Il caso è presto detto: si rivolge all’Ufficio vertenze di un sindacato “maggiormente rappresentativo” (che passa il caso al nostro studio) un gruppetto di lavoratori dipendenti che risultano dalla busta paga essersi visti riconoscere retribuzioni medie intorno ai 4,6 € netti all’ora (circa 700 € al mese!). Il tutto lavorando 38 ore settimanali a seconda di eventuali assegni familiari o meno. Non sono dipendenti di una cooperativa più o meno fantomatica, come ci si sarebbe aspettato, bensì di una Srl avente scopi industriali di assemblaggio materiale ferroso, costruzioni metalliche eccetera. L’azienda risulta applicare un contratto collettivo nazionale non controfirmato dalle tre organizzazioni sindacali maggiori ma, come ormai noto, la mancata applicazione dell’art. 39 della Costituzione (laddove prevede l’obbligatorietà in forza di legge dei contratti di lavoro firmati dalla organizzazioni sindacali che abbiano acquisito personalità giuridica, cioè nessuno) permette ai datori di lavoro che non siano aderenti (sempre più numerosi, peraltro) a qualche associazione datoriale di particolare rilevanza di applicare il CCNL che ritengono più opportuno (ce ne sono circa 900 depositati presso il CNEL tra i quali poter scegliere quello di maggiore utilità). In sostanza poiché il contratto di lavoro ha natura negoziale e le parti sono “libere” di scegliere lo strumento regolatore in mancanza di un contratto avente forza di legge per tutti, la parte generalmente più forte (quella datoriale) può proporre-imporre lo strumento contrattuale a sé più utile.
Il gruppo di quattro lavoratori che ho davanti sembra uscito pari pari da un film di Ken Loach: due donne, tra cui la portavoce (capelli biondi tagliati a zero, robusta, occhi color ghiaccio, un poco imbarazzata ma chiara nell’esposizione), un’altra magrissima e giovane con i capelli scuri, e due uomini sui 40anni circa uno con i capelli crespi e l’altro che ha solo un maglione addosso malgrado la fredda giornata. L’attività a cui risultavano addetti era la seguente: la portavoce si occupava di servizi amministrativi (in effetti, guardando con attenzione le buste paga, prendeva circa 1 € in più all’ora) e gli altri erano addetti alla produzione, cioè assemblaggio materiale ferroso e costruzione manufatti, e magazzinaggio con interventi anche faticosi e presumibilmente pericolosi. Il mio tentativo di approfondimento in materia di rispetto della sicurezza sul lavoro (d. lgs. 81/08) è risultato sconfortante…Il contratto iniziale di lavoro si era risolto in una letterina di incarico che non indicava neppure il CCNL di riferimento, ma solo luogo di lavoro, qualifica, mansione e orario. Le mansioni effettive non parevano coincidere con quanto era stato previsto nella lettera iniziale. Molte cose insomma da approfondire, dire e fare… Si tratta(va) di iniziare a lavorarci, dal coinvolgimento dell’Ispettorato del Lavoro alla messa in mora del datore rispetto alla parte di retribuzione non corrisposta fino ad arrivare, se necessario (vale a dire quasi sicuramente), a un ricorso avanti il giudice del lavoro per chiedere l’applicazione dell’art. 36 della Costituzione («Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa») sperando di arrivare con una sentenza eseguibile in tempo rispetto all’eventuale scomparsa dell’azienda (magari rinascente successivamente con altra denominazione).
Quello che colpisce è il coraggio (come chiamarlo altrimenti?) che il datore di lavoro dimostra nel riconoscere una retribuzione così oltraggiosamente bassa. Ma non si parlava qualche tempo fa di salario minimo obbligatorio? Bene, l’Unione Europea ha elaborato una bozza di Direttiva Comunitaria molto interessante che si basa sull’articolo 153, par. 1 lett. B) del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) che permette all’Unione di sostenere e completare l’azione degli Stati membri nel settore delle condizioni di lavoro, nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità. In sostanza tale Direttiva si dovrebbe occupare di stabilire i confini concettuali per garantire l’accesso a un salario minimo che possa assicurare un tenore di vita dignitoso in relazione a condizioni di lavoro adeguate, nonché standard minimi di meccanismi di determinazione dei salari minimi (che rimarranno comunque per il loro importo di competenza degli Stati membri) da ritenersi sufficienti a svolgere l’indicata funzione di protezione. Seppure a livello europeo si sia manifestato un certo interesse da parte delle organizzazioni dei lavoratori all’argomento (mentre molto più tiepido è risultato l’interesse delle organizzazioni dei datori di lavoro comunitari), a livello nazionale attualmente ci sono resistenze, incredibilmente, anche di natura sindacale. Già, anche in Parlamento giacciono numerose proposte sull’introduzione del salario minimo, sostenute dal M5stelle e anche del PD, ma sia forze politiche (Lega, Forza Italia, alcuni settori del PD) che sindacali (CISL, una parte significativa della CGIL) che datoriali (Confindustria) si oppongono. È di comune esperienza che le retribuzioni base in Italia siano troppo basse, e si sostiene comunemente che ciò dipende principalmente dall’eccessivo costo del lavoro (incidenza della contribuzione e/o delle tasse). Ma è davvero così? Quali sono i motivi che si oppongono a stabilire per legge una soglia sotto la quale non si deve andare, pena una retribuzione da ritenere indegna?
Secondo Confindustria (Bonomi) sono sufficienti i minimi salariali stabiliti dalla contrattazione nazionale. Semmai andranno aggiustati i CCNL che prevedono una contrattazione troppo bassa ma lasciando libere le parti di stabilire qual è la giusta retribuzione. La giustificazione liberista assoluta appare francamente insufficiente e ancorata a un’idea del basso salario come una delle gambe portanti del costo del lavoro. Sul versante sindacale la posizione non è sostanzialmente molto differente, seppure giustificata in maniera più articolata. Sostiene Luigi Sbarra, Segretario generale della CISL, che «non è con la legge sul salario e sull’orario che noi sconfiggiamo il dumping contrattuale; al contrario temo che un salario minimo darebbe la stura a tantissime aziende di uscire dai contratti e peggiorerebbe la vita di milioni di lavoratori. Aver irrigidito il mercato del lavoro con riforme invasive è l’errore più grave che ha fatto il legislatore in questi anni… Governo e Parlamento devono capire fino in fondo questa lezione e rinuncino di arrivare in gamba tesa nelle dinamiche delle relazioni industriali, che devono restare in autonomia nel perimetro del confronto negoziale e contrattuale» (Futura 2021 in Qui Finanza 27 settembre 2021). Anche alcuni studiosi ritengono che l’introduzione forzata di un salario minimo potrebbe avere effetti per nulla perequativi nei confronti della popolazione con minor reddito. Sostiene il prof. Gabriele Serafini su Lavoce.info (1 marzo 2022) che «se si introducesse un salario minimo legale, il peso dell’aumento del salario sarebbe sopportato maggiormente dai consumatori meno abbienti. Mentre con la riduzione del carico fiscale (questa è la sua proposta di base, ndr) si configurerebbe una redistribuzione del reddito a favore dei percettori di redditi più bassi».
Non sono di questa opinione. Non dimentichiamo che stiamo scontando la maledizione della mancata integrale applicazione dell’art. 39 Costituzione, laddove le associazioni sindacali hanno (al tempo per motivi nobilissimi, peraltro) rinunziato all’applicazione erga omnes dei contratti siglati per mancanza di riconoscimento della personalità giuridica, così permettendo la scelta da parte del contraente più forte (il datore di lavoro) di uno dei 900 CCNL applicabili con conseguente necessità di continui interventi (onerosi) in via giurisprudenziale per riequilibrare il sistema (come dovremo fare noi come studio legale nel caso da cui sono partito). Purtroppo nel nostro sistema ci son o contratti collettivi caratterizzati da retribuzioni estremamente basse, specie per i livelli inferiori relativi alla classificazione del personale. Peraltro, alcuni di questi contratti (come il Ccnl multiservizi e il Ccnl servizi fiduciari) riguardano ambiti di applicazione estremamente vasti. Ciò fa sì che essi, per la loro convenienza economica, finiscano pere cannibalizzare settori in cui dovrebbero applicarsi i più costosi contratti di categoria dello stesso sistema confederale (tanto che la stessa giurisprudenza ha più volte censurato la conformità ai principi dell’art. 36 Costituzione del Ccnl servizi fiduciari). Da tempo si sospetta che i CCNL e/o altri prodotti di natura negoziale di provenienza sindacale (anche quando frutto del lavoro delle organizzazioni “comparativamente più rappresentative”) siano inadeguate sul versante retributivo (e non solo) in particolare per le mansioni più generaliste e basilari, tradizionalmente più deboli. La proliferazione dei CCNL e di sigle sindacali prive di riconoscimento della personalità giuridica poi sembra avere permesso una sorta di concorrenza al ribasso nella effettiva rappresentanza dei lavoratori, oltreché una certa pochezza contrattuale sotto il profilo qualitativo. Ma è sotto il profilo della quantità di denaro che viene riconosciuta nel salario-base dei CCNL, in particolar modo in alcuni, che l’insufficienza retributiva manifesta la debolezza contrattuale del sindacato, soprattutto in determinati comparti proliferati negli ultimi anni (come sicurezza, commercio, logistica e trasporti). Cercare di emendare tale problema solo sul versante di accordi aziendali o individuali non è sufficiente a sanare un problema di fondo che potrebbe invece essere affrontato, almeno in parte, mediante l’introduzione di un salario minimo generalizzato non derogabile al ribasso dalla contrattazione collettiva. La timidezza in materia delle organizzazioni sindacali e imprenditoriali deve essere superata da un intervento legislativo.
L’esempio europeo aiuta: su 27 paesi dell’Unione Europea, 21 hanno adottato questa misura, mentre solo Italia, Danimarca, Cipro, Svezia, Austria e Finlandia non l’hanno ancora fatto (Fonte Eurostat al 1 gennaio 2022). L’introduzione di strumenti di applicazione di un salario minimo tali da aiutare la contrattazione collettiva, e non deprimerla (come paiono lamentare alcune dichiarazioni di sindacalisti), avrebbe, come dagli esempi europei virtuosi, l’effetto di aumentare la retribuzione diminuendo lo sfruttamento lavorativo. E il beneficio, evidentemente, sarebbe generale.
Nel frattempo noi attendiamo la fissazione della prima udienza del procedimento instaurato per i lavoratori sottopagati. L’azienda non ha risposto alla richiesta di perequazione retributiva: speriamo di arrivare a una sentenza favorevole (certa) prima che la società datrice di lavoro risulti scomparsa.
L’articolo è pubblicato anche sul mensile Una città (n. 283)
1.500 euro netti corrispondono a una retribuzione oraria di 9,37, una cifra poco sopra il reddito minimo.
2.000 euro sono 12,5 euro l’ora.
inutile girarci intorno: sono cifre ridicole con il costo della vita che c’é oggi.
i valori assoluti non hanno senso se non sono riferiti al costo della vita.
un’ ora di lavoro minimo vale oggi meno di 1 kg di pomodori, o mezzo kg di prosciutto di bassa qualita,
con 1.500 euro in una grande citta ci paghi l affitto e le bollette di in un monolocale in periferia e poco piu.
nei tariffari di artigiani (p.es. meccanici, idraulici) si supera tranquillamente i 40 euro ora (lordi per chi paga le tasse). per non parlare di specialisti di alto livello.
certo, decenni di politiche neoliberiste, sinistre salottiere e sindacati sempre piu distratti da altro (caaf, pensioni integrative e servizi vari) hanno fatto il loro corso egregiamente…