A 130 anni dal naufragio del piroscafo “Utopia”

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Un piroscafo, il Mediterraneo, le Colonne d’Ercole da valicare e poi l’oceano aperto e la lunga navigazione verso la “Merica”! Da Napoli (provenendo da Fiume e Trieste) per New York con un carico di circa 900 persone a bordo, tutti emigranti italiani (pochi austriaci e istriani) eccetto le 59 persone dell’equipaggio.

La navigazione per i primi giorni è tranquilla, uno dei diversi viaggi transoceanici del piroscafo “Utopia” era appena cominciato. Ma il 17 marzo del 1891, prima di affacciarsi fuori dal Mare nostrum, nei pressi di Gibilterra, la forza di Eolo durante una tempesta di pioggia e saette costringe il capitano John McKeague a una manovra di ingresso nel porto un po’ azzardata, il resto lo fanno i marosi: l’“Utopia” finisce contro il rostro sottomarino della corazzata “Anson”, una delle navi da guerra della marina militare inglese ancorate lì, nel porto del protettorato britannico. La falla, procurata dalla collisione con la punta sottomarina della corazzata, è tale da far imbarcare tanta acqua così che ‒ in pochi minuti ‒ il piroscafo si inclina così tanto da impedire anche la possibilità di far calare le scialuppe di salvataggio in mare. È in quel momento che inizia una delle catastrofi marine più imponenti della storia recente in termini di vite umane.

Era già buio intorno alle 18.30 e la forte tempesta riduceva ancor di più la visibilità. Valutare le distanze tra le navi ancorate al porto rappresentava un’operazione complessa, «né la vista de’ soli fanali a piccoli intervalli in quella foschia poteva essere sufficiente a far giudicare esattamente della posizione di ciascuna nave, della distanza fra l’una e l’altra, della miglior via da percorrere per evitare qualunque sinistro»[1] diranno testimoni addetti alla stazione dei segnali a Gibilterra durante l’inchiesta del Coroner britannico. Fatto sta che poco dopo l’urto la nave prima si inclinò paurosamente e poi, nei minuti successivi, si inabissò, lasciando fuori, quali ancore di salvezza svettanti verso il cielo, soltanto gli alberi delle vecchie vele utilizzati quando, qualche anno prima, il piroscafo non era ancora stato dotato di motori a vapore. Una considerevole parte delle quasi 600 vittime fu sorpresa nelle stive, dove morirono, annegate, senza avere il tempo di reagire.

Nelle zone emerse della struttura dei piroscafi che affrontavano i viaggi transoceanici viaggiavano i passeggeri di seconda e di prima classe. I passeggeri di terza, in genere i più numerosi, erano allocati appena al di sopra le stive, nel ventre oscuro della nave e, per tutto il XIX secolo, s’affrontava il tempo del viaggio prevalentemente in spazi ridottissimi e senza bagni, in condizioni igieniche che definire precarie è del tutto fuorviante. Un ispettore sanitario sulle navi degli emigranti, Teodorico Rosati, nel 1908 scriveva: «Accovacciati sulla coperta, presso le scale, con i piatti tra le gambe, e il pezzo di pane tra i piedi, i nostri emigranti mangiavano il loro pasto come i poveretti alle porte dei conventi. È un avvilimento dal lato morale e un pericolo da quello igienico, perché ognuno può immaginarsi che cosa sia una coperta di piroscafo sballottato dal mare sul quale si rovesciano tutte le immondizie volontarie ed involontarie di quelle popolazioni viaggianti. L’insudiciamento dei dormitori è tale che bisogna ogni mattina fare uscire sul ponte scoperto gli emigrati per nettare i pavimenti. Secondo il regolamento i dormitori sono spazzati con segatura, occorrendo si mescolano disinfettanti, sono lavati diligentemente ed asciugati. Ma tutte le deiezioni e le immondizie che si accumulano sui pavimenti corrompono l’aria con forti emanazioni e la pulizia sarà difficile»[2].

L’“Utopia”, inoltre, era mutila della seconda classe! Già, perché fu deciso di eliminarla a favore della terza, un po’ come le attuali compagnie aeree low cost: fai a meno di un po’ di comodità e di tanto spazio e aumenti il numero di passeggeri. Infatti, in quel viaggio di 130 anni fa, i passeggeri di prima classe erano solo in tre, tutti gli altri erano viaggiatori di terza e la sera della tempesta più di un terzo degli emigranti non fece nemmeno in tempo a portarsi sul ponte per rendersi conto di quanto stava accadendo. Dal ventre del legno inabissato i corpi furono pescati dai sommozzatori, nei giorni seguenti, e furono sepolti in fosse comuni, a Gibilterra. Una mamma fu ritrovata abbracciata al figlio. La scena che si presentò ai soccorritori e poi agli abitanti dei luoghi che espressero la propria solidarietà ai superstiti, fu agghiacciante: «Nella mattina […] apparvero cadaveri presso […] le spiagge di Puerta de Tierra e dell’Espigon. In quest’ultimo punto, lo spettacolo era orribile. V’erano ventidue cadaveri, sei di uomo, nove di donne, fra le quali alcune giovani, e sette di bimbi e bambine. Giacevano nell’arena a poca distanza gli uni dagli altri. Fra tutti, attirava l’attenzione e la pietà il cadavere di una donna di media età che teneva al suo fianco un bambino di circa due anni, con le braccia in posizione tale che si vedeva come ella lo avesse portato al collo durante la lotta contro l’inesorabile Oceano. Si durò fatica a staccare il bimbo dal collo della donna; la povera creaturina aveva le manine avvinghiate al corpo della madre. Su questa spiaggia, c’era una gran folla di gente venuta da Gibilterra e da La Linea. […] Le vittime del naufragio si fanno ascendere a seicentoquarantadue, comprendendovi alcuni dei marinai che perirono mentre si sforzavano di salvare i naufraghi. Di trecentonove furono rinvenuti i cadaveri. I salvati sono duecentonovantaquattro»[3].

Il naufragio dell’“Utopia” è stato quasi dimenticato. La differenza con il “Titanic”, naufragato 21 anni dopo, non è tanto nel numero di vittime, di corpi annegati o straziati dall’urto sugli scogli (ovviamente non presenti nel luogo del naufragio del “Titanic”, in aperto oceano) ma nella terza classe, i cui viaggiatori, sull’“Utopia”, erano la (quasi) totalità e… si sa, i poveri fanno meno rumore, nonostante un processo durato molti anni sul finire del XIX secolo, attraverso il quale fu ottenuto un blando risarcimento per le famiglie delle vittime.

A Gibilterra esiste una epigrafe che ricorda questa immane tragedia e un gruppo di giovani storici, studiosi, che ha celebrato quegli italiani dimenticati nel mentre, senza sosta, continuano i naufragi e le silenziose morti nelle infinite traversate dei migranti da una sponda all’altra del Mediterraneo.

 

NOTE

[1] In Francesco Crispi, Vincenzo Lebano, Francesco Serafino, Gaetano Serafino, Gaetano Manfredi, Brevi osservazioni intorno alla supposta colpa nel naufragio dell’“Utopia” – (VII Sezione del Tribunale), Napoli, Reale Tipografia De Angelis & Bellisario, 1893.

[2] Sergio Sabbatani, Le epidemie sul mare. Odissee di migranti nel XIX secolo. Epidemics on the sea: migrants journeys in the nineteenth century, in Le infezioni in Medicina, n. 2 pp. 195-206, 2015.

[3] Tratto dal settimanale L’Illustrazione Popolare. Giornale per le famiglie, p. 229, Milano, 12 aprile 1891.

Gli autori

Gianni Palumbo

Gianni Palumbo, lucano, nato nel 1968, è ornitologo e naturalista. Ha lavorato per molti anni in ONG che si occupano di tutela e conservazione della natura. È consigliere nazionale del Forum Ambientalista. È stato responsabile nazionale del settore Specie e Ricerche e poi del settore Biodiversità della LIPU.

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