Rinchiudere i migranti: i centri di detenzione amministrativa

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La cronaca  di questi giorni – un giovane morto improvvisamente per causa sconosciuta a Torino, un avvocato che denuncia le condizioni di assoluta disattenzione per le condizioni di salute e menomazione fisica del suo cliente nel medesimo centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) – ci restituiscono la vera natura della detenzione amministrativa in Italia. Basterebbe riportare le parole spese da Bruno Mellano, garante dei diritti delle persone private della libertà in Piemonte in un recentissimo incontro pubblico a Torino, per renderne il senso:  «Chi sia stato in prigione e si trova nel Cpr di Torino ci dice puntualmente che la vita in carcere era più sopportabile. La ragione è per tutti la medesima: in carcere puoi non rimanere con le mani in mano dal mattino alla sera, ogni giorno uguale all’altro. Il Cpr è invece un ambiente del tutto alienante». E – ha aggiunto Laura Scomparin,  dell’Università di Torino – «l’istituzione carceraria riconosce ai detenuti i diritti che spettano loro, cura chi sta male, fa entrare il volontariato e la società civile al suo interno a differenza dei centri di detenzione amministrativa».

La prima e unica volta che riuscii a visitare il Cpr di Torino fu circa 20 anni fa. Mi aggregai come giornalista a una piccola delegazione di Magistratura Democratica. Il centro era stato realizzato in un’area di una vecchia caserma: gli alberi che consentivano di ombreggiare la struttura erano stati abbattuti. Motivi di sicurezza. I “trattenuti” – il linguaggio è il più ipocrita possibile – erano sistemati in container (poi sostituiti da casette) e si soffocava al loro interno malgrado un’apparenza di aria condizionata. Chi, fra la decina di “trattenuti”, comandava sugli altri imponeva la tv a tutto volume per tutte le ore che gli garbava. Il centro era diviso in tre aree e due comunicavano attraverso una rete di recinzione a maglie larghe che consentiva rapporti sessuali a pagamento – ci informò un tenente della Croce Rossa militare che si era definito mio collega («Sono un giornalista pubblicista») a capo della struttura. Ci disse subito dopo: «Devono pur far qualcosa questi uomini e donne, per questo consento loro lo svago del sesso. Il problema sono quegli altri, che sono rinchiusi nella terza area, al di là della stradina che divide l’intero centro: possono solo guardare e si agitano assai guardando. Così passo loro vino e psicofarmaci per calmarli».

Questa storia non riemerse nei colloqui che avemmo con i “trattenuti” nei loro pollai. Tutti coloro che erano passati per il carcere dissero, convinti, che nel centro in attesa dell’espulsione si stava peggio. In vent’anni sarà pur cambiato qualcosa, ma di sicuro non l’essenza spersonalizzante di questi tuguri in cui – come si è appena visto – si può morire improvvisamente a 32 anni fra lo stupore ufficiale di chi gestisce queste persone: «Aveva superato la visita medica all’ingresso nella struttura». In attesa dell’autopsia e di capire, se vi si riuscirà, Mellano ha tentato per lo meno di informarsi, dopo aver letto su Fanpage.it che il giovane straniero era stato violentato settimane prima: «Non era lui quello abusato da altri trattenuti nel centro. Il ragazzo morto vi si trovava da 5 mesi dopo molto tempo di vita in strada. Non si lavava e per questo unico motivo infastidiva gli altri trattenuti ed era stato trasferito nel cosiddetto ospedaletto del Cpr».

Cos’è cambiato di questi centri è stata soprattutto la denominazione, più di una volta, ma non il senso della loro funzione: rassicurare l’opinione pubblica che si “fa” per espellere i “clandestini”. Ma che la “detenzione amministrativa” sia un obbrobrio è fuor di dubbio. Concettualmente e nei fatti. Anzi, nei “fatti” va pure peggio, come conseguenza dell’obbrobrio giuridico: chi finisce in queste strutture è trattato come una non-persona. Lo si deduce anche dal senso e dagli stessi contenuti delle Raccomandazioni del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale nel periodo 2016-2018, pubblicate da poco: riguardano l’igiene personale, tutt’altro che garantita dallo stato spesso fatiscente dei servizi, non «dotati di porte che garantiscano l’imprescindibile e necessaria riservatezza di chi ne usufruisca»; e riguardano la necessità che vi siano mense e i “trattenuti” non siano costretti a mangiare con i piatti appoggiati alle loro ginocchia, dal momento che in centri, come quello di Torino, mancano pure i tavoli; che vi siano spazi comuni, come in carcere, per attività sportive e di tempo libero; che all’interno dei centri i trattenuti possano muoversi più liberamente possibile e non accada il contrario. Il caso limite di Torino, per il disprezzo della dignità umana che rivela, segnalato dal Garante nazionale, è che un “trattenuto”, rinchiuso nel suo “modulo abitativo”, per tentare di comunicare con il personale di custodia e presentare un’istanza è costretto a sostare nei pressi del cancello per richiamare l’attenzione dei sorveglianti al loro passaggio. Ciò accade anche in caso di pioggia. E in ogni stagione.

Il Garante ricorda: «L’Istituto del trattenimento dei migranti è totalmente estraneo a qualsivoglia carattere punitivo correlato a profili di responsabilità penale in capo alla persona e la privazione della libertà deve essere contemperata da una riduzione massima degli aspetti afflittivi della detenzione». Fra le sue “raccomandazioni” ne evidenziamo una in particolare: «L’istituzione di un registro in cui siano riportati in maniera sistematica i casi di lesioni riscontrati sugli ospiti o sugli operatori. Tale registro riveste particolare importanza in caso di denunce o di sospetti maltrattamenti».

Nei Cpr, oggi come in passato, finiscono tanto persone fermate senza permesso di soggiorno quanto chi proviene dal carcere, a fine pena, per essere espulso. La promiscuità fra chi ha commesso reati pesanti e migranti privi di permesso di soggiorno non è una preoccupazione di chi gestisce questo circuito di speciale detenzione, tutt’altro che attenuata. Basterebbe, ai fini dell’espulsione, avviare le procedure dei condannati alla detenzione in carcere durante il loro periodo di permanenza negli istituti di pena e non demandare questo obbligo di legge a dopo la loro scarcerazione. Invece, non accade. E ciò appare più una scusa che una giustificazione reale per trasformare i Cpr in luoghi di reale afflizione, peggiore che in carcere.

Nel corso del medesimo incontro svoltosi a Torino su queste tematiche l’avvocato Guido Savio, dell’Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) ha lucidamente fatto rilevare come dall’obbrobrio giuridico della detenzione amministrativa sia nato e si sia sviluppato un circuito carcerario non normato che «si va estendendo agli hotspot e ai cosiddetti locali idonei per rinchiudere i migranti da espellere, sia presso le camere di sicurezza delle questure sia in appositi centri sigillati presso gli aeroporti. Per non parlare delle navi, la nuova idea di Salvini di detenzione amministrativa. Con il primo decreto sicurezza di questo Governo si può trattenere un migrante per 30 giorni e poi spostarlo in un Cpr per altri 180 giorni ai fini della sua espulsione. È questa la via che si vuole seguire».

Ciò che il Governo e in particolare il ministro dell’Interno non dicono è che nei Cpr sono transitate 17 mila persone-non persone fra il 2015 e il 2018. Meno della metà è stata rimpatriata. Il più delle volte senza alcun preavviso e senza che i detenuti amministrativi abbiano potuto darne notizia alle famiglie. Il Garante nazionale, che ha compiti ispettivi sui rimpatri forzati, segnala lunghe ed estenuanti attese negli aeroporti al sole e alla pioggia e la regolare sparizione dei bagagli all’arrivo. L’avvocato Savio denuncia: «Adesso si vorrebbe trattare allo stesso modo anche chi abbia richiesto asilo in Italia senza necessariamente verificare la sussistenza di questa condizione. Si pretende di avere come interlocutore la stessa struttura consolare di quei Paesi da cui i rifugiati sono scappati».

È il segno peggiore di una deriva che si pretende efficientista, ma che è l’esatto contrario delle sue sbandierate intenzioni. I numeri dicono che nel 2018 è stato rimpatriato poco più del 43 per cento degli espulsi trattenuti nei Cpr. Si dirà che nei primi sei mesi c’era un altro Governo. Vediamo allora il dato del primo semestre 2019, fornito dall’ufficio del Garante nazionale: segnala un 45 per cento di rimpatri. Nemmeno un 2 per cento in più. In compenso i morti nel Mediterraneo nel 2018, conteggiati dalle Nazioni Unite e rivelati il 6 novembre scorso, quindi ad anno ancora in corso, sono stati 2 mila. È un bilancio umano e politico terribile, che fa da contraltare al fiume di denaro speso per mettere in scena l’afflizione dei migranti detenuti “amministrativamente”.

Gli autori

Alberto Gaino

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