Lavorare meno è possibile (e utile)

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Due anni or sono il sindacato inglese, Trade Unions – TUC, ha lanciato la proposta della riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore per quattro giorni alla settimana: «A four-day week with decent pay for all? It’s the future». Nella proposta si sottolineano le parole “for all”, per tutti, spiegando: quando il primo Congresso dei sindacati fu tenuto nel 1868, il lavoratore lavorava mediamente per 62 ore alla settimana, oggi le ore sono 32 se vengono incluse le persone che lavorano a tempo parziale.

Già, ma la distribuzione dell’orario è decisa unilateralmente dagli imprenditori: un uso arbitrario dei tempi di lavoro che, scientemente, crea differenze, diseguaglianze, concorrenza e divisione tra i lavoratori (https://www.tuc.org.uk/blogs/four-day-week-decent-pay-all-it%E2%80%99s-future).

Poco più di un anno fa Frances O’Grady ha impegnato il movimento sindacale a fare campagna per una settimana di quattro giorni. Ha presentato le sue proposte alle associazioni imprenditoriali, al Parlamento e al Governo. Ora Robert Calvert Jumpe e Will Stronge, che fanno parte dell’agenzia di ricerca inglese Autonomy, hanno pubblicato due documenti.

Il primo analizza i costi dell’introduzione della settimana lavorativa di quattro giorni nel settore pubblico in Scozia (https://autonomy.work/portfolio/scottish4day/) partendo da un’analisi dettagliata di costi e produttività dei lavoratori pubblici scozzesi, la regione del Regno Unito dove i dipendenti pubblici sono maggiormente concentrati, e dove quindi il provvedimento avrebbe un peso maggiore. Riportiamo i principali risultati della prima ricerca: una settimana lavorativa di 4 giorni nel settore pubblico scozzese verrebbe a costare fra 1.4 e 2 miliardi di sterline; questa cifra rappresenta il 3% dei salari del settore pubblico (e il 2% della spesa pubblica complessiva della Scozia); queste cifre non tengono conto della riduzione dei costi del sistema sanitario che deriverebbero dall’avere una forza lavoro in migliore salute; questo provvedimento creerebbe da 45.000 a 59.000 nuovi posti di lavoro nel settore; una settimana di lavoro di quattro giorni nel settore pubblico scozzese rappresenterebbe un intervento politico di alto impatto e di basso costo che potrebbe aprire la strada adun migliore bilanciamento fra lavoro e vita per i lavoratori di tutto il Regno Unito.

Il secondo documento (https://autonomy.work/wp-content/uploads/2020/12/2020_DEC01_DATv5.pdf) estende la valutazione a tutto il Regno Unito con alcune considerazioni generali. Ne riportiamo l’abstract:

«In questo lavoro sosteniamo che l’introduzione della settimana lavorativa di 4 giorni senza riduzione di salario potrebbe essere sostenibile per la maggioranza delle aziende del Regno Unito. Nello specifico, utilizzando i dati estratti dal database FAME (ufficio Van Dijk) calcoliamo l’intervallo delle misure di miglioramento dell’efficienza che potremmo aspettarci di vedere applicate in seguito all’introduzione della settimana di quattro giorni.

Il grafico indica il range di redditività media per settore a 32 ore applicate (EBITDA rate è il metodo utilizzato per valutare la redditività di un’azienda confrontando i ricavi lordi con i guadagni), il simbolo del quadrato indica il grado di redditività nello scenario peggiore e il simbolo rotondo quello migliore.
Diventa evidente che la maggioranza delle aziende nella maggior parte dei settori produttivi potrebbero introdurre questa politica. Solo per i primi cinque settori in alto nel grafico (la pubblica amministrazione e la difesa, l’istruzione, la sanità e l’assistenza, i servizi di informazione, amministrazione e comunicazione) lo scenario negativo presenta difficoltà di applicazione della settimana di lavoro di quattro giorni data la forte incidenza della manodopera e delle retribuzioni mediamente più alte.
Nel Regno Unito le riduzioni di orario son state tradizionalmente contrattate dai sindacati. Poiché il settore pubblico è di gran lunga il più sindacalizzato, ci potremmo quindi aspettare che la settimana di quattro giorni possa essere introdotta prima nel settore pubblico e poi in quello privato. Una strategia per cui le riduzioni del tempo di lavoro sono introdotte inizialmente nel settore pubblico riflette l’osservazione di fondo che le ore di lavoro “normali” sono essenzialmente una clausola di eguaglianza e sicurezza sociale. Ci si può aspettare che una settimana di quattro giorni nel settore pubblico possa creare normative e aspettative nel settore privato, che potrebbero agire insieme ad iniziative pionieristiche di imprese private verso la riduzione dell’orario di lavoro in tutta l’economia. Il rapporto di ricerca fa riferimento al progetto della multinazionale Unilever di adottare la settimana di lavoro di quattro giorni in Nuova Zelanda (forse lontano da particolari e rischiosi conflitti sindacali).
Un sondaggio svolto da Survation per conto di Autonomy, per esempio, ha rilevato che il 79% dei capi d’azienda erano “molto aperti” o “decisamente aperti” alla proposta di settimana lavorativa di quattro giorni.
L’analisi presentata in questo lavoro si basa su distribuzioni dei profitti “normali”, in quanto i dati che sono stati usati sono quelli di prima della crisi dovuta al Covid-19. Tuttavia, le modalità di lavoro, per quei lavoratori rimasti in lavori “dalle 9 alle 17”, sono cambiate drammaticamente come risultato della crisi, e questa situazione potrebbe incontrare nel settore privato disponibilità ad accettare cambiamenti.
Questa sommatoria di crisi economica, diffuse perdite di lavoro e un settore privato pronto ad accettare il cambiamento rendono l’introduzione della settimana di quattro giorni una grossa opportunità. Si creerebbero nuovi posti di lavoro, più persone potrebbero godere di un migliore equilibrio fra lavoro e tempo libero, e le condizioni di vita sarebbero migliori. Pensiamo, in conclusione, che una settimana di quattro giorni senza riduzione di paga potrebbe giocare un ruolo centrale nelle politiche economiche e sociali post-Covid».

(traduzione di D. Lovisolo e F. Perini)

Una breve considerazione a questo punto si impone con riferimento all’Italia.

Da decenni gli incentivi e i finanziamenti pubblici per accrescere l’occupazione sottendono il convincimento che meno costa il lavoro più l’occupazione possa crescere. Il risultato è che l’occupazione non è cresciuta mentre le diseguaglianze, anche tra lavoratori, sì. Ogni mese l’Istat presenta il dato sull’andamento della occupazione e della disoccupazione omettendo che nel suo sistema di rilevazione si misura il “tempo” di lavoro con la domanda all’intervistato «hai lavorato più di un’ora la settimana scorsa?». Non sarebbe ora di introdurre incentivi per la riduzione dei tempi di lavoro e una loro equa distribuzione?

C’è un accenno, ma solo un accenno, di questa politica in uno degli ultimi decreti sui cosiddetti “ristori”. Ora si dovrebbe dare avvio a una riconversione ecologica dell’economia, il green new deal. Ma per essere efficace non dovrebbe anche riconvertire stili di vita e consumi? E i tempi di lavoro e di vita dovrebbero invece rimanere come oggi in mano alle decisioni di chi comanda, con il potere di discriminare sul lavoro come sul non lavoro e dividere quelle persone che vivono o cercano di vivere lavorando?

In Europa, anche nel sindacato europeo, la riflessione è aperta. E qui?

Gli autori

Davide Lovisolo

Davide Lovisolo è stato docente di Fisiologia all'Università di Torino dal 1968 al 2015. Dal 1968 ha militato nei movimenti di base, è stato attivista politico in Avanguardia Operaia e poi in Democrazia Proletaria fino al 1978; dal 1980 al 1991 ha militato nel PCI. È stato uno dei responsabili del movimento per il diritto alla casa a Torino negli anni Settanta, delegato sindacale e esponente del Coordinamento Genitori torinese dal 1992 all'inizio degli anni 2000. Da anni è attivo nella cooperazione sociale.

Fulvio Perini

Perini Fulvio, sindacalista alla CGIL, ha collaborato con la parte lavoratori, Actrav, dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro.

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One Comment on “Lavorare meno è possibile (e utile)”

  1. vabbe, era evidentemente una proposta prima del massacro covid e sopratutto pre Brexit. oramai fa parte della preistoria del sindacato inglese. il sindacato italiano esiste ancora?

    con Brexit l’ultraliberismo detterá letteralmente legge in UK : sono in arrivo frantumazione del sindacato e dei diritti dei lavoratori.

    Brexit un capolavoro dei conservatori portato avanti dai labour, a loro insaputa, evidentemente.
    o anche no. oramai il confine é sempre piu labile. il referendum é stato indetto da Cameron.

    del resto ne abbiamo anche noi esponenti della “sinistra” che sono talmente di sinistra che reputano legittimo
    il licenziamento dei dipendenti che rifiutino il vaccino (figurarsi ricordare l’onere del datore di lavoro
    di garantire un ambiente di lavoro privo di rischi!). come non ricordare la cancellazione dell’art 18, l’eliminazione della scala mobile, il fiscal drag , l’allungamento dell’eta pensionabile.

    solo alcuni dei capolavori della sinistra made in italy.

    che poi, a giorni alterni, si stupisce di perdere voti assieme ai sindacati.
    chissá perche’.

    paradossalmente l unico partito che in italia ha “garantito”il diritto al pensionamento dopo SOLI 40 anni
    di lavoro é un partito di destra. e si, perche andare in pensione col contribuitivo dopo 40 anni di lavoro
    é considerato addirittura un PRIVILEGIO da abbattere. la causa di tutti i mali.

    sognare le 32 ore va bene, peccato che nel frattempo chi di dovere in questo paese ha contribuito negli ultimi decenni a far sfilare ai lavoratori una lista incredibile di diritti (v. sopra).

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