Un terzo di secolo fa, a Torino, i migranti dalla Somalia, dall’Eritrea, dal Marocco, dal Senegal, diventarono centro di attenzione culturale, amministrativa, politica. I migranti non erano molti ma erano sufficientemente diversi dai torinesi ordinari nell’aspetto, nelle condizioni sociali e giuridiche, in qualche caso nei comportamenti, da suscitare gli interventi della Caritas, della Prefettura, degli enti locali, di alcuni sindacati, di numerose associazioni. Da far nascere associazioni nuove.
Allora fui tra quelli che cercarono di partecipare a queste attività, di parlare con i nuovi arrivati, di capirli, di lavorare con loro. Eravamo una minoranza, ma ci sembrava di essere sostenuti almeno da una parte dell’opinione pubblica. La Città, le associazioni, le fondazioni, erano attente ai nuovi venuti. Ci furono manifestazioni e iniziative – Torino a colori, Torino città aperta – e ricerche. La nostra ricerca (Uguali e diversi) fu condotta da un gruppo di ricercatori volontari, di varia origine e professione, qualche volta retribuiti a cottimo per il lavoro di ricerca, un gruppo che restò unito per più di un decennio. Alcuni di noi erano specialisti, come Vanessa Maher, antropologa, autrice di studi sul campo in Marocco; altri non specialisti, ma professionisti, come Maria Viarengo, ricercatrice della provincia di Torino, di padre astigiano e madre oromò, arrivata a Torino dall’Etiopia a 18 anni: un’astigiana nera. Altri, la maggior parte di noi, erano di varia esperienza e cultura, ma non ricercatori professionisti.
Cercammo di aggiungere qualcosa a ciò che facevano le associazioni caritative maggiori, come la Caritas Migrantes, cercando soprattutto di facilitare la comunicazione, di capire l’universo culturale e i lavori dei nuovi arrivati (perciò non è fuori luogo questo richiamo in un numero monografico sul lavoro), di lavorare alla pari, simmetricamente, scambiandoci il ruolo di intervistatore e intervistato nel momento stesso della formazione del gruppo.
Certo né il Comune, né le associazioni, né noi, facemmo abbastanza. Gli arrivi erano segnati da tragedie, allora soprattutto nell’Adriatico, nel passaggio dall’Albania (vedi Il naufragio, di Alessandro Leogrande), ma anche nel lungo percorso dall’ex Africa Orientale Italiana all’Egitto e all’Italia. Le condizioni dei braccianti in agricoltura, soprattutto al Sud, erano atroci come adesso (alcuni meccanismi, storici e contemporanei, sono ben illustrati in Uomini e caporali, sempre di Leogrande). In un momento in cui trovare un lavoro regolare non era un miraggio, era fondamentale sostenere l’uguaglianza dei diritti sociali anche degli stranieri. Era vitale ottenere l’accesso al pronto soccorso e al Sistema Sanitario Nazionale. Era importante, ma più difficile il percorso per ottenere il permesso di soggiorno e la residenza, subordinata all’avere un alloggio in cui fissarla. Il mercato della casa è privato e, anche al di là delle scelte delle agenzie immobiliari, i proprietari discriminavano gli stranieri, come fanno anche adesso, come avevano discriminato i meridionali all’epoca della grande migrazione interna. Ci sembrava evidente che fosse importante la formazione dei nuovi arrivati a capire il loro nuovo Paese e quella dei vecchi a capire i nuovi arrivati, la loro storia, la loro religione. Soprattutto ci sembrava importante l’istruzione, l’apprendimento della lingua, l’accesso dei bambini e degli adolescenti, senza respingimenti, discriminazioni e precoci abbandoni, alla scuola pubblica. In alcuni casi, per i provenienti dall’Africa orientale, dall’ex-Impero, c’era una storia comune da scoprire di nuovo, da guardare dal lato di chi l’aveva subita. C’era la risorsa, per gli istruiti, di una lingua condivisa. Per i provenienti da altri imperi c’erano le lingue dei conquistatori, allora ancora insegnate nelle scuole dei Paesi già colonizzati, a fare da tramite. C’erano, se si voleva comunicare alla pari, lingue da imparare. Allora il percorso ci sembrava difficile, faticoso, ma indispensabile e, forse, possibile.
La deriva xenofoba
A un terzo di secolo di distanza posso – possiamo – vedere la gravità di quello che è capitato, la dimensione del nostro fallimento. Parlerei di nostro fallimento; non di nostra, personale, colpa. Le istituzioni, i sindacati, i soggetti più forti, non hanno fatto ciò che avrebbero potuto e dovuto fare. Il lavoro delle associazioni è stato sempre bloccato dalla impossibilità, o incapacità, di adeguare le leggi alle situazioni reali, alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo, alle risoluzioni dell’ONU, alla Costituzione della Repubblica.
Per quello che ci riguarda direttamente non abbiamo potuto o saputo evitare di aiutare ad aggirare le norme per sopravvivere. Abbiamo accettato di aiutare i migranti a vivere decentemente anche senza i documenti in regola. Ma la dimensione dei mutamenti sociali, climatici, culturali in atto è così grande che ciò che abbiamo fatto o non fatto non ha certo determinato l’esito. Non si tratta solo dei cinque milioni di residenti non cittadini in Italia – senza contare gli irregolari –, della ripresa della emigrazione italiana verso l’Europa del Nord (Germania, Regno Unito, soprattutto) e gli Stati Uniti, ma di movimenti veramente sconvolgenti. Alcune aree (il Mezzogiorno d’Italia; l’Europa orientale) si spopolano, anche per effetto del saldo naturale (nati meno morti) negativo, altre si affollano. Gli italiani, soprattutto i giovani, stanno franando dal Sud e dalle montagne nella valle del Po; gli europei dell’est verso la valle del Reno; i francesi verso Parigi e il sudovest. L’apporto dall’estero è solo un’aggiunta, in prevalenza di giovani, forse diversi per aspetto, certo in grado di lavorare, se c’è lavoro.
Finché il lavoro c’è stato gli stranieri sono stati insieme sgraditi ad alcuni ma indispensabili per il Paese, soprattutto per l’assistenza, in agricoltura, nell’edilizia. Quando, con la crisi, non c’è stato più lavoro per nessuno, quando la vecchietta non ha più saputo usare la stampella (vedi articolo di Ferruccio Pastore in questo numero) è partita l’ondata xenofoba e sono nati i soggetti politici che la fomentano e la usano per vincere le elezioni.
Una parte della stampa e dei media si identifica con l’ondata xenofoba, la rafforza, la fomenta. I giornali maggiori non forniscono un’informazione ben fondata necessaria a capire al di là degli schieramenti. La stampa che difende i diritti dei migranti esiste ma è debole.
Di sicuro c’è una parte della società che accoglie, integra, insegna. Ma non se ne sente la voce. Nel Paese in cui vivo il falegname più noto ha sposato una sarta nigeriana, di cui loda le capacità professionali. Muratori e saldatori sono spesso stranieri. Un gruppo politico ordinato e disciplinato, Lotta Comunista, guidava, all’ultima sfilata del Primo Maggio, un lungo corteo di africani ai quali insegna l’italiano e la solidarietà internazionale. I percorsi associativi, le pessime condizioni di lavoro, le iscrizioni ai sindacati, minori e confederali, dei lavoratori stranieri della logistica sembrano molto simili a quelli degli italiani. Se ci sono scioperi li fanno insieme. Ma le confederazioni, anche la CGIL, non si impegnano davvero a seguire, capire, organizzare, i precari, italiani o stranieri che siano. Riscoprirsi compagni sul luogo di lavoro, dove un luogo di lavoro esiste, poter aderire con i compagni a una organizzazione forte, sarebbe invece un primo, necessario, passo per far parte a pieno titolo della società.
Se il posto di lavoro non esiste, come per i dipendenti dalle piattaforme, o da catene di subappalti e reti di franchising, gli unici luoghi di aggregazione possibili restano i quartieri, le scuole, i servizi sanitari. La scuola, la lingua, la conoscenza di altre lingue e di altri costumi, lo studio delle altrui religioni, e di quella tradizionale italiana, sono strumenti indispensabili per vivere insieme. Strumenti così importanti da rappresentare forse un fine in sé, perché le conoscenze cambiano il senso, la natura del “vivere insieme”. Vivere, non solo sopravvivere. Progredire non consiste solo, forse non consiste per nulla, nel costruire macchine sempre più numerose e grandi e nell’accrescere la ricchezza dei ricchi.
Cosa dobbiamo affrontare
Per ricostruire una società dobbiamo partire da noi stessi, accettare la nostra parte di fatica e di dolore per le difficoltà e le crisi che ci aspettano, mantenendo saldi i princìpi, facendo fronte personalmente a ciò che non siamo stati capaci di evitare istituzionalmente.
Per evitare di spendere troppe e vaghe parole mie vi propongo due citazioni di una lettera pubblica, reperibile in rete, a una delle figlie, della Maria Viarengo che ho citato all’inizio, quando ha saputo che la figlia e il suo compagno avevano deciso di adottare una bambina/o africana/o.
«Una tromba d’aria mi è entrata dentro ed è andata a riprendere e a sollevare le paure, le fatiche dell’essere “diversi” in questo Paese. Gli insulti subiti “negra bastarda torna al tuo Paese”. I sospetti gratuiti su di me perché estranea a loro. La sovrastante ignoranza rispetto alla mia provenienza. A Torino avevano appena finito di subire i meridionali e ora toccava a chi arrivava da molto più lontano. Neri: tutti poveri, tutti schiavi, tutti ladri i maschi. E se donne tutte prostitute. Hai mai trovato nei libri di storia un cenno, una descrizione, un concetto, una rappresentazione dell’Africa e degli africani che ti abbia fatto sussultare? Che ti abbia messo a contatto con questo immenso territorio e con il suo popolo?».
Questa è la situazione reale. Non bisogna far finta che non sia così. Ma poi la forza le torna:
«… La forza mi derivava dal pensare alla società civile fatta di donne e uomini che ho incontrato nella mia esperienza di volontariato fra le persone meno fortunate di me. L’ho trovata nella cultura alta. Tra le trame della poesia, nell’universalità delle arti, nei rispettosi silenzi della riflessione spirituale. Nella forza del sorriso complice. Tutto questo è Speranza e io non vedo l’ora che arrivi una creatura e ne faccia parte. Figlia cara, grazie a te e al tuo compagno per il vostro coraggio, ne avrete bisogno di molto, ancora di più, perché tanto lo dovrete offrire a chi arriva. Con il vostro gesto avete rimesso in moto l’ingranaggio dei miei sentimenti che forse stanchi stavano per gettare la spugna. Io ci sarò. Vi voglio bene. Maria».