Sono state depositate la scorsa settimana (nel quasi totale silenzio dei media) le motivazioni di una importante sentenza del Tribunale di Trapani (23 maggio – 3 giugno 2019), che ha deciso in ordine alla nota vicenda dei migranti che nel luglio 2018 si erano opposti con la minaccia dell’uso della forza al loro rimpatrio in Libia da parte della nave commerciale italiana (la Vos Thalassa) che li aveva soccorsi, costringendo il capitano della stessa a invertire la rotta e condurli verso le coste italiane.
Nell’immediatezza della vicenda, quando i migranti ancora non erano sbarcati sulle nostre coste, il Ministro dell’interno e quello delle infrastrutture avevano fatto a gara nell’invocare nei confronti dei migranti che si erano ribellati la massima durezza, augurandosi che “scendessero in manette” dalla nave e “finissero in galera”. La decisione del Tribunale smentisce in maniera che non potrebbe essere più netta l’auspicio degli autorevoli membri del Governo, stabilendo che i migranti avevano il diritto di ribellarsi contro la decisione di rimandarli in Libia, e possono dunque invocare la legittima difesa in relazione alle minacce esercitate nei confronti dell’equipaggio della nave per costringere il capitano a invertire la rotta e portarli in Italia.
1.
Al netto dei tecnicismi, il ragionamento del Tribunale è molto semplice. Il diritto internazionale prevede in capo a tutte le imbarcazioni l’obbligo di salvare chiunque si trovi in situazione di difficoltà in mare, e prevede altresì per le autorità che gestiscono i soccorsi l’obbligo di individuare un “porto sicuro” ove sbarcare i soccorsi. Posto che la Libia, in ragione delle ben note atrocità cui sono sottoposti i migranti trattenuti nei centri di detenzione, non può essere considerata un porto sicuro ai sensi del diritto internazionale, i migranti non possono essere respinti verso la Libia, avendo essi il diritto a essere sbarcati in un luogo ove non siano esposti al rischio di torture e violenze. Di fronte dunque alla prospettiva che il capitano della nave li riportasse in Libia, – obbedendo a quanto ordinatogli dalla Guardia costiera libica, di concerto con le autorità italiane, – i migranti a bordo della Vos Thalassa avevano il diritto di opporsi con la forza a tale decisione, e le condotte delittuose a essi contestate devono essere considerate coperte dalla legittima difesa.
Vi è dunque, nelle motivazioni del Tribunale, un totale ribaltamento di prospettiva rispetto alle incaute dichiarazioni rese dai ministri. Non solo i migranti non hanno commesso nessun reato perché era loro diritto ribellarsi, ma sono le autorità (libiche e italiane) ad aver tenuto una condotta illecita, ingiungendo al comandante della nave di fare rotta verso la Libia. È la stessa logica della legittima difesa a imporre queste conclusioni: se viene riconosciuta tale scriminante, significa che il soggetto ha reagito a un’aggressione ai propri diritti, e in questo caso l’aggressione proveniva proprio da quelle stesse autorità, che invocavano le manette e il carcere nei confronti dei migranti.
La decisione non si limita quindi ad assolvere i migranti che si erano ribellati, ma contiene una durissima bocciatura delle politiche governative in materia di soccorsi in mare. Il Tribunale sul punto è esplicito. Il memorandum d’intesa siglato con le autorità libiche dal Governo Gentiloni nel 2017, sulla cui base le autorità marittime italiane cooperano con quelle libiche affinché sia la Guardia costiera libica a intervenire a soccorrere e riportare in Libia i migranti in difficoltà in mare, è radicalmente illegittimo, perché contrasta con il diritto internazionale consuetudinario e pattizio, che impone di riportare le persone soccorse in un luogo ove esse non siano esposte al rischio di torture e violenze, e di conseguenza impedisce il loro rinvio verso destinazioni ove esse siano esposte a tali rischi. Nel caso specifico, il Tribunale ritiene che il comandante della nave, avendo obbedito a un ordine che riteneva legittimo, non debba rispondere di alcun reato in relazione al suo tentativo di riportare i migranti in Libia; ma la sentenza è chiarissima nell’affermare che tale tentativo configurava una “offesa ingiusta” ai diritti dei migranti, e proprio per tale ragione sono legittime le condotte minacciose con cui i migranti vi si sono opposti.
2.
Proprio tali considerazioni, relative all’illegittimità di ogni forma di respingimento anche indiretto dei migranti verso la Libia, forniscono una inedita chiave di lettura della politica dei “porti chiusi” praticata dall’attuale Governo, che ha visto negli ultimi giorni nuovi e preoccupanti sviluppi. Nell’ultima vicenda della nave Seawatch, bloccata da giorni a poche miglia da Lampedusa perché il Ministero dell’interno le ha vietato l’ingresso nelle acque territoriali italiane, si registra un importante elemento di novità rispetto alle passate vicende di divieti di sbarco alle navi dei soccorritori. Nella vicenda ancora in corso, infatti, il Ministro ha specificato che la Seawatch avrebbe dovuto obbedire alle indicazioni fornite dalle autorità libiche, che avevano indicato come porto sicuro quello di Tripoli, e proprio per questa inottemperanza viene ora impedito l’ingresso nelle acque italiane.
I princìpi affermati dalla sentenza di Trapani ci dicono in modo inequivocabile che, nella vicenda Seawatch, non è l’equipaggio ad avere commesso un illecito, rifiutandosi di riportare i naufraghi in Libia; è piuttosto il Ministro dell’interno, nel rimproverare alla Seawatch di non avere obbedito all’ordine delle autorità libiche, a incitare alla commissione di un reato, posto che secondo il diritto internazionale la Libia non è un porto sicuro per i migranti, e ogni condotta che conduca a riportare contro la loro volontà i naufraghi in Libia costituisce un fatto illecito, contro il quale i migranti hanno diritto a ribellarsi. Se, per assurdo, il comandante della Seawatch decidesse di dare seguito ai desiderata del nostro Ministro dell’interno, facendo rotta verso la Libia, i migranti avrebbero diritto a prendere con la forza il comando della nave e a dirigerla verso le coste italiane, che rappresentano il porto sicuro più vicino.
Il punto decisivo è proprio l’illegittimità dei respingimenti verso la Libia. Da più parti ormai si pone l’attenzione sulle responsabilità (anche penali) in cui possono incorrere le autorità italiane per le loro politiche di cooperazione con la Guardia costiera libica, che risulta da tempo sotto indagine dalla Procura presso la Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità in relazione proprio alla gestione dei soccorsi e dei campi di detenzione ove vengono rinchiusi i migranti. Diversi documenti del Tribunale permanente dei popoli hanno evidenziato le molteplici forme di complicità delle autorità italiane ed europee rispetto alle morti in mare e alle atrocità dei centri di detenzione libici; ed è di pochi giorni fa la presentazione da parte di un gruppo di avvocati francesi alla Procura presso la Corte penale internazionale di una circostanziata denuncia, ove si specificano le ragioni fattuali e normative per cui sarebbe ipotizzabile una responsabilità per complicità in crimini contro l’umanità in capo alle massime autorità politiche italiane ed europee, in ragione del loro deliberato sostegno alla autorità libiche che gestiscono i centri di detenzione (e tortura) in Libia.
Bisognerebbe, allora, riuscire a ribaltare il modo in cui i media e il dibattito politico affrontano la questione dei porti chiusi. Il problema non è affatto, come nella retorica del Ministro dell’interno, che le navi che soccorrono in mare e non riportano in Libia i naufraghi commettono dei reati, e sono complici dei trafficanti. Il problema, ci dice la sentenza di Trapani, è proprio l’inverso: sono le autorità italiane, che se collaborano con quelle libiche nel riportare indietro i migranti, commettono dei reati, e sono complici dei criminali che torturano e uccidono nei campi libici. Ormai l’opinione pubblica sembra essersi abituata al fatto che Italia ed Europa facciano il possibile perché i migranti dalla Libia non arrivino sulle nostre coste, e a questo fine collaborino con denaro, mezzi e formazione con la Guardia costiera libica, benché questa risulti formalmente indagata per crimini contro l’umanità. Per rompere questa tragica apatia, bisogna ricordare con forza che il consenso che una certa politica riscuote in un certo momento storico non significa che, se tale politica comporta la commissione di crimini e di violazioni dei diritti fondamentali, coloro che ne sono responsabili possano in un futuro essere chiamati a risponderne, anche in sede penale.
Proprio questo è a ben vedere il messaggio che si legge in filigrana nella decisione trapanese. Le politiche dei nostri Governi costituiscono delle aggressioni ai diritti riconosciuti ai naufraghi e ai migranti dal diritto internazionale, al punto che è legittimo opporvisi anche con la forza. Con questa decisione la magistratura dà indicazioni chiare su quali sono i limiti che il diritto internazionale impone di rispettare quando sono in gioco i diritti fondamentali delle persone; ma il nostro Ministero dell’interno non pare al momento in alcun modo intenzionato a tenerne conto.