L’attivazione, per la prima volta nell’Unione europea, della Direttiva n. 55/2001 ha finalmente messo in campo uno strumento per l’accoglienza dei profughi adeguato alla crisi conseguente all’invasione da parte dell’esercito russo del territorio dell’Ucraina e alla guerra scatenata da Putin. I Governi hanno fatto la scelta giusta anche se restano molti punti critici. In particolare: 1) non c’è un piano di ripartizione, forse perché la Polonia (il Paese che accoglie gran parte dei 4-5 milioni di persone in fuga dalla guerra), non vuole creare un precedente; 2) in assenza della ripartizione i singoli Stati non si vedono assegnate le risorse che derivano dall’attivazione della Protezione Temporanea (c’è un programma, CARE, finanziato con risorse ingenti), e quindi limitano fortemente i loro interventi per ragioni economiche; 3) è stata accettata, come sempre negli ultimi anni, la linea discriminatoria dei Paesi di Visegrad, escludendo dall’operatività della direttiva gli stranieri presenti in Ucraina prima del 24 febbraio con titoli di soggiorno di breve durata (per esempio gli studenti universitari), che quindi si vedono obbligati o a tornare a casa o a fare richiesta d’asilo in uno dei Paesi UE; 4) in mancanza di ripartizione e programmazione, l’onere dell’accoglienza ricade in gran parte su privati, famiglie o associazioni. Dopo più di due mesi dallo scoppio della guerra, dunque, gli strumenti messi in campo restano insufficienti e la situazione confusa, ma ci sono innegabilmente alcune novità positive.
Questa disponibilità e solidarietà dell’UE provoca, peraltro, un senso di sconforto e di irritazione se la si confronta con quanto è successo, e continua a succedere, alle nostre frontiere per i profughi provenienti da altre aree del pianeta. Basti pensare che è tuttora in vigore il blocco totale, in Turchia, dei profughi provenienti da Siria, Afghanistan e Iraq negoziato nel 2016, in cambio di denaro, da Angela Merkel, per conto di tutta l’UE a 28, con il presidente turco Erdogan (non certo un campione di democrazia e diritti umani). In quel caso, e in quelli analoghi, ha prevalso l’idea che la chiusura delle frontiere anche attraverso il meccanismo dell’esternalizzazione (ossia la delega a Governi di Paesi fuori UE del controllo dei migranti) fosse la scelta giusta, idonea a fermare “arrivi incontrollati”: scelta, in realtà, controproducente, ché, cancellando ogni via legale d’accesso, sia per chi cerca protezione che per chi cerca lavoro, i Governi hanno lasciato spazio solo ad arrivi incontrollati, gestiti dai trafficanti, rinunciando a governare l’immigrazione. Superfluo aggiungere che quello della Turchia non è l’unico caso: in cambio del controllo della mobilità delle persone verso l’UE, si promuovono accordi anche con altri dittatori e finte democrazie, come l’Egitto e tanti altri Paesi controllati da despoti, che sono così finanziati dall’Europa.
Non basta. Alle frontiere dell’UE dove si consente, giustamente, l’accesso a chi scappa dalla guerra scatenata contro l’Ucraina, si continuano a respingere, nelle stesse ore, persone provenienti da altre aree di crisi, per le quali pochi mesi fa tutta la comunità internazionale, compresi i Governi UE, sembrava mostrare grande solidarietà. Pensiamo agli afghani, in fuga dalla follia e dalla violenza dei talebani. Alla frontiera con la Bielorussia, alleata di Putin in questa guerra, chi proviene da Paesi dove è nota la condizione di violenza e persecuzione, continua ad essere respinto e maltrattato, anche con il ricorso alla violenza da parte della polizia di frontiera. V’è, in ciò, non solo un’insopportabile ideologia razzista e discriminatoria dei due pesi e due misure, ma anche un comportamento illegittimo e sanzionabile, poiché il principio di non respingimento, previsto dalla Convenzione di Ginevra e dalla legislazione UE, viene calpestato sotto gli occhi della comunità internazionale. Quanto avviene alla frontiera tra Bielorussia e Polonia infatti, anziché produrre reazioni indignate dei Governi e sanzioni delle istituzioni europee, vede il sostegno sia della Commissione che dei ministri di molti Paesi, che hanno accettato la linea delle destre xenofobe, degli Orban e dei Salvini, come indicazione per le politiche dell’immigrazione e del diritto d’asilo.
Intanto nel Mediterraneo centrale, la cosiddetta guardia costiera libica e la corrispondente SAR, inventate dal ministro Minniti e sostenute da quasi tutte le nostre forze politiche con il recente rinnovo del memorandum con la Libia, continuano a produrre violenza e morte con il respingimento (illegittimo) delegato da Italia e UE a forze che si contendono il controllo del territorio e, per rafforzare le proprie posizioni, ricorrono al sostegno internazionale e gestiscono i centri di detenzione, il traffico di schiavi e gli stupri e le violenze di massa. È una situazione di palese violazione del diritto internazionale denunciata più volte da organizzazioni delle Nazioni Unite ‒ l’UNHCR tra tutte ‒, con Governi e Parlamenti che si girano dall’altra parte e continuano a finanziare, anche usando risorse previste per la cooperazione e l’aiuto allo sviluppo, polizie, eserciti e milizie notoriamente violente e al di fuori da qualsiasi controllo democratico.
L’atteggiamento dei Governi UE nei confronti dei profughi e degli sfollati dall’Ucraina, confrontato con le politiche in tema di immigrazione e asilo, in particolare con il nuovo Patto Europeo per l’immigrazione e l’asilo, evidenzia, dunque, non solo contraddizioni e discriminazioni, ma anche un cinismo e una strumentalità che rischiano di minare le basi della convivenza democratica e i principi contenuti nelle costituzioni e nei trattati internazionali. Assistiamo quotidianamente a una retorica su diritti umani e democrazia che Governi e Parlamenti calpestano e contraddicono con una rappresentazione che distingue tra profughi di serie A e profughi di serie B sulla base di interessi politici e di parte e senza alcun riguardo per il destino delle persone e per i principi del diritto. Il ruolo nostro ‒ il ruolo della società civile e delle organizzazioni sociali ‒ è di continuare a denunciare queste contraddizioni, ricercando allo stesso tempo, insieme alle vittime delle politiche xenofobe, soluzioni praticabili e giuste.