La storia del salario minimo in Italia ha dell’inspiegabile e se dovessimo raccontare le varie posizioni assunte a un francese (nel cui Paese il salario minimo esiste dal 1950) o a uno spagnolo (il cui premier nelle ultime elezioni ha arginato la destra estrema aumentando il salario minimo) difficilmente potrebbero capire, per dirla come Giorgio Gaber, cos’è la destra, cos’è la sinistra.
Le origini erano chiare. Il 14 maggio 1954, la partigiana Teresa Noce (una delle 21 donne elette all’Assemblea costituente) e Giuseppe Di Vittorio (mitico segretario della Cgil) furono i primi firmatari della prima “proposta di fissazione di un minimo garantito di retribuzione per tutti i lavoratori”. Poi tutto si è ingarbugliato. Non si riusciva a spiegare – ed era una domanda frequente in Italia – come mai proprio i sindacati, le organizzazioni finalizzate alla difesa e promozione delle condizioni di vita di lavoratori e lavoratrici, fossero scettici, o addirittura contrari al salario minimo. L’unica formazione politica, che peraltro all’epoca non dichiarava nessuna appartenenza a schieramento politico (tanto da fare il governo indifferentemente con la Lega e poi con il PD), a rilanciare con convinzione il tema era il Movimento 5Stelle che, con la ministra Catalfo, propose una legge sul salario minimo. Alcune proposte erano state presentate per la verità anche dal PD ma con minore convinzione e coraggio, ancorandosi i testi di questo partito sostanzialmente ai contratti collettivi per non allontanarsi dagli intendimenti sindacali. Addirittura nel gennaio 2019 il deputato di Fratelli d’Italia Walter Rizzetto – oggi presidente della Commissione Lavoro della Camera – presentò un progetto di legge intitolato “Istituzione del salario minimo orario nazionale”, per rendere la confusione più totale. Finalmente – questo solo per la chiarezza sul tema – arriviamo al settembre 2022 quando la destra stravince alle elezioni politiche formando un governo con a capo la leader del partito della destra più estrema rappresentata in Parlamento.
Durante il primo semestre di luna di miele della compagine governativa con il paese i sondaggi univocamente attestavano la sempre maggiore popolarità di questo governo e le difficoltà della minoranza. Poi qualcosa cambia. Il nuovo segretario del Partito Democratico, scelto non dagli iscritti al partito (che indicano solo i due candidati per il ballottaggio), ma da oltre un milione di Italiani con idee progressiste, è Elly Schlein che nel programma proposto ha nel salario minimo uno dei capisaldi insieme ai diritti civili e all’ambiente e nel dialogo con i 5Stelle, ormai sempre più orientati a sinistra dal segretario Conte, la stella polare del proprio cammino politico. Allo stesso modo anche la CGIL ha finalmente un ripensamento critico e inizia ad aprirsi sul tema del salario minimo, seguita dalla UIL mentre la CISL rimarrà sulla posizione critica che caratterizzerà tutto lo schieramento di destra. Anche nella terra politica di nessuno, o al massimo di pochi, Calenda con Azione apre al salario minimo mentre Renzi (che pure ne aveva già parlato nel Jobs Act) con Italia Viva si schiera con il Governo contro.
Finalmente l’operazione chiarezza sembrerebbe realizzarsi: chi è di sinistra, o comunque tendenzialmente progressista, è favorevole al salario minimo mentre chi è di destra, o tendenzialmente conservatore, è contrario. C’è però un particolare: i sondaggi parlano di un 75% circa degli italiani favorevoli al salario minimo e questo inevitabilmente porta a concludere che anche una grande parte dell’elettorato di destra non condivide le opinioni dei politici che la rappresenta (anche il governatore della Banca d’Italia Visco, nella ultima relazione del maggio 2023 è arrivato a dire che «all’Italia servono il salario minimo e più immigrazione» mentre per il presidente di Confindustra Bonomi «da parte nostra non ci sono veti, anzi è una grande sfida»). O forse più semplicemente le persone stanno da un punto di vista economico molto peggio dei politici che le rappresentano
Le ragioni di questo comune sentire sono evidenti: il lavoro povero, quello che non consente di superare la soglia di povertà (si considerano lavoratori con basso salario coloro che guadagnano meno dl 60% della mediana del salario annuale), è oramai a livelli altissimi. Per le Acli si arriva al 15% ma secondo il Forum Disuguaglianze e Diversità il numero di lavoratori poveri oscilla, a seconda del campione considerato e del salario, tra il 20 ed il 30%: «L’Italia, infatti, è l’unico dei Paesi OCSE in cui c’è stata una riduzione del salario medio tra il 1990 e il 2020 (circa 3 punti percentuali) e nello stesso periodo sono aumentate anche le disuguaglianze salariali». E questo fenomeno non è degli ultimi tempi, è solo peggiorato: come giudice del lavoro in primo grado troppe volte mi sono sentito dire dai lavoratori che accettavano accordi scandalosamente bassi che loro dovevano arrivare con la famiglia alla fine del mese… Alcuni dei contratti collettivi, anche quelli conclusi dai sindacati confederali, non garantiscono l’esistenza libera e dignitosa richiamata dall’art. 36 Costituzione; i giudici del lavoro devono intervenire con sentenze su un tema che non può essere di competenza giurisdizionale ma legislativo, come avvenuto nella stragrande maggioranza dei paesi dell’Unione. Le ultime ventate inflazionistiche hanno ulteriormente ridotto il potere di acquisto degli italiani che sono sempre meno interessati alle vicende della Santanchè o alle uscite dei vari Nordio e Sangiuliano (che sembrano creati dai pennarelli di Maccox) ma che fanno i conti con la loro sempre più difficile situazione.
Questa è allora la spiegazione: il salario minimo non è un tema di sinistra ma una questione che riguarda la dignità di chi lavora e di tutti noi. Per questo personalmente ritengo che firmare la petizione sia cosa giusta (sul sito salariominimosubito.it, dove è possibile firmare on line, si possono trovare oltre al testo della proposta di legge sul salario minimo anche una serie di Faq utili per una informazione sul tema).