«Con le parole si fanno le cose» diceva il filosofo e linguista John L. Austin. Le parole diventano cose quando vengono pronunciate o scritte. Non è semplice descrizione, semplice cronaca. La scelta delle parole dà forma al racconto, lo rende visibile, diventa contenuto.
«Le parole non sono mai sbagliate, è l’uso che ne facciamo che può essere sbagliato, che può deformare il fatto che viene raccontato»: così scrive Valerio Cataldi, presidente dell’Associazione Carta di Roma (preposta a dare attuazione al protocollo deontologico firmato dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti e dalla Federazione nazionale della stampa italiana per una informazione corretta sui temi dell’immigrazione), nella prefazione della nuova edizione delle linee guida della Carta di Roma. Un insieme di regole e di princìpi, ovvi e di buonsenso, che ciascun giornalista è tenuto a osservare nel rispetto del codice deontologico.
I princìpi della Carta di Roma suggeriscono accorgimenti e piccole regole condivise che nessuno si sognerebbe di contestare o di violare quando si scrive di politica, di minori, di criminalità organizzata: la verifica dei fatti, la consultazione di esperti, l’utilizzo di termini corretti e giuridicamente appropriati, la tutela dell’identità di profughi e migranti. Sono le regole base del mestiere di giornalista, valgono sempre e in ogni caso.
Applicate al racconto delle migrazioni hanno il valore aggiunto di fornire gli strumenti per costruire un argine collettivo al dilagare dell’odio, nelle parole e nei fatti. Il termine “clandestino”, per esempio, che trova ampio spazio sulle prime pagine dei quotidiani nazionali e nei commenti televisivi, il cui impiego fino al 2016 risultava del tutto marginale. O l’insistenza su alcune associazioni improprie nella trattazione mediatica del fenomeno migratorio: i migranti/profughi come minaccia alla sicurezza e all’ordine pubblico; migranti/profughi come minaccia alla salute; i migranti/profughi come minaccia al lavoro, alla cultura, all’identità.
Queste associazioni, se imprecise e sommarie, non soltanto violano i princìpi etici e normativi del giornalismo, ma veicolano e rafforzano stereotipi nei confronti degli “stranieri” in quanto diversi e dunque pericolosi. In ragione di ciò, nelle linee guida, si consiglia di evitare di “etnicizzare” le notizie, il che non significa censurare le informazioni ma di selezionare, tra le varie caratteristiche proprie di una persona, solo quelle veramente pertinenti a capire cosa è successo.
Anzi, in alcuni casi, evidenziare la pertinenza etnica risulta fuorviante. È il caso dell’omicidio di Emanuele Morganti, un ventenne ucciso ad Alatri, in provincia di Frosinone, la notte tra il 25 e il 26 marzo 2017. Il giovane è stato picchiato molto violentemente dopo un futile litigio da un gruppo di persone, ed è morto qualche ora dopo in ospedale. Nei giorni immediatamente successivi, la maggior parte dei media ha riportato la partecipazione di diverse persone «albanesi» nella rissa: si è parlato di «branco di albanesi», di un «patto tra italiani e albanesi per massacrare Emanuele». Ad oggi, i quattro indagati per omicidio volontario sono tutti italiani, nessuna persona di origine albanese era presente nel luogo dell’omicidio. Un esempio tra tanti che fa comprendere quanto sia cruciale restituire un’informazione corretta su temi ed eventi che concernono la quotidianità – e la sicurezza – delle persone.
Proprio in ragione della centralità che hanno assunto alcune questioni relative al fenomeno migratorio, nella nuova edizione delle linee guida, sono stati inseriti suggerimenti per una corretta informazione su: operazioni di ricerca e soccorso in mare, rom e sinti, episodi di razzismo e hate speech. In ciascuna sezione, sono stati inseriti un glossario e un insieme di suggerimenti volti a restituire la complessità dei fenomeni, senza ricorrere a stereotipi e ad associazioni pregiudizievoli tra la condizione di migranti/o rifugiati e il racconto dell’evento. Nelle indicazioni rivolte ai giornalisti, inoltre, vengono elencate fonti di istituzioni, di centri di ricerca, di siti on-line senza le quali l’azione della stessa Carta di Roma sarebbe priva di sostanza.
A questo proposito, nella prefazione dell’ultimo rapporto sullo stato della rappresentazione mediatica del fenomeno migratorio in Italia – Notizie da paura, con un titolo che individuava nell’allarmismo una delle principali cifre espressive del racconto del fenomeno migratorio nel 2017 – il giornalista e scrittore Giovanni Maria Bellu affermava che «per seguire le regole della Carta di Roma, non è necessario amare gli immigrati, è sufficiente amare il giornalismo e avere, della sua funzione, l’idea che ci è stata insegnata nelle scuole, nelle università e nelle redazioni: il mestiere di chi racconta la realtà in modo tale da consentire alla cittadinanza di conoscerla e di formarsi un’opinione».
Nella prefazione delle Linee guida, il presidente dell’Ordine dei giornalisti, Carlo Verna insiste sul rispetto della verità come modalità irrinunciabile della mediazione giornalistica. Obiettivo comune di tutti coloro che credono nella correttezza della professione e nella diffusione di un dibattito pubblico informato e consapevole. Come si legge in una recente nota di Riccardo De Vito relativa all’arresto del sindaco di Riace, Mimmo Lucano in cui si precisa che la pubblicazione del testo dell’ordinanza del Tribunale di Locri viene effettuata per far conoscere «i fatti contro le polemiche».
Le linee guida della Carta di Roma vanno proprio in questa direzione: «Contrastare chi usa le parole come pietre, chi vuole cancellare differenze e diversità, chi confonde la libertà di informazione con la pretesa di poter diffamare e infangare gli esseri umani, a partire dai più deboli, dai più indifesi a cominciare dai migranti, dai profughi, da coloro che chiedono asilo politico perché scappano da guerre, fame e terrore», come scrive Giuseppe Giulietti, presidente della Federazione nazionale della stampa italiana.
Contrastare gli appelli dalla divisione sociale, restituendo la conoscenza dei fatti e delle persone che li vivono è una strada che la Carta di Roma intende proseguire a percorrere, insieme a tutte le associazioni e gli enti che ne condividono le finalità. A cominciare da un piccolo esercizio che l’Associazione Carta di Roma ha pensato per iniziare a ragionare sull‘uso delle parole: proviamo a sostituire “clandestino” con “persona” e vediamo l’effetto che fa.
L’articolo è pubblicato anche su Questionegiustizia online