Mimmo Lucano e la disobbedienza civile

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Ho un amico senegalese, arrivato in Italia sei anni fa: è un clandestino. Lavora: fa il falegname. Ha un ruolo nella nostra società: a cui non nuoce in nulla, anzi alla quale giova moltissimo, con la sua dedizione, con la qualità del suo lavoro, con la sua onestà. Ma è un fantasma: uno schiavo del nostro sistema. Ma con le leggi che ci siamo dati, non c’è modo di fargli avere un permesso di soggiorno, e chissà, un giorno la cittadinanza. Abbiamo chiuso tutte le strade: e non perché siano troppi, ché anzi ci servono (in tutti i sensi). No: per la “percezione dell’insicurezza” messa a reddito da una politica ridotta all’imprenditoria della paura. Ebbene, se io potessi organizzare un matrimonio combinato per dargli la cittadinanza, lo farei. Se, pur violando qualche norma, potessi affidargli un appalto pubblico per un lavoro che fosse in grado di fare bene, non ci penserei un momento.

È quello che ha fatto Mimmo Lucano, su una scala così importante da essere diventato un modello e un riferimento internazionale. Ora Mimmo Lucano si difenderà in un processo, come tutti coloro che si trovano costretti a violare la legge perché quella legge è inumana, ingiusta, sbagliata. È una resistenza civile, una disobbedienza: e chi la pratica sa perfettamente che può essere chiamato a pagarne tutto intero il prezzo. Anche se vive in una terra, come la Locride, in cui certo le infrazioni della legge hanno altri moventi, e in cui un cittadino si potrebbe ingenuamente aspettare che la procura usasse tempo e soldi per perseguire altri reati.

Ma il punto non è questo.

Il punto è da che parte stare: e c’è un’Italia che sta con Mimmo Lucano, perché sente che l’unico modo di superare queste leggi è disobbedire, pagandone il prezzo. Chi la pensa così sa che dalla parte del sindaco di Riace c’è un alleato potente: che si chiama Costituzione della Repubblica italiana. Già: si può violare la legge, e però attuare la Costituzione.

Il precedente è quello celeberrimo di Danilo Dolci, processato nel 1956 per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, istigazione a disobbedire alle leggi e invasione di terreni. Capi di imputazione ben più gravi di quelli contestati a Lucano: e legati anche in quel caso ad una lotta per i diritti dei più poveri. In quel memorabile processo sfilarono come testimoni della difesa di Dolci figure come quelle di Carlo Levi e Elio Vittorini, e fuori dall’aula le ragioni dell’imputato furono difese da La Pira, Piovene, Guttuso, Zevi, Bertrand Russell, Moravia, Bobbio e Zavattini, Silone, Sellerio, Capitini, Paolo Sylos Sabini, Eric Fromm, Sartre, Jean Piaget e da altri ancora. Alla fine Dolci fu condannato: a cinquanta giorni di reclusione. Eppure la sua battaglia ebbe un’importanza cruciale: per cambiare il senso comune, e le stesse leggi della Repubblica.

Uno degli avvocati difensori di Dolci fu, è noto, Piero Calamandrei, e la sua arringa è il testo più illuminante da leggere per capire anche questo caso di sessantadue anni dopo: «Anche oggi l’Italia vive uno di questi periodi di trapasso, nei quali la funzione dei giudici, meglio che quella di difendere una legalità decrepita, è quella di creare gradualmente la nuova legalità promessa dalla Costituzione». Ebbene, quel periodo di trapasso non è finito: la nostra legalità non è ancora la legalità nuova promessa dalla Costituzione. In particolare, la legislazione sui migranti è in gran parte contro lo spirito e la lettera della Costituzione, e contro i diritti umani più elementari. Disobbedire a queste leggi, essendo disposti a pagare il prezzo di questa disobbedienza, è un modo generoso e impervio per cambiare lo stato delle cose.

Per questo sto con Mimmo Lucano, e faccio mie le parole di Calamandrei: «Vorrei, signori Giudici, che voi sentiste con quale ansia migliaia di persone in tutta Italia attendono che voi decidiate con giustizia, che vuol dire anche con indipendenza e con coraggio questa causa eccezionale: e che la vostra sia una sentenza che apra il cuore della speranza, non una sentenza che ribadisca la disperazione».

L’articolo è pubblicato anche su Il Fatto Quotidiano

Gli autori

Tomaso Montanari

Tomaso Montanari insegna Storia dell’arte moderna all’Università per stranieri di Siena. Prende parte al discorso pubblico sulla democrazia e i beni comuni e, nell’estate 2017, ha promosso, con Anna Falcone l’esperienza di Alleanza popolare (o del “Brancaccio”, dal nome del teatro in cui si è svolta l’assemblea costitutiva). Collabora con numerosi quotidiani e riviste. Tra i suoi ultimi libri Privati del patrimonio (Einaudi, 2015), La libertà di Bernini. La sovranità dell’artista e le regole del potere (Einaudi, 2016), Cassandra muta. Intellettuali e potere nell’Italia senza verità (Edizioni Gruppo Abele, 2017) e Contro le mostre (con Vincenzo Trione, Einaudi, 2017)

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3 Comments on “Mimmo Lucano e la disobbedienza civile”

  1. Ha ragione, ch,mo prof. Montanari.
    Guardare gli atti di Mimmo Lucano dalla sola parte della legge (ci sono caduto anch’io) è ignorare la validità degli esiti conseguiti.
    La domanda da porre, se non sbaglio, è: Lucano ha danneggiato qualcuno o qualche legittimo organismo pubblico o privato?
    Se nessuno è danneggiato e il denaro pubblico è stato utilizzato soltanto per obiettivi coerenti con i valori della Costituzione, necessita cambiare le leggi che non consentono di inverare quegli stessi valori nella vita quotidiana.
    Posso aggiungere una domanda?
    Chi è disposto a mobilitarsi per cambiare la legge che facilita i ri-restauri e non la cura-controllo delle condizioni ambientali che potrebbero ridurre drasticamente le urgenze di ri-restauri sempre precari, rendendo disponibili risorse finanziarie per una più saggia e produttiva politica della cultura?
    Credo troppo pochi.
    Almeno, finché non si farà maturare la cultura del “primato etico-civile della cura-salvaguardia dei territori storici”, come, di fatto, propose Giovanni Urbani con il Piano Umbria (la prima e più importante delle sue “Proposte disperse”).
    Mi permetto di ricordare che il “Piano Umbria”, da più di un anno è leggibile in: http://www.istituto-mnemosyne.it

  2. Oltre a Danilo Dolci, ricordato da Tomaso Montanari, mi piace citare anche il pensiero di don Milano sulla legge e perché in qualche caso non va rispettata: “…La scuola è diversa dall’aula del tribunale. Per voi magistrati vale solo ciò che è legge stabilita.
    La scuola invece siede fra il passato e il futuro e deve averli presente entrambi. E’ l’arte delicata di condurre i ragazzi sul filo del rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità ( e in questo assomiglia alla vostra funzione), dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il senso politico ( e in questo senso si differenzia dalla vostra funzione).
    La tragedia del vostro mestiere di giudici è che sapete di dovere giudicare con leggi che ancora non sono tutte giuste.
    Son vivi in Italia dei magistrati che in passato han dovuto persino sentenziare condanne a morte. Se tutti inorridiamo a questo pensiero, dobbiamo ringraziare quei maestri che ci aiutarono a progredire, insegnandoci a criticare la legge che allora vigeva. Ecco perchè in un certo senso, la scuola è fuori del vostro ordinamento giuridico. Il ragazzo non è ancora penalmente imputabile e non esercita ancora diritti sovrani, deve solo prepararsi a esercitarli domani, ed è perciò da un lato nostro inferiore perchè deve ubbidirci e noi rispondiamo a lui, da un lato nostro superiore perchè decreterà domani leggi migliori delle nostre.
    Ed allora il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i segni dei tempi, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso.
    Anche il maestro è dunque in qualche modo fuori del vostro ordinamento, e pure al suo servizio. Se lo condannate attenterete al processo educativo.
    In quanto alla loro vita di giovani sovrani, non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla. Posso dire loro che essi dovranno tenere in onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste(cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate…
    La leva ufficiale per cambiare la legge è il voto .La Costituzione gli affianca anche la leva dello sciopero. Ma la leva vera di queste due leve di potere è influire con la parola e con l’esempio sugli altri votanti e scioperanti…
    Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola della tentazioni, che non credano di potersene fare scudo né davanti agli uomini, né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno responsabile di tutto…”

    Dalla “Lettera ai giudici” in L’obbedienza non è più una virtù a cura di Michele Gesualdi, Fondazione don Milani, Firenze 2016

  3. Metto a confronto due attività che riguardano la stessa problematica e perciò utilizzo il criterio suggerito da Gesù. L’albero si riconosce dai suoi frutti! Il criterio elimina qualsiasi possibilità di errore, non ha bisogno di tutto l’insieme culturale di regole che la società ha creato perché si basa su dati di fatto: l’incontrovertibilità del risultato.
    Criterio Riace: I buoni frutti sono i miglioramenti della società, cioè di tutte le persone coinvolte. La solidarietà come principio per diffondere i diritti umani. Non si conoscono deterioramenti di questi frutti. Si vorrebbero far derivare i frutti cattivi di questo criterio dal fatto che molta gente in sofferenza sarebbe attirata a venire in Italia che non avrebbe la capacità di accoglierli. Ma l’Italia che dovrebbe accoglierli non si adegua al criterio Riace e quindi non può essere considerata prova di un suo difetto. Se un albero che produrrebbe buoni frutti non venisse innaffiato e concimato secondo i buoni criteri naturali non solo non produrrebbe più buoni frutti ma sarebbe destinato nel tempo a deperire e morire.
    Criterio Salvini: Siamo costretti a dividere gli interessati alla questione in due parti:
    chi sta raccogliendo gli ultimi frutti dell’albero senza pensare a innaffiarlo, concimarlo secondo i giusti criteri naturali e utilizzare i semi dei frutti per creare altri alberi; gli stessi si dedicano invece con tutte le forze ad impedire che gli altri affamati tentino di raccogliere gli ultimi frutti per sopravvivere e
    e gli affamati che non hanno frutti da raccogliere e premono con estrema violenza e grande, naturale desiderio di sopravvivenza, muovendosi verso l’unico albero che produce quei frutti.
    Quali frutti produce questo criterio?
    Godrebbero di buoni frutti coloro che al presente stanno raccogliendo i frutti. Ma questa situazione attuale non si può prevedere che continui nel tempo.
    Ma le stesse persone hanno contemporaneamente il frutto negativo di doversi difendere dall’assalto degli affamati.
    Naturalmente gli affamati hanno soltanto il frutto negativo della fame assillante e del contrasto violento con chi invece sta bene. Niente lascia prevedere un miglioramento.

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