Relazione al Parlamento 2023

Volerelaluna.it

20/06/2023 di:

L’ultima relazione al Parlamento del garante delle persone private della libertà personale Mauro Palma, giunto alla scadenza del mandato è una sintesi di una attività settennale che si è espansa negli anni, di sette anni: un bilancio finale sui diritti delle persone vulnerabili, nelle carceri, nei servizi psichiatrici, nei centri per migranti e nelle residenze per anziani o disabili.

Nel riportarne il testo integrale, di straordinario interesse, anticipiamo alcuni passaggi della parte relativa all’area penale che non si limitano a scolpire i cambiamenti avvenuti nel carcere in questi ultimi anni ma contengono una riflessione di grande attualità sul senso della pena.

Nella prima Relazione al Parlamento di questo Collegio abbiamo riferito il dato di 54.653 persone detenute, presenti al 31 dicembre 2016 […]. Al termine dell’anno 2022 le persone detenute in carcere sono 56.195; includono 2.365 donne, mentre ne includevano 2.285 sei anni prima. Dati complessivamente comparabili, sebbene in aumento di più di millecinquecento persone detenute: la capienza, già allora carente, è aumentata nell’arco dei sette anni soltanto di mille posti regolamentari.

Due dati indicano mutamenti: la percentuale delle persone straniere in carcere è diminuita dal 34 al 31,4 percento; particolarmente diminuita – e questo è un dato positivo – è la percentuale di coloro che sono in carcere senza alcuna condanna definitiva, passando dal 35,2 al 28,3 percento nel corso di questi anni. Resta alto – ed è andato aumentando, nonostante le frequenti discussioni al riguardo – il numero di persone ristrette in carcere per scontare condanne molto brevi: 1.478 persone sono oggi in carcere per scontare una pena – non un residuo di pena – inferiore a un anno, altre 2.741 una pena tra uno e due anni. È evidente che una struttura complessa quale è quella carceraria non è in grado di predisporre per loro alcun progetto di rieducazione perché il tempo stesso di conoscenza e valutazione iniziale supera a volte la durata della detenzione prevista. Non solo, ma questi brevi segmenti di tempo recluso sono destinati a ripetersi in una sorta di serialità che vede alternarsi periodi di libertà e periodi di detenzione con un complessivo inasprimento della propria marginalità. Inoltre, la riduzione della finalità rieducativa a mera enunciazione a cui non corrisponde alcuna effettività finisce col proiettare il senso dell’inutilità delle norme, proprio nei confronti di persone che, avendole violate, dovrebbero essere aiutate a comprenderne il valore. Non solo, ma quell’insieme rappresenta quasi plasticamente l’immagine della marginalità sociale che oggi abita il carcere. L’ordinamento attuale presenta varie possibilità di accesso a misure diverse dalla detenzione per pene così brevi: il non accesso a esse è indicativo di una complessiva povertà. Povertà di supporto sociale, di assistenza legale, spesso di comprensione delle norme stesse; povertà anche materiale perché frequentemente l’assenza di una abitazione o la sua inadeguatezza sono alla base della riluttanza a concedere queste misure a persone che si presentano con tali caratteristiche. La loro presenza in carcere, quindi, interroga il nostro tessuto sociale: sono vite connotate da una marginalità che avrebbe dovuto trovare altre risposte, così da diminuire l’esposizione al rischio di commettere reati. Non dobbiamo mai dimenticare che il diritto penale – e ancor più la privazione della libertà – deve avere un ruolo “sussidiario”, intervenendo come misura estrema laddove altre forme di supporto e riduzione dei conflitti e delle difficoltà che abitano la collettività hanno fallito. Sono vite che avrebbero dovuto trovare altri supporti nell’istruzione, nel sostegno abitativo, nella possibilità di un reddito in grado di rendere la giustamente proclamata tutela della vita una effettiva tutela della vita dignitosa e non meramente biologica; lo avrebbero dovuto trovare anche nell’intervento di orientamento alla prima deviazione verso forme di criminalità. Penso sia ormai il tempo di agire per togliere al carcere ciò che non è possibile che rientri nella sua capacità di azione. Per tali fragilità e conseguenti reati di minore rilevanza che determinano pene molto basse, occorre prevedere strutture diverse con un legame molto più denso con il territorio. […] Perché altrimenti il rischio è quello di continuare a configurare il carcere come punto di arrivo di problemi soggettivi, stili di vita non omologati, emarginazioni che non trovano altrove strumenti di composizione e regolazione.

Il Collegio del Garante nazionale confida che su questo il Parlamento saprà impegnarsi, cogliendo lo stimolo che proviene anche da alcuni Sindaci e al fine di segnare un cambio di passo rispetto alla difficoltà e alla fragilità che oggi si vivono all’interno del carcere. A nessuno, infatti, può sfuggire la rilevanza che nell’ultimo anno e in quello attuale ha assunto il numero di suicidi delle persone ristrette, peraltro accompagnato da un numero anch’esso importante e in aumento rispetto al passato, di suicidi di coloro che lavorano negli Istituti di detenzione a diretto contatto con la drammaticità e l’intrinseca violenza all’interno di essi. Oggi, 21 aprile, data della scrittura di queste pagine prima di inviarle alla stampa, mentre scorre la sedicesima settimana dell’anno, il numero di persone detenute che hanno scelto di togliersi la vita è già 20 con anche altri 9 decessi per cause da accertare – alcuni dei quali attendibilmente classificabili in futuro come suicidi. Il Garante nazionale ha condotto un’analisi dettagliata degli 85 suicidi dello scorso anno […]: ne emerge un quadro di incidenza indubbia della tensione che soprattutto nel periodo recente pervade gli Istituti, ne emerge l’incidenza dell’affollamento dei luoghi e della sua ricaduta sulle condizioni materiali e sulla spersonalizzazione soggettiva; ma soprattutto emerge un quadro di fragilità individuali che interroga noi, la società esterna, anche più che l’Amministrazione penitenziaria. Perché spesso sembra che sia la funzione simbolica dell’essere approdati in quel luogo – il carcere – a costituire un fattore determinante per tali decisioni estreme: quella sensazione di essere precipitato in un ‘altrove’ esistenziale, in un mondo separato, totalmente ininfluente o duramente stigmatizzato anche nel linguaggio dei media e talvolta anche delle istituzioni, che caratterizza il luogo dove si è giunti. Anche perché spesso ci si è giunti dopo vite condotte con difficoltà e lungo il bordo del precipizio che separa sempre più concretamente il percepirsi parte della collettività e il collocarsi ai suoi limiti estremi.

Da qui, la necessità di un discorso pubblico diverso sulla pena, non ristretto ai pochi da sempre presenti su questo tema e soprattutto non connotato ideologicamente, ma riportato nel solco dell’utilità della funzione penale, dei suoi limiti, delle sue necessità in termini di qualità professionale e di capacità di allineamento con lo svolgersi della vita esterna. Tutto ciò ancor prima del tema, peraltro urgente, della riqualificazione materiale delle strutture. Perché, come già accennato, la loro non dignitosa fisionomia attuale è concausa di un senso di vuoto invivibile che può determinare la scelta estrema, ma non ne è la causa principale. Dobbiamo riflettere, infatti, come un discorso pubblico sbilanciato sul versante populista e applicato all’ambito penale abbia portato in anni recenti all’estensione dell’area del controllo penale, pur in presenza della riduzione numerica dei reati più gravi. Come già detto, il dato numerico della prima Relazione al Parlamento riporta circa 54.600 persone detenute; accanto a esse le persone in varie tipologie di misura alternativa alla detenzione erano 34.104 a cui si aggiungevano altre 10.097 in misura di comunità: la cosiddetta “messa alla prova” allora di recente avvio. Oggi, sette anni dopo, le persone detenute sono più di 56.000, ma a esse si sono affiancate altre 53.113 in misura alternativa e quelle “messe alla prova” sono 25.409. Complessivamente, osserviamo che le misure alternative e quelle di comunità non sono andate a diminuzione dell’area detentiva in carcere, ma si sono affiancate a essa portando l’area di intervento di natura penale da una estensione di 98.854 persone alle attuali 135.073, mentre i reati di maggiore gravità sono andati progressivamente diminuendo (gli omicidi volontari, per esempio, sono diminuiti nello stesso periodo del 25 per cento, l’associazione mafiosa del 36 per cento, le rapine del 33 per cento; costanti o in leggero aumento i reati in materia di stupefacenti).

Qui il link al testo integrale della relazione