La grande ipocrisia: «Aiutiamoli a casa loro»

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Il culmine dell’ipocrisia, con cui il razzismo nasconde la propria cattiva coscienza e cerca di darsi rispettabilità e credibilità, sta nell’affermazione «aiutiamo i migranti a casa loro», gemella dell’altra: «Se partono in meno ci sono meno morti in mare» (dimentica dei morti nei campi libici e smentita, comunque, dai quotidiani naufragi in assenza di soccorsi). Frasi che avrai sentito ripetere spesso e che magari, poco alla volta, ti sono entrate dentro, convincendoti. Ma impara, se posso permettermi un consiglio, a diffidare di queste convinzioni.

Aiutare i migranti a casa loro o, più esattamente, concorrere alla realizzazione di una giustizia globale nella quale tutti e, tra gli altri, i Paesi di maggiore emigrazione, siano liberi da guerre, siccità, fame e oppressione è – dovrebbe essere – l’obiettivo primario della comunità internazionale. Ma è proprio l’indicazione di questo dover essere che svela l’ipocrisia di vaghe promesse di possibili risolutivi interventi in sostegno dei Paesi svantaggiati.

Bastano, al riguardo, pochi sintetici rilievi.

Primo. Come si sono comportati nel tempo e come si comportano oggi i Paesi più sviluppati nei confronti di quelli più poveri? Ieri, con il più classico colonialismo di rapina, accompagnato da pratiche mortificanti di razzismo, finanche teorizzate; oggi, con un non meno devastante colonialismo economico, che sottrae ricchezze e materie prime ai Paesi poveri e ne blocca ogni possibilità di sviluppo, spesso con la complicità di élites locali corrotte. Le migrazioni sono quasi sempre conseguenze di questo sistema, deportazioni indotte, tragedie di cui l’Occidente ha grandi responsabilità: le colonie un tempo, e oggi la dittatura delle multinazionali, lo sfruttamento delle risorse, la desertificazione, la sottrazione di terre. La realtà è che l’Occidente ha colonizzato, sfruttato e depredato i territori del sud del mondo, dell’Africa in particolare, e ora pretende che chi vive nella fame, nella siccità o fugge da guerre, accetti passivamente il suo destino.

Secondo. La fame nel mondo aumenta. Nel 2017 il numero di persone denutrite è stato di 821 milioni: un abitante del mondo su nove. Soprattutto in Africa e in America Latina. Nei pochi minuti che hai impiegato a leggere le pagine precedenti sono morte venti persone per malnutrizione. Il mondo – e con esso, l’Italia – sta facendo poco o nulla per invertire la parabola di questa tragedia epocale. Ma se anche facesse di più (cosa che, ovviamente, andrebbe fatta, e subito) ci vorrebbero anni e anni per raggiungere risultati soddisfacenti. E intanto?

Terzo. Secondo il rapporto 2018 della FAO, la causa principale della fame e della denutrizione sta, oltre che nei conflitti e nella crisi economica diffusa, nei cambiamenti climatici, che stravolgono le stagioni agricole, provocando sempre più spesso eventi estremi come siccità e alluvioni. I cambiamenti climatici nelle regioni tropicali e temperate già minano la produzione di colture fondamentali come grano, riso e mais. Senza il progetto di costruire alternative radicali, la situazione è destinata a peggiorare con l’aumentare delle temperature. «I segnali allarmanti di aumento dell’insicurezza alimentare e delle diverse forme di malnutrizione – continua il Rapporto FAO – sono un chiaro monito che c’è molto lavoro da fare per essere sicuri di non lasciare nessuno indietro». Nonostante ciò le diverse conferenze sul clima accumulano stalli e insuccessi.

Quarto. Un’altra grande causa di migrazioni sono le guerre. Quarantasette i Paesi attualmente coinvolti in conflitti; 4150 le armi nucleari operative; 66 milioni circa i profughi in fuga; tra il 90 e il 95 per cento la percentuale dei civili fra le vittime (nelle precedenti guerre mondiali, non si superava il 50 per cento).
Pensa alla Siria, al Kurdistan, alla Somalia, all’Afghanistan: le guerre non scoppiano per caso e richiedono armamenti imponenti. Ebbene, come si comportano i Paesi ricchi (tra cui l’Italia), che dovrebbero “aiutare i migranti a casa loro”? Spesso “esportando la democrazia” con bombardamenti e carri armati. Ancor più spesso producendo e vendendo armi. Ma chi denuncia l’enorme business della vendita di armi pesanti e leggere, con il conseguente moltiplicarsi di conflitti, di vittime e di profughi? E perché sono così rare le voci disposte a denunciare l’aspetto più indecente di questa carneficina, ossia la convenienza economica dei conflitti armati? Una convenienza che ha sempre accompagnato l’espansionismo bellico, ma che tocca oggi picchi inediti. Anche qui bastano pochi dati. Nel 2017 la spesa militare mondiale è salita alla cifra stratosferica di 1739 miliardi di dollari. Stati Uniti (715 miliardi), Cina, Arabia Saudita e India guidano la classifica, ma anche il nostro Paese si “difende” con un dodicesimo posto (29,2 miliardi) a cui si accompagna l’ottava posizione nel campo delle esportazioni: il commercio di armi ci frutta 14,6 miliardi di euro, denaro in buona parte illecito perché le nostre armi sono vendute anche a Paesi responsabili di gravi violazioni dei diritti umani come Turchia e Arabia Saudita, in aperta deroga alla legge 185 del 1990.

L’affermazione, apparentemente suggestiva, «aiutiamoli a casa loro» è, dunque, solo la copertura della indisponibilità all’accoglienza. Il dovere di accoglienza e di soccorso è la base della civiltà. Se viene meno, l’emorragia di umanità rischia di diventare inarrestabile. Ecco allora il grande problema, il grande compito: come ricostruire una civiltà che vive una profonda crisi di umanità e di speranza, una società corrosa dal cinismo e dall’indifferenza, lacerata dal rancore e paralizzata dalle paure?

È uno stralcio da “Lettera a un razzista del terzo millennio”
(Edizioni Gruppo Abele, 2019)

Gli autori

Luigi Ciotti

Luigi Ciotti, prete cattolico, è fondatore e presidente del Gruppo Abele e di Libera - associazioni, nomi e numeri contro le mafie. È da sempre impegnato nel sociale, sui temi della legalità e dei diritti e in difesa della pace.

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