Come noto, il Governo italiano ha introdotto norme tese a ostacolare il soccorso in mare di migranti in difficoltà (https://volerelaluna.it/migrazioni/2023/01/09/il-decreto-legge-n-1-2023-come-ostacolare-il-soccorso-in-mare/) e, successivamente, dato concreta attuazione a tali direttive indicando alle navi delle ONG interessate porti di attracco lontanissimi dal luogo di soccorso. Nei giorni scorsi inopinatamente il giudice amministrativo ha avallato quella scelta. La vicenda merita di essere raccontata.
Nei giorni tra il 4 e l’11 gennaio 2023 e, successivamente, tra il 24 e il 27 gennaio, la nave Geo Barents, battente bandiera norvegese e noleggiata da Médicins sans Frontières, effettuava dei soccorsi, in acque internazionali, nella zona SAR (Ricerca e Soccorso) libica. Chiesto il POS (Place of Safety, luogo di sbarco sicuro in cui attraccare e sbarcare i migranti soccorsi), le autorità italiane indicavano rispettivamente i porti di Ancona e La Spezia, così costringendo la nave soccorritrice a un aggravio di tempi, costi ed energie rispetto all’opzione di una destinazione in porti più prossimi al luoghi di soccorso. Contro tali decisioni Médicins sans Frontières ha presentato ricorsi in sede amministrativa, chiedendo la dichiarazione di illegittimità della indicazione di porti così lontani. Il 19 giugno, peraltro, il TAR Lazio ha rigettato i ricorsi (con condanna del ricorrente alle spese), ritenendo validi i criteri applicati, da parte delle autorità italiane, ai fini delle scelte nell’assegnazione dei porti di sbarco. Nella motivazione i giudici amministrativi si dilungano nell’analisi della definizione di “luogo” (id est porto) sicuro, evidenziando che secondo la normativa internazionale di riferimento di diritto del mare il luogo di sbarco non deve “necessariamente” e “indissolubilmente” coincidere con il porto più vicino, con la conseguente possibilità per le autorità di indicare un porto più lontano in funzione della ragionevole valutazione delle circostanze del caso. Ciò premesso, il TAR insiste sul fatto che non è necessaria una vicinitas fisica tra luogo di soccorso e porto di sbarco, come se non si ravvisasse contiguità, affinità o – spesso – perfino aderenza concettuale tra la prossimità geografica e quella temporale ai fini (dell’esigenza) di un tempestivo sbarco.
Omette, peraltro, il TAR di evidenziare che, secondo le fonti internazionali, le operazioni di soccorso si devono perfezionare con lo sbarco in luogo sicuro nel minor tempo e con la minore deviazione possibile da parte dell’unità di soccorso e che gli Stati devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista (Convenzione SAR, Capitolo 3, par. 3.1.9; Conv. SOLAS, Cap. V – Reg. 33, par. 1.1). Non v’è dubbio che – pur nel contesto delle circostanze del caso (tra cui, si omettono in sentenza, le indicazioni dello stesso Comandante della nave soccorritrice) – un principio cardine della disciplina in materia di soccorsi in mare è l’assoluta preminenza della tempistica dei soccorsi, che si perfezionano, notoriamente, con lo sbarco non appena ragionevolmente possibile e non appena ragionevolmente praticabile (Conv. SOLAS, Capitolo V – Reg. 33, par. 1.1 – Conv. SAR, Capitolo 3, par. 3.1.9), in modo da arrecare alla nave soccorritrice il minimo sacrificio possibile. D’altronde, senza voler citare la copiosa giurisprudenza (ex multis, il caso Rackete, pure richiamato in sentenza) o le tante fonti normative e di soft law, la Raccomandazione (UE) 2020/1365 della Commissione del 23 settembre 2020 sulla cooperazione tra gli Stati membri riguardo alle operazioni condotte da navi possedute o gestite da soggetti privati a fini di attività di ricerca e soccorso precisa puntualmente che «le operazioni di ricerca e soccorso in situazioni di emergenza richiedono il coordinamento e lo sbarco rapido in un luogo sicuro» e che «le linee guida dell’IMO impongono alle autorità dello Stato responsabile di compiere ogni sforzo per accelerare le operazioni di sbarco delle persone tratte in salvo».
Ciò posto, il nocciolo della questione risiede in una domanda: cosa non ha reso “ragionevolmente praticabile o possibile” uno sbarco in porti più vicini, al punto da sacrificare i richiamati principi cardine della disciplina?
Il TAR risponde facendo riferimento alla palesata necessità, in assenza di segnalazioni di urgenza a bordo e date le dimensioni della Geo Barents, di «non congestionare alcuni territori» affinché «il flusso migratorio sia organizzato, equo e sostenibile»: in quest’ottica – dice la sentenza – sarebbe stata «dimostrata l’indisponibilità dei centri di accoglienza siti nelle zone vicine all’intervento dei soccorsi (zone meridionali del Paese)». Ma così la decisione piega i capisaldi sottesi alle convenzioni internazionali e, ancor più, alle consuetudini in materia di soccorso marittimo, ad esigenze di carattere amministrativo e logistico legate a un (dichiarato) affollamento delle strutture di terra più vicine al luogo di soccorso: con la conseguenza di far soccombere l’assolvimento di obblighi previsti da un consolidato ecosistema normativo, giurisprudenziale e di prassi marinaresca al pretesto di dover organizzare al meglio il sistema di accoglienza a seguito dello sbarco (e senza alcun minimo cenno alla possibilità, ad esempio, di una gestione logistica “via terra” delle varie esigenze, una volta perfezionati i soccorsi in un porto più prossimo).
Questo il nodo cruciale, ma la sentenza merita qualche osservazione critica anche sulla affermata (presunta) assenza dell’obbligo da parte dell’Italia di fornire un POS (luogo di sbarco sicuro), «avendo effettuato il soccorso una nave battente bandiera norvegese al largo delle coste libiche e quindi in acque extraterritoriali».
Secondo il TAR Lazio, il primo Stato competente al riguardo sarebbe stato la Libia: sull’assunto – sfidando ogni frontiera di immaginazione – che la Libia sia uno Stato sicuro tale da poter garantire la necessaria efficienza nelle operazioni di soccorso e tutte le irrinunciabili garanzie in materia di rispetto dei diritti fondamentali. Ma il TAR si spinge oltre, ritenendo in dovere di «fornire direttive per l’individuazione del POS» anche la Norvegia (quale Stato di bandiera della nave soccorritrice), in nome dell’obbligo di cooperazione previsto dalle convenzioni internazionali nonché in quanto titolare della giurisdizione esclusiva in alto mare sulle questioni di carattere tecnico, amministrativo e, in particolare, sociale. Superfluo dire che il Tribunale non spiega come gli obblighi di soccorso rientrino nel menzionato ordine di questioni (in particolare, sociali). Ma non basta. Alla luce delle stesse norme citate in sentenza, infatti, lo Stato di bandiera non risponde della individuazione del POS né sembrano percorribili soluzioni spontanee dello Stato di bandiera (salvo immaginare il semi-periplo dell’Europa per raggiungere la Norvegia che – fortuna vuole – è costiero). Sull’argomento, la Corte di Giustizia UE (sentenza 1 agosto 2022, caso Sea Watch) ha precisato che, nel caso di operazioni di ricerca e salvataggio, lo Stato di bandiera deve essere informato tempestivamente dal comandante della nave e deve prestare ogni assistenza possibile in collaborazione con gli Stati costieri ma che, in nessun caso, il comandante della nave può essere obbligato a un POS dello Stato di bandiera. Né è dato sapere in che misura siano applicabili (in quanto asseritamente estensibili al caso di specie) i principi i richiamati nella sentenza Hirsi vs Italia, vicenda che riguardava le responsabilità di una nave pubblica (italiana) per un respingimento collettivo effettuato in alto mare. A completamento, si sottolinea come certamente non possa figurare, tra le varie responsabilità di uno Stato di bandiera, l’assolvimento di funzioni quali l’accertamento di status, la registrazione delle domande di asilo o altri adempimenti tipici dei Paesi di (primo) approdo. Più in generale, come rilevato anche dal Tribunale dei ministri di Palermo nel caso Open Arms, «deve escludersi che lo Stato di “primo contatto” si identifichi con quello di bandiera della nave che ha provveduto al salvataggio; tale individuazione, invero, confligge innanzitutto con la stessa lettera del testo normativo di riferimento (Risoluzione MSC 167-78), che al punto 6.7 fa esplicito riferimento al “primo RCC contattato”, esigendo, dunque che il “contatto” sia realizzato con il centro di coordinamento per le attività di ricerca e soccorso costituito, in ottemperanza alle linee guida IMO». Da questo punto di vista, per la verità, lo stesso TAR fa menzione dell’obbligo dello Stato di primo contatto al coordinamento delle operazioni di soccorso, limitandone, tuttavia, la portata poiché l’Italia risulterebbe «da anni il Paese con più sbarchi» nonché per le «rilevanti conseguenze di carattere logistico e amministrativo» (sic!). In altre parole, sembrerebbe giustificarsi la compressione di un obbligo in virtù di meri motivi di carattere geografico (che costringono l’Italia – per posizione nel Mediterraneo – ad essere necessariamente più esposta al rischio – e al dovere – di provvedere ai soccorsi e curare la prima accoglienza). Infine, e senza scandagliare improbabili scenari di applicazione dei criteri di ragionamento dei giudici a casi di soccorsi effettuati da unità commerciali, un’ultima nota sulla nave definita in sentenza come luogo (temporaneamente) sicuro. Il TAR dice (correttamente) che «una nave che presta assistenza [può] costituire temporaneamente un luogo sicuro»; peccato, però, si ometta poi di dire che «essa [deve] essere sollevata da tale responsabilità non appena possano essere intraprese soluzioni alternative» e che «se anche se la nave è in grado di ospitare in sicurezza i sopravvissuti e può servire come luogo temporaneo di sicurezza, deve essere sollevata da questa responsabilità non appena possono essere stabiliti accordi alternativi» (Risoluzione IMO 167(78) del 20 maggio 2004, al punto 6.13).
Sarà doveroso seguire con attenzione i possibili strascichi della vicenda giudiziaria: nell’attesa, scruteremo gli orizzonti giuridici e politici per capire in che misura, anche sulla scorta della recente decisione, la prevedibile prassi di individuazione, da parte delle autorità, di porti distanti dalle zone di soccorso taglierà (ancor più), già nel breve e medio periodo, le gambe alle operazioni di monitoraggio e soccorso effettuate dalle ONG, così bendando gli occhi al mondo intero sulle tragedie del Mediterraneo. Con la beffa che la dichiarata necessità di una gestione sostenibile dei flussi in modo organizzato, equo e sostenibile, tale da giustificare POS distanti giorni di navigazione, lungi dal fungere da cerniera tra mare e terra, creerà inesorabilmente squarci e alimenterà voragini, a maggior ragione se le ragioni del soccorso in mare e dell’accoglienza continueranno ad essere rubricate – come la sentenza non manca di ripetere – quali questioni di ordine pubblico e sicurezza.