segretari Katja Kipping e Bernd Riexinger (più Gregor Gysi, attuale numero uno della Sinistra europea), l’altra alla capogruppo parlamentare Sahra Wagenknecht e all’ex leader Oskar Lafontaine. I primi sostengono il principio delle «frontiere aperte per tutti», i secondi ritengono che sia legittimo limitare l’ingresso dei «migranti economici». Per Kipping e Riexinger il contrasto alla destra non può significare l’assunzione del paradigma nazionale della protezione dei propri confini, per Wagenknecht e Riexinger un certo freno ai flussi migratori è l’unico modo per tutelare le condizioni di vita degli strati sociali più svantaggiati del Paese ed evitare di consegnarli alla propaganda della AFD.
È un dibattito che non si può fare finta non esista, né che si può in alcun modo esorcizzare con anatemi e sterili manifestazioni di sdegno. E tuttavia, è una discussione che preoccupa. Non solo perché il suo possibile esito è una scissione nel seno del principale partito della Sinistra europea, una forza fondamentale per la costruzione di un’Europa diversa, solidale, migliore di quella fondata sull’ideologia ordoliberale cara ai governanti di Berlino. A inquietare è, soprattutto, il fatto che nella sinistra tedesca – seria, autorevole, radicata davvero nel Paese – si affacci un punto di vista «nazionale» e circolino concetti come quello di «migrazione economica (letteralmente: Arbeitsmigration)» per distinguere le persone fra quelle legittimate a entrare – e cioè «chi ha veramente diritto all’asilo» – oppure no. Preoccupa che la ragionevole constatazione che i Paesi più poveri andrebbero aiutati evitando di contribuire alle cause profonde delle migrazioni (guerre, riscaldamento climatico, sfruttamento economico) sia giocata contro la difficile e drammatica fuga dalla fame e dalla miseria che le persone intraprendono mettendosi in viaggio verso l’Europa. E disturba che si ignori che il peso maggiore dei grandi trasferimenti di popolazioni ricade non sul nostro continente, ma su Paesi ben più poveri dei nostri (dal Libano all’Etiopia). Prendere atto con realismo delle difficoltà dell’accoglienza è una cosa, assumere nel proprio bagaglio teorico e discorsivo una visione «neo-sovranista» sul fenomeno immigrazione è un’altra. Speriamo non accada, speriamo che la Linke mantenga fermo il principio che un mondo radicalmente ingiusto lo si raddrizza con la cooperazione allo sviluppo e la pace, ma anche aprendo qui e ora le frontiere a chi fugge da una realtà in cui la dignità umana è calpestata.