Il 6 marzo, un mese dopo la richiesta di parere del Ministro della Giustizia, il Comitato nazionale di Bioetica ha diffuso alcune “riflessioni condivise” sulle questioni poste dal rifiuto di trattamenti sanitari da parte di persone detenute. La nota, approvata all’unanimità dai 33 componenti dell’organismo, fissa dieci punti fermi, che i media hanno sinteticamente tradotto nell’affermazione «Cospito, il Comitato di bioetica risponde a Nordio: “No a misure sanitarie contro la volontà del detenuto”». Pubblichiamo di seguito per intero il documento che integra l’ampia informazione dedicata dal sito alla vicenda dello sciopero della fame, ancora in atto, di Alfredo Cospito (https://volerelaluna.it/wp-content/uploads/2023/02/Volere-la-luna-Talpa-n-31.pdf). Le “riflessioni” approvate all’unanimità sono seguite da da pereri di maggioranza e minoranza per i quali si rinvia a: https://sistemapenale.it/pdf_contenuti/1678872213_comitato-nazionale-bioetica-cospito-alimentazione-forzata-risposta-quesiti-ministero.pdf. (la redazione)
1. Il Comitato Nazionale per la Bioetica (d’ora in poi CNB) si è prima di tutto interrogato sulla possibilità di rispondere a quesiti per i quali è evidente il collegamento a una vicenda personale chiaramente riconoscibile, per quanto non esplicitamente menzionata. L’art. 6 co. 4 del Regolamento esclude che il CNB possa dare risposte a “quesiti riferiti a casi personali”, ma prevede che ciò possa avvenire “in ipotesi eccezionali in cui ricorrano motivi di interesse generale e comunque nel rispetto della funzione giurisdizionale spettante alla Magistratura”. Il CNB non ha dunque alcuna legittimità giuridica, politica, morale ed etica per formulare un parere “ad personam”. Di conseguenza la presente risposta ha un carattere generale. Il dibattito che si è svolto all’interno del CNB e le diverse posizioni emerse non esauriscono in ogni caso la complessità delle questioni coinvolte e il loro intreccio con altri problemi rilevanti per la riflessione bioetica e giuridica.
2. Il CNB intende continuare la riflessione nel merito, in futuri approfondimenti in Gruppi di Lavoro.
3. Il CNB ha per sua missione l’approfondimento dei temi bioetici e non la soluzione di specifici problemi giuridici. Nei quesiti del Ministero le due prospettive si intrecciano strettamente. Esse devono comunque restare distinte. Una cosa è infatti la riflessione su ciò che si ritiene idealmente “giusto” fare, un’altra è lo specifico scrutinio di ciò che le norme in vigore prevedono, fermo restando l’inevitabile collegamento fra le due dimensioni. Ciò significa, in particolare, che anche questo documento, come tutti quelli del CNB, esprime un profilo bioetico e non è, per sua natura, un parere giuridico in senso stretto.
4. I quattro quesiti formulati dal Ministero della Giustizia ruotano attorno al rifiuto e alla rinuncia di trattamenti sanitari, alla legge n.219/2017 e, da ultimo, alla sentenza n. 242 del 2019. In tutti i quesiti l’intreccio fra la dimensione etica e quella giuridica appare evidente. Il primo quesito, che si articola in tre distinti interrogativi, pone un problema di carattere generale, che riguarda la validità del consenso, rifiuto o rinuncia di trattamenti sanitari, “specie se salvavita”, che sia “subordinato al conseguimento di finalità estranee alla situazione clinica personale”. Gli altri tre si concentrano esplicitamente sulla condizione di “detenzione carceraria” (a titolo esemplificativo nel secondo e in via esclusiva nel terzo e nel quarto). Il quarto fa esplicito riferimento alla sentenza della Corte costituzionale 242/2019.
5. Occorre innanzitutto ribadire alcuni punti fermi sulla capacità giuridica generale della persona in stato di detenzione per quanto concerne il compimento degli atti di stretta rilevanza personale. I detenuti sono ovviamente persone capaci di intendere e di volere e possono, quindi, autodeterminarsi in tale sfera. Come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 26 del 1999, “i diritti inviolabili dell’uomo, il riconoscimento e la garanzia dei quali l’art. 2 della Costituzione pone tra i principi fondamentali dell’ordine giuridico, trovano nella condizione di coloro i quali sono sottoposti a una restrizione della libertà personale i limiti a essa inerenti, connessi alle finalità che sono proprie di tale restrizione, ma non sono affatto annullati da tale condizione”.
6. Di conseguenza, qualsiasi detenuto può non solo esprimere assenso o dissenso ai trattamenti diagnostici o sanitari che lo riguardano, ma può anche, in previsione di una futura eventuale incapacità di autodeterminarsi, efficacemente redigere le DAT, ai sensi dell’art. 4 della l. n. 219/2017. Sotto questo profilo può affermarsi, in via generale, che in regime di detenzione carceraria, non vi siano limiti e peculiarità, dal punto di vista etico, nell’applicazione della Legge 219/2017.
7. È inoltre importante chiarire il significato dello sciopero della fame e, dunque, la natura di quest’ultimo nel contesto del diritto della persona a manifestare liberamente il proprio pensiero con lo scritto e con ogni altro mezzo di diffusione, secondo il dettato dell’art. 21 della Costituzione. Lo sciopero della fame è espressione di autodeterminazione della persona: forma di testimonianza e protesta non violenta a difesa di ideali, diritti, valori e libertà. Lo sciopero della fame rappresenta dunque un modo, sia pure estremo, di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica su situazioni ritenute ingiuste o su diritti che si desidera rivendicare. Un tale comportamento esprime quindi una libertà morale del soggetto, che rappresenta quel “residuo tanto più prezioso, in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale” (sentenza della Corte costituzionale n. 349 del 1993). Questa libertà va sempre pienamente rispettata, in particolare quando provenga da un soggetto che, fortemente limitato dal regime di detenzione cui è sottoposto, individui nello sciopero della fame, in mancanza di altri mezzi, una forma estrema di comunicazione, mettendo anche a rischio la propria vita.
8. Dalla valutazione etica sopra esposta discende immediatamente la conseguenza che lo Stato non ha il diritto di limitare con misure coercitive lo sciopero della fame, che costituisce, come si è detto, un segno dell’incomprimibile libertà di ogni essere umano. Pertanto, non sono ammissibili trattamenti diretti a favorire il benessere fisico del detenuto che si traducano in costrizioni violente.
9. In tale contesto, è anche importante sottolineare che chi adotta questa forma di protesta si trova in una situazione differente da quella del malato che rinuncia a terapie salvavita. Chi sciopera mette in gioco la vita come modo per indurre un esito, senza usare violenza su alcuno. Emerge anche la differenza che esiste tra la situazione di colui che cerca la morte per se stessa e la situazione, diversa, di colui che pone in essere una forma di protesta rischiosa, in cui la morte non è il fine ricercato per se stesso, ma è solo una conseguenza possibile, eventualmente accettata.
10. Con il rispetto del rifiuto di alimentarsi devono essere naturalmente garantite a chi ha scelto questa forma di protesta/testimonianza, sempre previo consenso da parte sua, l’assistenza appropriata e le terapie idonee a curare gli scompensi organici e le patologie che dovessero insorgere. L’indicazione di ciò che è doveroso fare nel momento in cui un detenuto in sciopero della fame dovesse perdere conoscenza o sopravvenisse un imminente pericolo di vita senza poter esprimere decisioni consapevoli si presenta come il problema più delicato e complesso.