Esperimenti normativi del tutto nuovi
La progressione è stupefacente, non ci sono precedenti.
Il 23 febbraio scorso, con il decreto legge n. 6/2020, l’apparato di governo ha varato il primo provvedimento volto a contrastare l’epidemia coronavirus; immediatamente esecutivo. Poi, in velocissima sequenza, sono intervenuti gli altri decreti fino all’ultimo del 25 marzo 2020 n. 19. Questa pioggia normativa presenta, nel metodo, un carattere innovativo, sia per la forma sia per la sostanza, anche con riferimento al reperimento delle risorse necessarie.
Durante la crisi economica (lettera segreta della BCE), la decretazione segnò in Italia il cambio di passo, a mezzo dei decreti legislativi, ovvero di attuazione dei mutamenti sulla base di una delega che consentiva di limitare alle sole commissioni l’intervento di senatori o deputati. Poi, l’intero sistema del Jobs Act, che ha rivoluzionato il diritto del lavoro, fu varato a mezzo di decreti legislativi, con il silenzio, complice perché numericamente decisivo, dell’ala sinistra postcomunista.
Ora, di fronte all’epidemia, lo strumento del decreto, in un quadro oggettivamente eccezionale, viene utilizzato in modo nuovo, quasi creativo. La fonte normativa di questa scelta, la legge 23 agosto 1988 n. 400, porta tre firme autorevoli: Cossiga, De Mita, Vassalli. Gli articoli 14-17 regolano proprio la potestà normativa del Governo. I decreti emanati nella contingenza del coronavirus sono di due tipi, ben diversi l’uno dall’altro. L’origine (il n. 6 del 23 febbraio) è quella di un tradizionale decreto legge, da convertire, per non incorrere nella decadenza automatica, nel termine massimo di 60 giorni; altri successivi presentano le stesse caratteristiche. Ma, fra gli uni e gli altri, sono stati inseriti alcuni decreti del presidente del consiglio dei ministri (ovvero DPCM); a rigore non sono fonti autonome di diritto, ma regolamenti di attuazione, di solito usati per le nomine dei dirigenti pubblici o per fornire indicazioni interne alla pubblica amministrazione. Qui invece la decretazione ministeriale è stata usata per provvedimenti di natura sostanziale, come nel caso del DPCM 11 marzo di estensione generalizzata della zona rossa o come in quello ultimo del 22 marzo di sospensione delle attività industriali, con invasione di area perfino costituzionale. Il decreto ministeriale non è sottoposto alla firma del Presidente della Repubblica, si sottrae (almeno in parte) ai vincoli di bilancio preventivi. In particolare questo meccanismo tende a disinnescare l’obbligo di pareggio, introdotto, senza un solo voto di opposizione, nella Carta Costituzionale con la legge 20 aprile 2012 (art. 97).
Cedendo alle imposizioni contenute nella lettera segreta i parlamentari italiani avevano accettato il principio di pareggio per far pagare ai precari il prezzo della crisi; il Covid 19 ha sovvertito le regole dell’ordine costituito, ha rovesciato il tavolo da gioco. Esso risponde ai poco avveduti parlamentari italiani come San Pietro a Dante che recita il Credo: «assai bene è trascorsa d’esta moneta già la lega e il peso, ma dimmi se tu l’hai nella tua borsa». Mediante decretazione si cerca una soluzione, non facile, comunque sperimentale, al problema insorto. Questa innovativa variante italiana è destinata non solo a rimanere un punto fermo, ma anche ad essere recepita da tutti i governi del villaggio globale. Non siamo in presenza di uno stato di eccezione schmittiano, piuttosto di un passaggio. Esiste infatti, in questa emergenza, una oggettiva pluralità di interventi che, pur collocandosi dentro il campo istituzionale e capitalista, rispondono a esigenze diverse, a volte perfino incompatibili; sono inoltre provvedimenti misti, locali o nazionali, pubblici o privati, con un carattere sperimentale, e mutevole in corso d’opera, senza una contrapposizione esplicita rispetto al tradizionale Stato di diritto.
Lavoro e virus
Questo è tempo di transizione. Dunque è tempo di guerra, di conflitto etnico, di scontro per le risorse, di movimenti migratori, di distruzione ambientale. Anche il virus vive nel tempo di transizione. La ciurma di pirati neoliberisti non ha ideali comuni, mira al denaro (o al profitto, se si preferisce) senza curarsi del clima, degli esseri umani, a maggior ragione di flora o fauna. Si aggregano in singole strutture, stipulano alleanze, ma sono sempre pronti al tradimento, anche fra loro. Ridono di chi rispetta la parola data.
I focolai di Covid 19 nelle aree produttive del nord sono stati la causa del primo decreto legge 23 febbraio 2020 n. 6. Il testo è quasi esplorativo, alquanto vago nella ripartizione delle competenze fra Comune, Regioni, Stato e articolazioni istituzionali (sanitarie, d’ordine pubblico, assistenziali), senza commissari e senza assegnazioni precise. Il blocco forzato, di attività lavorativa e di socialità, e al tempo stesso la creazione di zone infette (a media o alta intensità di possibile contagio) rappresentano insieme una novità inattesa. Sul primo testo si è radicata, a iniziativa del solo esecutivo, la sequenza correttiva, effettuata a mezzo di decreti ministeriali che, sempre con una forma sperimentale fino ad oggi sconosciuta, iniziavano a coinvolgere i singoli soggetti, affidando loro ogni sorta di responsabilità nell’organizzazione delle misure di assistenza e/o prevenzione. Le conseguenze sul contratto di lavoro sono assai diverse, soprattutto perché nel primo decreto governativo mancavano disposizioni puntuali.
Nella prima fase di legislazione per decreto la scelta è stata quella di mantenere una marcata ambiguità e incertezza, lasciando ai rapporti di forza sul campo il comportamento da tenere; il Governo ha preso atto che la protesta sociale non assumeva forme troppo radicali decidendo di forzare la mano. La prestazione smart working è uscita dall’area originaria legata all’accordo bilaterale, aperta alla possibile imposizione e alla codificazione del rifiuto quale inadempienza (non solo del rifiuto del lavoratore, anche quello dell’impresa). Trattandosi di adempimento diverso da quello oggetto del contratto iniziale (art. 1258 c.c.) interviene insidiosa la questione di come questa attività debba essere valutata e retribuita, in assenza di regole e di accordi; senza pattuizione decide la magistratura. Questa è una rivoluzione contrattuale senza precedenti nel nostro ordinamento giuslavoristico.
Il decreto n. 17 del 16 marzo non ha un indirizzo univoco e risolve alcune precedenti ambiguità. Per un verso mantiene la rotta salvaguardando ancora una volta l’interesse d’impresa in modo assai più consistente rispetto a quello dei lavoratori; valga in particolare la disposizione dell’art. 16 che impone di lavorare, se muniti di mascherina, anche incollati al compagno di lavoro. Questa norma ha provocato reazioni spontanee e fermate, imponendo un correttivo dopo l’accordo sindacale che (a dire del quotidiano La Stampa) incanalava la protesta. Ma al tempo stesso contiene, sia pure con una certa prudenza, forme di assistenza e di aiuto. Inoltre viene ordinato il blocco bimestrale dei licenziamenti collettivi o per giustificato motivo. Questa è una vera e propria correzione di tiro rispetto ai decreti precedenti che eludevano la questione; ed è una disposizione introdotta per raccogliere consenso. Un capitalismo finanziario e meticcio, composto di elementi dispotici anche violenti, ma ingentilito dagli ammortizzatori sociali, anche violando la parità di bilancio. Mi sembra probabile che su questa via italiana si incammineranno, magari con diversità e perplessità, anche gli altri paesi europei, come già sta avvenendo in Francia.
Rimane irrisolta la questione dei lavoratori senza tutele, quelli emarginati, somministrati, precari, i vasti settori in cui la paga di fatto è strettamente legata alla prestazione, alla scadenza. Questo universo su cui si fonda il cuore del sistema produttivo viene quasi ignorato nella decretazione, salvo forse il rinvio del pagamento del debito aperto per i mezzi o per la casa; soprattutto subisce senza rimedio il costo della crisi il gran mare dei lavoratori in nero: la carovana di clandestini usati in edilizia o in agricoltura, gli studenti fuori sede che nelle metropoli vivono dividendo una sola stanza e campando di lavoretti rimediati dentro le pieghe del sistema complessivo ora inceppato. Io resto a casa titola il decreto ministeriale. Ma un occupante, un clandestino, un precario che ha lasciato il paese di nascita, in che casa può andare? In quale balcone si metterà a cantare? Per questi fantasmi non c’è spazio nella decretazione, non esistono e non è previsto un futuro. Il provento criminale contribuisce alla determinazione del prodotto interno, ma il lavoro nero resta fuori dalle tutele previste in caso di epidemia.
Nel tempo del virus l’apparato di comando naviga a vista e procede alla sperimentazione, per istinto probabilmente più che per disegno preordinato.
L’articolo è pubblicato contestualmente nel sito www.comma2.it