Si cade a volte / in un lutto senza cadavere ./ Aiuole di sillabe stanno
in arido suolo, plotone vinto e / disperso, un’accensione di tutto
il dolore mondiale / assale senza ragione il magma / fra gola e petto. E cadiamo
nelle antiche tristezze / degli abbandonati,
dei reclusi in fondo alle galere / di rematori incatenati.
Allora è un popolo / che siamo e un’intera perduta guerra
grava le sue nere ali / sul nostro capo.
Per tutti tornare a casa. / Essere eroi dentro il proprio sangue
allora per tutti rimanere / trovare la sponda delle voci.
(Mariangela Gualtieri, Quando non morivo)
Nel Mediterraneo centrale il mare è più denso. Il blu profondo ha smarrito le sfumature, mescolato alla linfa vitale di chi è sepolto senza un nome, di chi è caduto senza scampo, di chi vi è sommerso perché non tratto in salvo. Il Mediterraneo è l’ecatombe di un mare spinato, limitato e ben circoscritto da un regime di frontiera esterno ed esternalizzato, che miete vittime e dispersi nelle acque stagnanti della necro Europa, in cui annegano i diritti e la vita di chi tenta di attraversarlo per raggiungerla. Un’umanità disper(s)ata di chi conta meno. Di chi non conta affatto. Bambini, donne, uomini provenienti da diversi paesi dell’Africa e dell’Asia, intrusi, partiti stranieri e giunti cadaveri, corpi senza vita, senza volto, senza nome… senza corpo. Numeri così alti da non contare affatto. Spesso non giungono neppure i corpi, naufraghi senza lutto per chi ancora li cerca tra le onde colme di lacrime e oblio, trattenuti da un mare in tempesta che non ha quiete perché favorito dal clima mortifero dei trattati SAR [Search and Rescue].
Dalla zona libica a quella italiana, dalla Tunisia alle coste di Lampedusa, dall’arcipelago greco a Malta, c’è di mezzo il mare della morte. Solo negli ultimi 17 anni hanno perso la vita oltre 40mila persone lungo la rotta più letale al mondo: acque internazionali che non appartengono a nessuno, suddivise, a partire dalla legge del mare [Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare – Unclos – del 1982], in regioni SAR in cui si attivano missioni di salvataggio non in grado, comunque, di intervenire in maniera tempestiva presso le numerose – spesso simultanee – richieste di soccorso. Nell’area delle operazioni, gli Stati più vicini avrebbero l’obbligo di essere i primi (non gli unici) a intervenire in caso di imbarcazioni in pericolo e soprattutto a coordinare le navi responsabili sulle segnalazioni di richiesta di aiuto e prestazione di soccorso. Ma le ONG o la guardia costiera nazionale in pattuglia, pur sorvegliando costantemente le aree di operazione, non riescono a intercettare tutte le imbarcazioni in rotta nei tempi brevi che l’emergenza esigerebbe. Il binocolo puntato al largo del Mediterraneo scruta h 24 l’orizzonte in cerca dei barchini o dei gommoni alla deriva, spesso troppo piccoli per essere avvistati dai radar.
A incrinare ancor più la situazione il recente decreto sicurezza emanato dal Governo italiano, che pone la stretta sulle navi ONG, come se queste avessero in precedenza ampio margine di manovra. La retorica sulla sicurezza non è che l’ennesima violazione del diritto internazionale: un’imposta frontaliera e mortifera sulla pelle di milioni di persone che, a discapito di quanto auspicato circa la riduzione delle partenze, assicurerebbe, al contrario, maggiore rischio di dispersione in mare. Il decreto impone, infatti, alle navi umanitarie di non spendersi pienamente nel salvataggio delle persone in mare: uno solo per volta, nessun trasbordo tra navi o rapido ricovero in porto e la richiesta a Roma per l’assegnazione non dell’approdo più prossimo ma spesso quello più distante dai luoghi del soccorso e salvataggio. La messa in sicurezza dei confini nazionali non è, ancora una volta, che un meccanismo geopolitico di criminalizzazione e controllo sulla mobilità che, pur permettendo il salvataggio di qualcuno, ne lascia in pericolo degli altri.
Ricordiamo l’impedimento degli sbarchi (selettivi e parziali) nel porto di Catania lo scorso novembre, in cui le persone soccorse dalla ONG tedesca Humanity 1 – definite dall’attuale ministro degli Interni Piantedosi “carico residuale” – sono state fatte scendere o trattenute selettivamente a bordo sulla base di profili e vulnerabilità arbitrariamente definite dal neo Governo. I numeri, quelli a cui tutti si appellano, dimostrano quanto la politica di chiusura nazionalista basata su un continuum politico avviato sotto i Governi Gentiloni (2017) e Salvini (2018), non influisca sulle partenze, quanto sugli arrivi (o non arrivi): le migliaia di persone in cammino non si scoraggiano dinanzi alle molteplici ragioni che le spingono alla traversata. Fuggendo da guerre e torture sfidano il mare a bordo di barche senza motore sovraccariche di persone ma sprovviste di risorse. Partiti dalle coste tunisine, da Sfax, Kerkennah, dall’Algeria, dalla Siria, Libano, Afghanistan, sopravvivendo al deserto e alla Libia, molti di loro non giungono affatto. Intercettazioni libiche, naufraghi alla deriva e corpi dispersi nel mare, sono tra le frequenti ragioni di sparizione delle persone di cui non si ha traccia né notizie. A partire dai tragici naufragi del 3 e 11 ottobre 2013, costati la vita di almeno 568 persone, continuano ad abissarsi dinanzi le coste siciliane, sarde, di fronte la Porta d’Europa dell’isola di Lampedusa. È il caso di Iheb, di Bilel, di Maher, di Aymen, solo per ricordare alcuni nomi: ma sono migliaia le vittime della politica criminale di fronterizzazione dei confini geografici, corpi giunti presso le coste italiane privi di vita, dove «la gente naufraga, non sbarca» come ci ricorda Marco Aime nel suo L’isola del non arrivo, voci da Lampedusa.
In risposta alle morti in mare e alla straziante carneficina umana di chi attraversa il Mediterraneo in direzione del Sud Europa, gli operatori e le operatrici delle ONG, i soccorritori e ogni persona appartenente alla società civile che ha scelto il lato giusto dal quale stare, costituisce un’altrettanta forza oppositrice al modello di fronterizzazione dei confini. È nato, il 3 ottobre 2022, il progetto MEM.MED. Memoria Mediterránea (https://www.facebook.com/MM.Mem.Med/?paipv=0&eav=AfbBiiO3WssC0tUnLhCfcIZ7Fwi6cH-mg5Luvuq5LQ47OdKxPSTgOcZiw10nwLDIO98&_rdr), promosso da diverse associazioni in campo, con il proposito di costituire uno strumento di supporto legale, di tessitura di memoria attiva, testimonianza e denuncia, a sostegno delle famiglie delle persone scomparse affinché possano restituire la verità e la giustizia dei propri cari al di là della negligente assenza istituzionale. Spesso i corpi emersi dal mare non sono sottoposti a nessuna procedura di identificazione che possa restituire un’identità alle vittime, ma vengono seppelliti e dimenticati anonimamente nei vari luoghi cimiteriali senza nome contraddistinti dai tanto stilati numeri. Numeri, mai persone.
MEM.MED segue le famiglie nelle procedure legali e burocratiche indispensabili per avviare la ricerca e l’identificazione delle persone in vita e il rimpatrio, nel caso si individuino, delle salme delle vittime. A fronte delle pratiche inesistenti o inefficienti di chi amministra e tace tra lungaggini amministrative e rapide procedure per esimersi dai propri doveri normativi, dall’inizio dell’anno scorso, si cerca costantemente negli spazi di frontiera, nei centri di detenzione, negli ospedali o nei cimiteri del confine mediterraneo, per sopperire alle mancanze strutturali.
Dalla sofferenza dei familiari delle vittime, causata da risposte mai garantite, dalla ricostruzione dei fatti conosciuti, la Memoria si fa viva contro impunità e l’indifferenza politica. Riprendere a vedere con gli occhi della consapevolezza e dell’azione di ricerca, identificazione e denuncia degli scomparsi, non riporta in vita le persone annegate nel Mediteranneo ma risveglia la responsabilità che portiamo addosso verso i morti e i vivi che attendono verità e giustizia. MEM.MED è la memoria mediterranea che non si arresta dinanzi alla cecità disumana che vige sul silenzio dei naufragi e si fa strumento di lotta per la ricerca dei sommersi e di giustizia per i salvati.
Riuscirete mai a vederli? A riconoscere in loro dei volti, delle persone? A sentirli fratelli, sorelle? Riusciremo ancora ad emozionarci, a piangere, ad arrabbiarci? Non si empatizza dinanzi all’ennesima notizia uguale alla precedente in cui poveri disgraziati scappano da non si sa cosa, per andare non si sa dove, rischiando la vita alla ricerca di chissà che. Certe notizie non commuovono più, o se commuovono comunque non smuovono. Lo sguardo è atrofizzato da un’altra sporadica e anestetizzata informazione circa un naufragio lontano, in cui i silenzi sovrastano le voci, i numeri annebbiano i volti. Allora immergiamoci anche noi in quelle acque e capiamo se è l’umanità che abbiamo perso o una verità che ci occultiamo.
Mi affido allora a parole di M. De Bellis: «Se c’è una cosa che ho imparato parlando con centinaia di migranti e rifugiate, è che muoversi è una reazione naturale e assolutamente logica di fronte alle disuguaglianze di opportunità, la ribellione pacifica e disarmata di chi non ha nemici da combattere se non un futuro già scritto. È una protesta coraggiosa, che prende nelle proprie mani la consapevolezza dell’impossibilità di sopravvivere o realizzare se stessi dove si è, e la trasforma in un’azione positiva, nella ricerca di un luogo dove poter essere. È una forma di disobbedienza civile quando si deve infrangere una linea immaginaria senza avere in tasca il pezzo di carta giusto perché salvarsi la pelle viene prima di tutto e l’unico territorio da conquistare è il proprio destino, e quello non ha confini» [De Bellis, M. Lontano dagli occhi. Storia di politiche migratorie e persone alla deriva tra Italia e Libia].
Nella foto: Porta d’Europa, Lampedusa. Ph. Valentina Delli Gatti