Ci sono narrazioni dell’immigrazione che rifuggono dalle strumentalizzazioni politiche e dagli stereotipi (in verità assai frequenti e di diverso segno). Tra queste, appena uscito in libreria, il volume di Maurizio Pagliassotti Ancora dodici chilometri. Migranti un fuga sulla rotta alpina (ed. Bollati Boringhieri). Un libro duro, pur con tratti di toccante umanità, che non concede nulla alla retorica. Un libro di fatti e racconti (che si dipanano soprattutto il Val Susa, a Oulx, a Clavière e poi a Briançon, non senza incursioni fino a Ventimiglia) con la profondità di un saggio. Un libro da leggere anche se, in alcuni passaggi, fa male. Mi limito, tra i molti possibili, a quattro spunti.
Primo. Il libro affronta un tema trascurato nella, pur vasta, letteratura sull’immigrazione di casa nostra. Ci parla non degli arrivi nel nostro Paese ma dei tentativi di uscirne per andare altrove (in Francia e di lì, spesso, nei Paesi del Nord Europa). Il quadro che emerge, nitido, capovolge, senza bisogno di ricorrere ai numeri, la vulgata a cui siamo abituati, il pensiero dominante che si appresta a diventare unico e dice in maniera univoca non solo che, in Italia, non c’è nessuna invasione di migranti, ma che la grande maggioranza di chi arriva dal Mediterraneo con barconi e mezzi di fortuna, dopo avere attraversato il deserto ed essere stato imprigionato e torturato in Libia, non ha nessuna intenzione di fermarsi nel nostro Paese e, quando lo fa, è perché vi è costretto. «Mai – scrive Pagliassotti – negli occhi e nelle parole di chi ho incrociato lungo la rotta alpina, anche nelle condizioni più drammatiche e avverse, ho percepito stanchezza, frustrazione, sfiducia. Mai ho avvertito paura rispetto a scenari di morte per assideramento, sfinimento o quant’altro. È un esercito invincibile che conosce solo una parola: “Avanti”». Il paradosso è che lo Stato, dopo aver eretto muri per impedire gli ingressi, si disinteressa di quanto accade a chi, nonostante tutto, è approdato sulle nostre coste: nel Paese prima e sui confini poi. I confini, appunto, grande mistificazione della modernità che ha trasformato in barriere il Mediterraneo (da millenni luogo di incontri e di scambi tra popoli) come le Alpi (dove pure, da sempre, si parla, su un versante e sull’altro, la stessa lingua e si vive la stessa cultura).
Secondo. Il racconto di Pagliassotti è impietoso. I migranti non sono idealizzati ma emergono per come sono, per come li ha resi il viaggio terribile dal deserto alla neve delle Alpi (per decenni calpestata dai poveri delle valli piemontesi in cammino verso la Francia: «camminavamo di notte, come ladri, come briganti, e andavamo poi solo a cercare un lavoro» come raccontava a Nuto Revelli un montanaro del “mondo dei vinti”). «Vorrei, forse vorremmo, vedere questi uomini riconoscenti e ubbidienti verso l’occidentale buono che gli sta salvando la vita. Eppure, ed è la condizione che chiunque faccia parte della rete di soccorso può raccontare, questo accade molto raramente. Anzi c’è una fatica assoluta che si erge torreggiante nella gestione dei rapporti umani che immaginiamo semplici perché fondati sul bisogno». Non può che essere così per chi è stato violentato, maltrattato, umiliato, insultato per anni. Per chi, nella lunga traversata verso il “nostro mondo”, tutto quel che ha avuto lo ha dovuto pagare, con soldi, con umiliazioni, con prestazioni sessuali. Per chi deve solo raggiungere la sua meta e non può cedere agli affetti. Come Lucky, arrivato alla “Credenza” di Bussoleno in una notte di pioggia e rimasto per alcuni mesi senza raccontare nulla di sé, a cui – come scrive Nicoletta – «tutti volevano bene, per la sua mitezza e il suo sguardo malinconico e gentile» e che un giorno se ne andò, dicendo che sarebbe tornato la sera, e che non è mai tornato (facendo peraltro sapere, dopo settimane, di essere riuscito ad arrivare in Francia). O come John, arrivato con i piedi congelati e accolto e curato per mesi da Giulia con medicazioni quotidiane, e partito poi, una volta “guarito”, senza una parola di ringraziamento e senza voltarsi, dopo un debole abbraccio.
Terzo. Dove non c’è lo Stato – e talora contro lo Stato – c’è la rete di soccorso organizzata da chi non cede al disumano. Da sempre. Come alla fine del XVII secolo quando la caccia ai poveri era, in Europa, la regola, e venivano creati, ovunque, corpi appositi di polizia per arrestare i mendicanti ma – come scrive G. Chamayou, in Le cacce all’uomo – «invano le guardie, i portieri, i cacciatori di vagabondi, i prevosti tentavano di incarcerali [perché] la gente semplice (lacché, servitori, bambini, suore, osti o prostitute) li proteggeva, li strappava alle grinfie dei caccia-vagabondi, li nascondeva in casa per restituirli in seguito alla libertà». In Val Susa, oggi, è così. Con una rete di soccorso variegata ed eterogenea composta da valligiani qualunque, anarchici italiani e francesi, pezzi di istituzioni locali, medici volontari, giovani e vecchi No TAV, spesso con diversità di impostazioni ma che, alla fine, concorrono ad accompagnare in Francia (a piedi o nascosti in auto) i migranti o comunque a muoversi, con una rete di segnalazioni informali quanto efficienti, per cercare di salvare chi rischia di morire nella neve. Perché lo fanno? «perché sì, e basta» come spiega uno di loro a Pagliassotti che descrive la situazione in una pagina di grande intensità: «Ho visto con i miei occhi gli stessi uomini e donne, spesso anziani, assaltare un cantiere e curare le piaghe di piedi marciti e diventati neri come pece. Ho visto con i miei occhi gli stessi uomini e donne tagliare con le tronchesine delle protezioni di ferro e tenersi in casa, per mesi, sconosciuti che poi un giorno se ne sono andati senza un saluto, lasciandoli in lacrime aggrappati a un cellulare che amaramente taceva per giorni e mesi. […] Per costoro pesano chilometriche fedine penali, piene di resistenza a pubblico ufficiale, danneggiamento, manifestazione non autorizzata, invasione di proprietà ecc. Il loro agire nel vasto mondo dell’illegalità relativa alla terribile vicenda della TAV ha allenato un’intera generazione al prezzo da pagare in nome di un qualcosa che si reputa giusto. Così, quando è giunto il tempo di raccattare clandestini, dargli da mangiare, disinfettargli le piaghe nauseanti, e poi portarli dall’altra parte nascosti da qualche parte, l’abitudine al confronto con lo Stato è tornata utile. In quel momento il parterre di reati si allargava inesorabilmente a favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e associazione a delinquere. Le stesse mani che hanno gettato sassi contro lo Stato hanno salvato lo Stato dalla vergogna di avere una distesa di cadaveri ripugnanti tra i suoi boschi. Immagino che queste parole non piacciano, ma questa è la rotta alpina».
Quarto. Pagliassotti – lo dice espressamente – non vuol convincere nessuno. Perché sa bene che il racconto di quanto accade sulla rotta alpina, lungi dal far ragionare la maggioranza (impoverita e rancorosa) che vorrebbe i migranti affogati in mare o congelati nella neve, ne acuisce rifiuto e odio. Ma ha un altro, lucido, obiettivo: togliere a quella maggioranza sconfitta dalla vita «la speranza che l’armata dei migranti possa essere fermata». Perché «il razzista e il fascista figli dell’alienazione devono sapere che il loro gioire di fronte ai barconi che affondano o ai migranti che muoiono divorati dai lupi nei boschi delle valli torinesi è solo un passatempo privo di speranza, che gli viene dato al fine di non pensare al suo mondo saccheggiato». Perché – merita aggiungere – la storia del mondo è storia di popoli che si spostano e che nessuno può fermare. Semplicemente si possono rendere più difficili i loro spostamenti. Semplicemente se ne possono uccidere alcuni, a caso e senza rimorsi (come Blessing, «uccisa dalla frontiera» come ha scritto la mano pietosa di qualche anarchico sui muri di contenimento della statale del Monginevro).
Il libro è bellissimo e doloroso. grazie per averne parlato, grazie agli uomini e alle donne che ancora sanno praticare solidarietà e riconoscere l’ingiustizia d’europa