Viviamo – inutile minimizzare – in una società con forti connotazioni xenofobe e con un Governo apertamente razzista. Ma ciò apre contraddizioni e conflitti suscettibili di sviluppi diversi e imprevedibili.
Anche qui c’è, alle nostre spalle, una lunga storia. Dalla fine del XVII secolo e per un lunghissimo periodo la caccia ai poveri fu, in Europa, la regola. Ovunque vennero creati corpi di polizia ad hoc per assicurare l’arresto dei mendicanti. Ciò accadde, seppur in epoca più tarda, anche nel nostro Paese dove il Corpo dei carabinieri reali piemontesi venne istituito, nel 1815 (e dunque ancora in epoca preunitaria), proprio per pattugliare le campagne e trattenere i vagabondi e altre persone sospette.
Meno nota ma non meno importante è che la circostanza che a quelle persecuzioni seguì una diffusa opposizione sociale che, nel tempo, ne attenuò gli effetti e contribuì a invertire la tendenza: «Invano le guardie, i portieri, i cacciatori di vagabondi, i prevosti, simboli dell’ordine borghese, tentano di incarcerali. Tutti coloro che si riconoscono nell’antico sistema di pensiero […] – gente semplice, lacché, servitori, bambini, suore, osti o prostitute – li proteggono, li strappano alle grinfie dei caccia-vagabondi, li nascondono nelle loro case per restituirli in seguito alla libertà».
Anche oggi si moltiplicano le iniziative a sostegno dei migranti, i poveri per eccellenza nella nostra epoca. A metterle in atto non sono, in prevalenza, le organizzazioni che hanno innervato la repubblica ma i movimenti, l’associazionismo religioso e laico, le centinaia di migliaia di donne e uomini (soprattutto giovani) che reagiscono al cinismo e all’indifferenza in nome di princìpi elementari di umanità. È quel che si chiama, da più di due millenni, il diritto di Antigone, dal nome della protagonista dell’omonima tragedia di Sofocle diventata un’icona della modernità per avere anteposto le ragioni della libertà e della dignità a quelle della forza e della ragion di Stato, disobbedendo alla legge di Creonte, re di Tebe, e dando sepoltura al proprio fratello Polinice, condannato a rimanere insepolto. Da allora disobbedire alle leggi del sovrano contingente per rispettare leggi superiori (ieri il diritto naturale, oggi la Costituzione) è il modo di dare un senso alla convivenza e di provare a inverare la democrazia.
Nella società contemporanea ciò ha preso il nome di diritto di resistenza, in forza del quale opporsi alle leggi ingiuste è non solo un diritto, ma un dovere dei cittadini. Il diritto di resistenza è finanche previsto esplicitamente in alcune costituzioni europee come quella portoghese del 1976, il cui articolo 20 prevede il «diritto di opporsi» anche «con la forza» a qualunque aggressione ai diritti fondamentali. Una formulazione simile («La resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione è diritto e dovere di ogni cittadino») era stata proposta in Italia, in sede di assemblea costituente, da Giuseppe Dossetti. La proposta non si tradusse in norma costituzionale ma per ragioni che, paradossalmente, confermano il principio. Le espresse, nella seduta dell’assemblea del 5 dicembre 1947, Costantino Mortati, futuro presidente della Corte costituzionale, rilevando che la norma proposta «sarebbe superflua in quanto esistono già nell’ordinamento positivo strumenti idonei a rendere legittima la resistenza contro atti specifici dell’autorità» e che la figura della resistenza trae il proprio titolo di legittimazione dal principio della sovranità popolare (concetto successivamente precisato con il rilievo che «la sovranità popolare, basata com’è sull’adesione attiva dei cittadini ai valori consacrati nella Costituzione, non può non abilitare quanti siano più sensibili ad essi ad assumere la funzione di una loro difesa e reintegrazione quando ciò si palesi necessario per l’insufficienza o la carenza degli organi ad essa preposti»).
La resistenza contro le norme xenofobe e discriminatorie della disciplina dell’immigrazione è fondamentale. Ma non basta.
Essa deve essere il presupposto per costruire una cultura e una politica alternative a quelle dominanti. Operazione difficile e non di breve periodo che richiede alcuni passaggi fondamentali.
Primo. Il contrasto del razzismo deve andare di pari passo con azioni positive contro la povertà. Il successo delle politiche di rifiuto e di inferiorizzazione dei migranti si alimenta della contrapposizione, tanto infondata quanto suggestiva, tra i diritti dei più poveri e quelli degli invasori, inducendo la convinzione che per garantire e salvaguardare i primi sia necessario negare i secondi. Solo capovolgendo questa equazione si può capovolgere il razzismo. Le lotte per la casa, per il lavoro, per la salute non sono altro rispetto alla lotta contro il razzismo ma facce della stessa realtà. Senza questa consapevolezza e una pratica conseguente l’impegno antirazzista sarà considerato dai più come un lusso radical chic e risulterà inevitabilmente perdente.
Secondo. Alle politiche di rifiuto e di respingimento e alla cultura che le ispira vanno contrapposte una politica e una cultura diametralmente opposte. Non si contrasta il razzismo violento e brutale con un razzismo soft che, oltre a rappresentare una contraddizione in termini, non fa che offrire argomenti al primo e rafforzarlo. L’accoglienza si governa, non si nega. Richiedere e praticare politiche finalizzate a una maggior giustizia tra gli Stati è necessario, anzi è un dovere civile, ma non ha nulla a che vedere con il diversivo razzista riassunto nell’espressione “aiutiamoli a casa loro”. Nessuna aggregazione antirazzista può prescindere dalla chiarezza su questi punti. Non per logiche divisive e antiunitarie ma, più semplicemente, per ragioni di credibilità (senza la quale è illusorio pensare di avere seguito e successo).
Terzo. Il razzismo si è alimentato e si alimenta di “discorsi d’odio”, strillati dalla stampa scritta e parlata. Nel dibattito mediatico e politico si è consentito e si consente alle parole d’odio di diventare argomentazioni lecite, oggetto di discussione. Occorre, anche qui, una discontinuità radicale. Con il razzismo non si dialoga neppure per opporre argomenti e critiche alle sue invettive. Esso va semplicemente isolato, anche fisicamente: nel dibattito politico come sulla stampa. Elaborando contestualmente un linguaggio diverso di pari impatto.
Quarto. Le battaglie non si fanno per qualcuno ma con qualcuno. Non si vincerà la battaglia contro il razzismo senza il coinvolgimento diretto di chi ne è vittima. Una suggestione (pur irripetibile in quei termini) viene da una vicenda recente del movimento operaio in quello che era, allora, il suo luogo di maggior radicamento. La classe operaia torinese giunse alla fine degli anni Cinquanta stremata da una sconfitta storica. Ebbene, dopo una timida ripresa delle lotte all’inizio degli anni Sessanta, fu il coinvolgimento e il protagonismo degli immigrati meridionali a produrre la combattività e le trasformazioni del decennio successivo. Sul posto di lavoro si incontrarono l’operaio piemontese, spesso con una professionalità ormai inutilizzata, e l’operaio-massa meridionale, richiesto dalla organizzazione fordista della fabbrica. Magari divisi o differenti come utenti della città, essi fecero insieme il ’68 e cambiarono la fabbrica e la società. Nessuna trasposizione meccanicistica, ma è possibile – e necessario – che “autoctoni” e “nuovi arrivati” diventino, insieme, protagonisti nella difesa dei comuni interessi contro la stessa controparte.
L’articolo è un’anticipazione de “Il razzismo è illegale”
a cura di ARCI, ASGI, Gruppo Abele e Libertà e giustizia
(Edizioni Gruppo Abele, 2019) in libreria dal 17 aprile