Uno sguardo al lavoro nella società mondo

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«Paesi specializzati nel guadagnare e Paesi specializzati nel rimetterci: ecco il significato della divisione internazionale del lavoro».
Eduardo Galeano

 

I dati presentati in questa sezione sono il risultato di una rassegna di pubblicazioni, siti e riviste svolto con lo scopo di offrire una rappresentazione del lavoro che avrebbe bisogno di ben maggiori approfondimenti e continuità di ricerca.

Nel presentare i dati emerge con evidenza la contraddizione esistente tra i lavoratori delle aree nord occidentali del mondo e gli altri lavoratori. Emerge meno la questione altrettanto importante, e forse ancora più rilevante, delle differenze tra i lavoratori dei centri di decisione e quelli delle lunghe e diffuse catene di subfornitura. Luciano Gallino sottolineava molti anni fa la contraddizione tra il mezzo miliardo di lavoratori dei Paesi arricchitisi con il commercio triangolare e il capitalismo coloniale, contro il miliardo e mezzo di lavoratori dei Paesi specializzati a rimetterci, per dirla con Galeano.

Con la delocalizzazione esasperata delle produzioni industriali e con la globalizzazione del sistema finanziario il capitalismo ha dato le sue risposte alla crisi della valorizzazione del capitale. La risposta ricorda un po’ il ricevimento del Cappellaio Matto. Ogni volta che il tè e i pasticcini di un coperto erano terminati, la cosa più naturale per il Cappellaio Matto e il Leprotto Bisestile era di spostarsi sulla sedia successiva. Quando Alice chiese cosa sarebbe avvenuto nel momento in cui si sarebbero ritrovati alla sedia iniziale, il Leprotto Bisestile cambiò argomento. Forse questo nuovo “argomento” è già in campo con i moderni nomi di sovranismo e di suprematismo, ma si tratta sempre di nazionalismo e razzismo per continuare a fare pagare i prezzi della crisi e dell’accumulazione di denaro con denaro alla povera gente nel mondo. Usando più violenza di quanto è avvenuto nel recente passato.

Alcuni dati internazionali

Il lavoro si è diffuso nel mondo: misurato in termini di “quantità” siamo giunti ora a 3.270 milioni di occupati, di cui 1.270 milioni di donne. Il censimento dell’International Labour Organization (ILO) considera solo le persone con più di 15 anni, non sono quindi considerati i circa 200 milioni di lavori svolti da minori di 15 anni. Mentre i disoccupati sono quasi 200 milioni (Fonte: ILO STAT).

Ma questi dati devono essere considerati in ragione della composizione del lavoro per i macro settori dell’agricoltura, dell’industria e dei servizi. Quando andiamo al supermercato ad acquistare prodotti alimentari o di abbigliamento ci rendiamo conto della dimensione globale del lavoro e, se volessimo badare ai prezzi, ci renderemmo conto delle differenze di salario e di diritti tra lavoratori. Solo per il mercato di dimensione globale di un bene come l’automobile: se in Italia ci vogliono 800 ore di lavoro per acquistare un’auto di prestazioni medio-basse e in Germania ne bastano 600, mentre ce ne vogliono 8000 in Tunisia e 82.000 in Tanzania (Fonte: IndustriALL, The Purchasing Power of Working Time 2008, An international comparison).

A livello mondiale 866 milioni di persone lavorano nell’agricoltura, 735 milioni nell’industria e 1 miliardo e 633 milioni nei servizi. Gli occupati nell’industria sono meno di quelli nell’agricoltura e nei servizi (dai lavoratori delle banche a quelli dei servizi di strada nelle grandi metropoli) ma i loro redditi sono generalmente più elevati. In Italia gli addetti in agricoltura sono meno del 5% mentre in Africa il 53% (Fonte: ILO STAT).

Composizione dei lavoratori e divisione internazionale del lavoro

Conosciamo troppo poco e solo occasionalmente gli effetti della divisione internazionale del lavoro. È la Banca mondiale a indicarci come continui a esistere, nella fase della globalizzazione della manifattura e della finanza, un vasto “esercito di riserva” nel continente africano e in particolare nell’Africa sub sahariana, la parte più povera al mondo.

Coloro che dovranno vivere con meno di 1,90 dollari al giorno saranno più di mezzo miliardo, in numero crescente in Africa e Medio Oriente, stabili in America latina. Ma questi dati risalgono a prima delle politiche economiche e militari di Trump, Macron, Putin e, per restare a casa nostra, di Di Maio e Salvini. A cui si è aggiunto Bolsonaro in Brasile.

Oltre a essere specializzati a rimetterci, molti Paesi hanno cambiato significativamente le loro economie per piegarsi a monoculture e monoproduzioni gestite da grandi multinazionali. Significativa è la denuncia contenuta nell’enciclica Laudato Si sui pericoli derivanti dalla destinazione di vasti territori a monoculture di prodotti agricoli con la cancellazione delle produzioni locali differenziate ed in funzione del consumo delle popolazioni residenti. I casi sono molti: la coltivazione del cotone in Ciad prima della siccità e della conseguente crisi; la produzione in Ghana e Costa d’Avorio del 60% del cacao mondiale; la produzione di soia in Argentina e Brasile e le difficoltà economiche conseguenti al crollo dei prezzi; la coltivazione di canna da zucchero, la coltivazione di fiori in Colombia ed Ecuador; la produzione di asparagi in Perú.

Sono tutte produzioni controllate da multinazionali, organizzate prevalentemente sul lavoro informale delle famiglie di contadini, esportate poi nei Paesi del mondo occidentale per alimentare le stalle delle nostre “fabbriche di carne” o direttamente le nostre tavole. Con le monoculture, viene spiegato, aumenta la produttività in agricoltura, assistiamo quindi all’abbandono delle terre di parte importante delle popolazioni che si concentrano nelle grandi metropoli vivendo miseramente. In America latina, contro gli immigrati interni è in corso da anni la reazione dei ceti medi nelle città di Buenos Aires, San Paolo, Santiago, Lima e, da quest’anno, ritornano a crescere le vittime di omicidi tra le popolazioni indigene o i quilimbolas (le persone di origine africana in Brasile).

Molto meno sappiamo delle specializzazioni industriali o dei servizi. La prima delocalizzazione del settore tessile e delle confezioni in Europa è iniziata più di trent’anni con lo spostamento in Cina delle produzioni (con queste ragioni vennero chiuse le aziende del Gruppo Finanziario Tessile, GFT e prima Facis), per poi spostarle in Vietnam perché il costo del lavoro era più basso, per poi spostarle in Bangladesh per la stessa ragione. Oggi, alla faccia di un mondo “postindustriale”, sono più di 4 milioni le lavoratrici (perché sono soprattutto donne) impegnate nel settore tessile: tutte in imprese di subfornitura per produrre capi d’abbigliamento con i marchi della moda che conosciamo (www.industriall-union.org/bangladesh-safety-accord-welcomes-100-brand-milestone).

Ma la corsa verso il basso non è terminata, da qualche anno si stanno trasferendo produzioni tessili dall’Asia all’Africa sub sahariana.

Uno studio dell’ILO indica che, in 40 Paesi, il 66% della forza lavoro complessiva lavora nelle catene globali di produzione, passando da 300 milioni nel 1995 a oltre 450 milioni nel 2013; oltre 2/3 delle attività sono concentrate nei Paesi emergenti con predominanza nei settori delle attrezzature elettroniche, tessile, metallurgia, mezzi di trasporto e industria chimica. Il processo di globalizzazione delle produzioni cresce con la frammentazione della produzione nelle diverse fasi dei cicli e dei processi di lavorazione. In questo modo, le catene di produzione globali stanno ridefinendo la composizione della forza lavoro nel mondo e sono l’espressione più dura ed evidente di un più ampio processo di frammentazione e distruzione dei diritti umani e dei lavoratori determinato da un capitalismo contemporaneo che ha nel subappalto una delle sue espressioni.

E ora tocca ai servizi. La chiamano “industry 4.0” e pare faccia paura a tutti: possiamo sostituire il tuo lavoro con un robot. Lo possono fare? Entro certi limiti sì. Ma il loro obiettivo è ridurre i costi e non necessariamente sostituire il lavoro umano, aumentare l’incertezza di chi vive vendendosi, organizzare meglio il comando. È prevedibile, ed è già in corso, la delocalizzazione di attività di servizio: se si possono fare a casa con il telelavoro oggi si possono anche fare in ogni parte del mondo. È recente la notizia dello sciopero dei lavoratori filippini della multinazionale statunitense Alorica, che offre servizi finanziari e di informazione. Possiamo leggere nel suo sito «Il nostro popolo. 100.000 forti e in crescita», mentre il sindacato internazionale dei lavoratori del settore finanziario ci informa che solo nelle Filippine i lavoratori che svolgono la loro attività per la multinazionale sono 1.400.000.

Una panoramica sui lavori non standard

Quasi un miliardo e mezzo di lavoratori operano in condizioni che l’ILO considera “vulnerabili”, cioè a reddito incerto e quasi sempre privi di protezione sociale contro gli infortuni, la malattia, la vecchiaia. Sono lavoratori precari, soprattutto lavoratori individuali (quasi sempre l’impresa rientra nell’economia informale) e i loro familiari. E crescono a un ritmo di 17 milioni all’anno.

I lavoratori dell’economia informale

Oltre due miliardi di lavoratori operano nell’economia informale, soprattutto nell’agricoltura (https://www.ilo.org/global/publications/books/WCMS_626831/lang–en/index.htm).

I fiori, gli asparagi e le verdure fuori stagione, il tè e il cacao che consumiamo vengono prodotti da lavoratori il cui reddito non è soggetto a tasse e contributi previdenziali. In queste settimane si sono svolte dall’India alla Nigeria lotte per il diritto all’acqua potabile e ai servizi igienici da parte di lavoratrici addette alla raccolta.

In un sistema a diseguaglianze crescenti si è giunti ormai a un miliardo di esseri umani che lavora senza percepire una retribuzione necessaria per vivere dignitosamente. L’obiettivo della garanzia di un “living wage” stabilito nella Costituzione dell’ILO del marzo 1919 è ancora lontano, anzi, dopo la crisi del 2008, si sta progressivamente allontanando. Crescono quindi, anche tra i lavoratori, le diseguaglianze, prima di tutto di genere. È estremamente indicativo e preoccupante che le diseguaglianze di genere nel lavoro siano presenti nello stesso modo anche nelle nuove generazioni che si sono affacciate al mercato del lavoro. (5-Ilo: World employment social aut look, trends 2018).

Le zone franche di esportazione (EPZ)

Assumono poi un peso crescente i lavoratori delle “zone franche di esportazione” (EPZ). Secondo le statistiche dell’ILO, 47 Paesi avevano EPZ nel 1986. Due decenni dopo il numero di Paesi con zone franche è aumentato a 130. Durante lo stesso periodo, il numero di EPZ nel mondo è aumentato da 176 a 3500. Oggi, secondo stime prudenti dell’ILO, si ritiene che oltre 66 milioni di lavoratori siano occupati in queste zone.

La grande maggioranza dei lavoratori nelle zone franche del mondo sono donne, rappresentano il 70% e in alcuni casi il 90% della forza lavoro. In particolare nei settori dell’abbigliamento e dell’elettronica. Sono giovani donne senza esperienze precedenti del mercato del lavoro formale. Sono generalmente guidate dal desiderio di uscire dalla povertà. Non conoscono i loro diritti e non hanno precedenti esperienze sindacali.

Molti lavoratori delle zone franche del mondo sono migranti interni. La disoccupazione e l’aumento della povertà hanno portato molti di loro a cercare lavoro in altre parti, spesso sotto la falsa promessa di un buon stipendio e dei benefici del lavoro. Non hanno altra scelta che cercare un lavoro lontano dalle loro case, come lavoratori migranti. Di solito provengono da zone rurali e non sono abituati a vivere in aree urbane. Non conoscono la legislazione sul lavoro o i loro diritti.

L’ultima caratteristica del lavoro nelle EPZ è l’alto grado di rotazione della forza lavoro. Dovuto all’insicurezza dei contratti e la pressione per raggiungere gli obiettivi di produzione fissati dalla direzione. L’alto tasso di rotazione del personale riflette la precarietà dell’occupazione, la diffusione di atti di intimidazione, discriminazione antisindacale e licenziamenti dovuti alla gravidanza. La violazione dei diritti dei lavoratori nelle EPZ è principalmente una violazione dei diritti delle giovani donne.

Molti lavoratori nelle zone franche lavorano un gran numero di ore di lavoro straordinario per sopravvivere o per obbedire agli obblighi dell’azienda sotto minaccia di licenziamento.

In molti Paesi, come Pakistan e Bangladesh ad esempio, ma nei fatti anche in Nicaragua, è vietato per legge promuovere e partecipare allo sciopero e al sindacato è precluso operare all’interno delle zone.

I contratti a termine

Il rapporto di lavoro con un contratto a termine rientra nell’ambito dei rapporti di lavoro formali, riconosciuti dallo Stato e retribuiti sono poco più di un miliardo di lavoratori nel mondo. I dati variano molto da Paese a Paese ma è pressoché generale la tendenza alla crescita.

Il grafico presenta la percentuale di lavoratori con contratto a termine in diversi Paesi del mondo:

La stessa tendenza all’aumento è presente in Europa:

Un altro aspetto interessante è il fatto che per la grande maggioranza delle lavoratrici (il 63,2%) e dei lavoratori (il 61,6%) il contratto a termine non è una scelta volontaria ma una condizione inevitabile per poter lavorare. Per il 18% è collegato all’educazione scolastica, un po’ come il nostro “tirocinio” che però non viene pagato, e solo l’11% sceglie questo rapporto di lavoro in alternativa al rapporto di lavoro permanente (ELF European Labour Force Survey, dati elaborati da Schmid and Wagner, 2016).

Nei fatti, sono sempre un contratto a tempo parziale con specifici trattamenti retributivi, fiscali e previdenziali, quei milioni di contratti “mini jobs” che trovano applicazione in Germania nei servizi domestici e di cura nelle famiglie e, in particolare, nei settori del commercio, dei grandi magazzini, degli hotel e della ristorazione. Nel 2017 vedeva impegnati circa 7 milioni di lavoratrici e di lavoratori con una retribuzione di 450 euro per una prestazione di un massimo di 15 ore settimanali. Una forma particolare di contratto a termine è stata adottata in Germania con il “mini job a breve termine”, che prevede un contratto per delle prestazioni che nell’arco dell’anno non possono superare i 50 giorni. Può essere svolto anche in combinazione con altri contratti a termine o a tempo parziale.

Il lavoro a part time

Anche per il lavoro a part time la tendenza è alla crescita sia in Europa che nel mondo. L’organizzazione internazionale del lavoro ha adottato il criterio di valutazione del lavoro a tempo parziale considerando tutti i tempi inferiori a 35 ore settimanali calcolandone poi l’incidenza sul totale dei lavoratori occupati. Le differenze tra Paese e Paese sono notevoli ma nella comparazione dei dati emerge con evidenza che l’Italia, assieme alla Polonia, alla Slovacchia ed all’Ungheria ha avuto i tassi di crescita più elevati tra il 2005 e il 2014.

La situazione si presenta ancor più differenziata a livello mondiale, ma si conferma la crescita del lavoro a tempo parziale. Un adattamento verso il basso che sta toccando l’intera popolazione lavorativa mondiale.

In relazione ai motivi dello svolgimento del lavoro a part time le risposte sono le seguenti:

Sono molto evidenti le differenze di genere determinate dalla divisione dei lavori che conferma l’impegno delle donne nei lavori di cura. Le crescite più elevate del lavoro a part time in Europa sono, non a caso, appannaggio dei Paesi del sud Europa: Cipro, Grecia, Italia e Spagna:

In tutto il mondo si conferma come il part time coinvolga prevalentemente le donne.

E un altro fatto: in Europa, circa il 50% delle donne che lavorano part-time lo fa per occuparsi dei lavori di cura, mentre nel caso degli uomini solo il 13% lo fa per queste ragioni.
(https://www.oxfamintermon.org/sites/default/files/documentos/files/voces-contra-la-precariedad.pdf)

Nel periodo della crisi la riduzione degli orari nella forma del contratto a tempo parziale si è andata diffondendo come modalità di adattamento dei rapporti e dei tempi di lavoro alla contrazione della produzione. Molte volte la riduzione che comporta perdite di salario e non sempre ha trovato forme di compensazione.

Negli anni di crisi produttiva in diversi Paesi europei si sono adottate misure di riduzione di orario: il part time temporaneo in Russia con corrispondente riduzione del salario; l’introduzione del part time con compensazioni salariali o recuperi di orario successivi in Estonia, Repubblica Ceca e Bulgaria. In Germania l’esempio più conosciuto è quello delle 28 ore alla Wolkswagen con l’adozione di diverse distribuzioni dei tempi e dei contenimenti salariali.

In Italia si va diffondendo il passaggio a contratti di lavoro a part time in alternativa al licenziamento nel momento in cui viene meno la possibilità di utilizzare gli strumenti di integrazione al reddito nei periodi non lavorati, come la cassa integrazione guadagni e i contratti di solidarietà.

Il lavoro a chiamata

È una modalità di lavoro diffusa in Europa e negli Stati Uniti, dove occupa circa il 10% dei lavoratori. Il contratto del lavoro a chiamata prevede che il lavoratore svolga la sua attività solo nel momento e per le ore per cui è stato chiamato. Deve quindi garantire la reperibilità.

Negli Stati Uniti questo tipo di prestazione non ha una regolamentazione sia per le ore del preavviso di chiamata che per la durata dell’orario e per la stessa retribuzione. È molto diffusa nei settori commerciali, soprattutto al dettaglio.

In Europa il contratto di lavoro a chiamata è presente in tutti i Paesi. Gli unici dati disponibili non sono molto aggiornati, Eurostat li ha pubblicati nel 2014 e risalgono al 2004. Segnalano che il 2,5% del totale dei lavoratori è impegnato con questo tipo di contratto, si tratta di un dato medio che oscilla tra lo “zero virgola” di Cipro e oltre il 5% in Olanda.

A quella data anche l’Inghilterra aveva una percentuale di lavoratori a chiamata dello “zero virgola”, ma l’introduzione del cosiddetto “contratto a zero ore” ha cambiato radicalmente il mercato del lavoro:

 

I lavoratori prestati dalle agenzie di lavoro temporaneo

Si è largamente diffuso il mercato dei lavoratori in prestito che noi chiamiamo “in somministrazione” mentre a livello mondiale le agenzie che svolgono queste attività si autodefiniscono, bontà loro, “labour market enablers”, rendo abili degli esseri umani per essere usati e pagati.

Il mercato dei lavoratori è mondiale, anche se in Italia siamo strenuamente impegnati a difendere e selezionare quelli autoctoni possibilmente di pelle bianca. Così mondiale che le agenzie del lavoro temporaneo si sono dotate in poco tempo della loro organizzazione, la “World Employment Confederation (WEC)” con le articolazioni continentali e le sue otto multinazionali. Stimano il loro mercato in 417 miliardi di euro, operano con 169.000 agenzie sparse nel mondo e impiegano 1,5 milioni di lavoratori che chiamano “human resource specialist”.
(https://www.wecglobal.org/economicreport2017/key-findings.html)
(https://www.weceurope.org/fileadmin/templates/ciett/docs/Stats/WEC_ER2016_web-1.pdf)

I mercati di lavoratori in prestito più importanti sono negli USA (11 milioni), in Cina (10,8 milioni), Europa (8,7) e Giappone (2,5).

Va però sottolineato che i questi dati sono incompleti perché la WEC organizza soprattutto le grandi multinazionali e, come sappiamo nell’esperienza italiana, ci sono le agenzie domestiche qualche volta autorizzate e molte volte, soprattutto in agricoltura, illegali.

L’impresa individuale

A livello mondiale la questione della loro caratterizzazione e definizione è molto controversa, ad esempio si discute da anni se il lavoratore informale è un lavoratore (tesi del sindacato) o un imprenditore (tesi delle organizzazioni imprenditoriali). In Europa e in Italia il problema evidentemente sussiste: basti pensare a tutti coloro che lavorano come collaboratori coordinati o lavoratori autonomi in collaborazione con un solo committente.

L’ILO accompagna al termine “self-employment” (chi occupa se stesso) con “disguised employment” (traduzione non semplice, possiamo dire occupazione camuffata).

In generale ha un carattere regressivo, non a caso, almeno in Europa è appannaggio dei Paesi con delle economie deboli o in difficoltà:

L’aspetto più interessante da evidenziare e la notevole incidenza di questa forma di occupazione nei settori diversi da quello dell’agricoltura, ancora una volta, in Italia, Grecia, Repubblica Ceca e Slovacchia. Vale la pena ricordare che il lavoro manuale nel settore delle costruzioni è svolto pressoché nella sua totalità da lavoratori autonomi e questa forma si va diffondendo in Europa: nel 2010 in Inghilterra erano già il 54% degli addetti.

Sempre in Inghilterra, una nuova analisi pubblicata dal sindacato TUC denuncia che la metà (il 49%, per un totale di due milioni di persone) dei lavoratori autonomi di età pari o superiore a 25 anni sta guadagnando meno del salario minimo. Il lavoro autonomo ha rappresentato una quota crescente della forza lavoro negli ultimi anni, passando dal 12% dei lavoratori nel 2001 al 15% nel 2018.

Ma i lavoratori autonomi guadagnano considerevolmente meno di quelli occupati. Nel 2016/17 hanno guadagnato in media 12,300 sterline, rispetto alle 21,600 per chi è occupato.

Il parasubordinato digitale: “crowdworker” o “work on-demand via apps”

Non solo il lavoro a chiamata, anche quello “a domanda”.

Si va ampiamente diffondendo il lavoro sulle piattaforme digitali. Le modalità di svolgimento delle prestazioni sono diverse e assai ampie.

Una prima modalità di svolgimento delle attività lavorative avviene in particolare nel settore dei trasporti, delle pulizie o nello svolgimento di commissioni. È il “work on-demand via apps”, il lavoro su domanda che perviene al cellulare del lavoratore. Sono attività tradizionali svolte in modo diverso: è una società che, con una propria app, distribuisce il lavoro fissando gli standard e selezionando il personale. In questo momento interessa lavori di sempre: il fattorino, le pulizie, l’impiegata/o. Si va dal lavoro, più noto, dei riders che lavorano con la bicicletta e lo smartphone, al lavoro più tradizionale che si va diffondendo nei settori del credito e delle assicurazioni con il telelavoro svolto a casa.

Queste modalità di svolgimento delle prestazioni sta trasformando e trasformerà sempre più il lavoro tradizionale, basti pensare al lavoro di “back office” nelle banche. Ormai il contratto collettivo nazionale prevede la possibilità di lavorare due giorni alla settimana a casa: sono normali lavoratori e lavoratrici dipendenti con contratto a tempo indeterminato che accettano di lavorare alcuni giorni in ufficio e alcuni a casa. A questi si stanno affiancando lavoratori e lavoratrici di piattaforme private, un outsourcing digitale.

Ma, soprattutto, si può andare a cercare un lavoro dal proprio computer su piattaforme digitali, il “crowdworker”. Con questo termine si fa riferimento ad attività lavorative che implicano il completamento di una serie di compiti tramite piattaforme online. In genere, queste piattaforme mettono in contatto un numero indefinito di organizzazioni e individui attraverso Internet, potenzialmente permettendo la connessione di clienti e lavoratori su base globale (Bergvall-Kåreborn e Howcroft, 2014; Cherry, 2011; Eurofound, 2015; Felstiner, 2011; Howe, 2006).

Non si conoscono dati sull’occupazione in queste attività tranne una ricerca del 2015:

Siamo al paradosso che le nuove tecnologie, tanto osannate, stanno spingendo alla informalizzazione dei lavori formali, cancellando tutte le forme di previdenza e mutualizzazione dei rischi sociali.

Le donne e i cosiddetti lavori atipici. Il lavoro a tempo parziale

Come è evidente la differenza di genere nel lavoro a part time è pressoché generalizzata, con l’eccezione della Russia e della Cina.

Le donne e il lavoro temporaneo tramite le agenzie

Anche per questa forma di lavoro le donne coinvolte sono più degli uomini. I dati pubblicati non sono molti, ecco alcuni dati europei:

Il lavoro dei giovani

La differenza più evidente con gli altri lavoratori sta nei lavori svolti tramite agenzie. Anche in questo caso ecco un dato europeo.

Gli effetti sui migranti

L’ossessione della cosiddetta “invasione” dei poveri e degli umani di altro colore non ci permette conoscere e valutare i processi più generali che sono in corso. Stiamo costruendo una zona del mondo circondata da muri e fili spinati; quando il capitalismo ebbe il massimo della sua “crescita”, per usare un altro termine che ci ossessiona oggi, le comunicazioni ferroviarie nel mondo dilagarono, l’interconnessione era fondamentale. E migravamo noi.

Il mercato è competizione con il denaro, con le merci e con la guerra. Oggi la crisi climatica (la seconda contraddizione) si è aggiunta tra le cause che stanno provocando delle migrazioni senza precedenti. Dal 1990 al 2015 il numero di migranti è aumentato del 50%: 232 milioni di migranti internazionali, di cui 2017 milioni in età di lavoro e 150 milioni occupati nel Paese di destinazione, e 740 milioni di migranti interni in particolare in India e Cina.

Una delle modalità di ingresso in un altro Paese è lo svolgimento di lavori temporanei per stagionalità in agricoltura o per prestazioni manuali in alcune fasi di grandi opere, oppure per lavori con contratto a termine in posti di lavoro permanenti per poter negare la residenza alla fine del contratto.

L’andamento dei salari e dei redditi da lavoro

Dopo la crisi finanziaria del periodo 2008-2009, la crescita dei salari nel mondo reale ha iniziato a riprendersi nel 2010, ma ha rallentato dal 2012, per scendere nel 2015 dal 2,5 all’1,7 per cento, il suo livello minimo in quattro anni. Escludendo la Cina, dove la crescita dei salari è stata più alta che altrove, la crescita dei salari reali è scesa dall’1,6% nel 2012 allo 0,9% nel 2015. (ILO, Global wage report 2016/17)

Significativa è l’indicazione che emerge dall’inchiesta condotta nel 2017 dalla Confederazione Sindacale Internazionale (ITUC-CSI). L’inchiesta ha avuto come oggetto la popolazione adulta di Germania, Argentina, Belgio, Brasile, Canada, Cina, Corea del Sud, Danimarca, Stati Uniti, Francia, Guatemala, India, Giappone, Regno Unito, Russia e Sudafrica. In ciascuno dei Paesi sono state condotte interviste online con circa 1.000 persone, tranne che per il Guatemala, dove gli intervistati sono stati 500. Il totale delle risposte è stato 15.728.

(Il tuo reddito familiare è rimasto indietro al costo della vita?)

Per il 45% dei lavoratori il salario reale è diminuito e per il 35% è rimasto stagnante. Solo il 20% ha oggi un salario più elevati. Se andiamo a vedere questa crescita interessa solo i lavoratori di alcuni Paesi, e anche in questo caso non ha interessato tutta la popolazione lavorativa.

Durante la maggior parte del periodo post-crisi, la crescita dei salari nominali mondiali è stata in gran parte dovuta alla crescita relativamente salda dei salari nei Paesi emergenti e in via di sviluppo dell’Asia e del Pacifico, in particolare in Cina, ma anche in altri Paesi e regioni in via di sviluppo. Più recentemente, questa tendenza ha perso forza o è stata invertita.

Nel 2015 la crescita dei salari reali è salita al 2,2% negli Stati Uniti, all’1,5% nell’Europa settentrionale, meridionale e occidentale e all’1,9% nei Paesi dell’Unione europea (UE). Una buona parte di queste tendenze è spiegata dalla più rapida crescita dei salari negli Stati Uniti e in Germania.

I dati sull’andamento dei salari in Asia evidenziano una maggiore stabilità, ma pesa l’andamento dei salari in Cina:

Interessante l’andamento nei Paesi sviluppati e in Italia. Impressionante la caduta dei salari in Grecia:

La ripartizione della ricchezza prodotta

Fattori economici come la crescita del prodotto interno loro (PIL) e l’inflazione dei prezzi, nonché altri elementi, influenzano le tendenze dei salari reali. Molti studi indicano che nella maggior parte dei Paesi la crescita dei salari negli ultimi decenni è rimasta indietro rispetto alla crescita della produttività del lavoro ed ha conseguentemente portato a un calo della quota salariale del PIL. Sicuramente ha pesato l’accelerazione della deregolamentazione dei rapporti di lavoro e la frantumazione del lavoro nelle svariate forme delle prestazioni. I lavoratori sono oggi molto più deboli, assieme ai loro sindacati.

Siamo quindi in una fase di riorganizzazione del lavoro a reddito reale decrescente per la quasi totalità dei lavoratori. Nei fatti, tra i lavoratori si è imboccata la strada delle diseguaglianze crescenti, in particolare per i lavoratori dei Paesi a economia più debole, per le donne e per i giovani. L’aspetto più clamoroso è la crescita a dismisura dei redditi da lavoro più elevati. Deve essere posta la questione della regolamentazione e della limitazione.

Il salario minimo della OIT

Nel preambolo della Costituzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro era stabilito il principio della “garanzia di un salario vitale adeguato” (“the provision of an adequate living wage”), ma l’aggettivo “living” non è più comparso sui documenti ufficiali a partire dalla norma più importante C131 – Convenzione sulla fissazione del salario minimo, 1970 (n. 131).

Ancora oggi c’è il dissenso a richiamare l’aggettivo “vitale” da parte della rappresentanza degli imprenditori. Si parla quindi di “salario minimo”, così definito dall’articolo 3 della Convenzione richiamata: «Gli elementi da prendere in considerazione per determinare il livello dei salari minimi devono, per quanto possibile e appropriato in relazione alle pratiche e alle condizioni nazionali, includere:

  1. i bisogni dei lavoratori e delle loro famiglie, tenendo conto del livello generale delle retribuzioni nel Paese, del costo della vita, delle prestazioni di sicurezza sociale e del tenore di vita relativo di altri gruppi sociali;
  2. fattori economici, compresi i requisiti di sviluppo economico, i livelli di produttività e l’opportunità di raggiungere e mantenere un elevato livello di occupazione».

Il salario minimo è stato definito come l’importo minimo della remunerazione che un datore di lavoro è tenuto a pagare ai salariati per il lavoro svolto durante un determinato periodo, che non può essere ridotto dal contratto collettivo o da un contratto individuale.

I salari minimi esistono in oltre il 90% degli Stati membri dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL). Lo scopo dei salari minimi è quello di proteggere i lavoratori da retribuzioni eccessivamente basse ma sono sempre inferiori alla retribuzione media dei lavoratori del Paese, sia in Europa che negli altri Paesi che hanno adottato questa misura. L’inchiesta condotta dalla Confederazione Sindacale Internazionale (ITUC-CSI) ha confermato questa situazione.

L’80% degli intervistati dicono che il salario minimo nel loro Paese è insufficiente per consentire ai lavoratori di condurre a una vita dignitosa.

Mentre per il 16% il salario minimo (nazionale) è sufficiente per condurre una vita dignitosa. La maggioranza schiacciante dell’84% degli intervistati nel mondo afferma che il salario minimo è insufficiente per consentire ai lavoratori di condurre vita decente.

Alcuni dati in Europa (Eurofound – Statutory minimum wages 2018)

E negli Stati Uniti sempre nel 2018, dove il salario minimo a livello federale è stato fissato a 7,25 dollari per ora lavorata, i singoli stati possono poi adottare misure di miglioramento. (Dave Jamieson, Minimum Wage Increases for 18 States in 2018)

Alaska: $9.84, $.04 increase

Arizona: $10.50, $.50 increase

California: $11.00, $.50 increase

Colorado: $10.20, $.90 increase

Florida: $8.25, $.15 increase

Hawaii: $10.10, $.85 increase

Maine: $10.00, $1.00 increase

Michigan: $9.25, $.35 increase

Minnesota: $9.65, $.15 increase

Missouri: $7.85, $.15 increase

Montana: $8.30, $.15 increase

New Jersey: $8.60, $.16 increase

New York: $10.40, $.70 increase

Ohio: $8.30, $.15 increase

Rhode Island: $10.10, $.50 increase

South Dakota: $8.85, $.20 increase

Vermont: $10.50, $.50 increase

Washington: $11.50, $.50 increase

 

Le differenze di salario tra i generi

La distribuzione generale delle retribuzioni presenta anche differenze retributive tra i diversi gruppi di lavoratori. Una di queste, la più tradizionale ed evidente, è la disparità salariale dovuta al genere, il deficit percentuale del salario medio delle donne rispetto a quello degli uomini. Secondo le più recenti stime disponibili sulla disparità di retribuzione oraria per genere, corrispondente a una vasta gamma di Paesi, indica l’enorme variazione tra loro: da zero a quasi il 45%.

Per ogni euro guadagnato dagli uomini nell’Unione europea, le donne ne ricevono 0.84. Cioè, le donne dovrebbero lavorare mediamente 59 giorni in più all’anno per ottenere lo stesso stipendio degli uomini. Un altro dato: in Spagna, le donne dovrebbero lavorare circa 52 giorni in più all’anno in media per ottenere lo stesso stipendio degli uomini e quasi il 70% dei lavori a tempo parziale involontari sono delle donne. Sono alcuni dei punti inclusi nella relazione “Voci contro la precarietà: donne e povertà lavorativa in Europa”, presentate giovedì 27 settembre 2018, da Oxfam Intermón. (https://www.oxfamintermon.org/sites/default/files/documentos/files/voces-contra-la-precariedad.pdf)

 

In tutto il mondo i lavori di cura sono svolti in netta prevalenza dalle donne. (Care Works and Care Jobs. ILO, 2018)

La composizione degli addetti ai lavori di cura e assistenza vede, come si evidenzia nel grafico, una netta prevalenza delle donne. E questo pesa anche sul generale andamento delle retribuzioni. In generale le lavoratrici e i lavoratori del settore sono, nella maggior parte dei casi, retribuiti con salari relativamente più bassi. Una “sanzione salariale” che non può essere attribuita a differenze di competenze o esperienze. Per gli Stati Uniti, una stima recente della “sanzione salariale” è del 14,2% per le donne e del 10,6% per gli uomini.

Chi lavora per la merce denaro guadagna di più di chi lavora per la produzione di manufatti e tutti guadagnano di più delle donne che svolgono i lavori di cura, che trascinano verso il basso anche il reddito dei lavoratori maschi. Il modello economico-ideologico della crescita ininterrotta e della produttività misurata in denaro crescente, combinati con il senso comune patriarcale, continuano a determinare e accrescere le diseguaglianze.

Per fare degli esempi, mentre nei Paesi del nord Europa esiste un relativo riconoscimento professionale (soprattutto per i maschi), in Messico, la penalizzazione per le donne è il 43,7% e per gli uomini il 21,2 per cento, il 29% per le donne e il 10,8% in Francia.

Questi dati sono confermati da un recentissimo studio svolto in Europa, che considera però esclusivamente i lavori delle infermiere, delle ostetriche e delle assistenti sociosanitarie.

In Lussemburgo, Cipro, Italia e Spagna le retribuzioni orarie sono superiori alla media generale.

Lotte dei lavoratori nel mondo

Ogni mese vengono licenziati per rappresaglia o vengono uccisi lavoratori e sindacalisti che resistono e si battono. Certo, la lotta di classe viene condotta dall’alto ma le lavoratrici e i lavoratori resistono.

Tutte le lotte sono caratterizzate dalla resistenza contro le politiche e le condizioni imposte dalle oligarchie economiche e politiche.

Da un lato contro l’insicurezza derivante dalla disgregazione del lavoro e la sua precarietà e, dall’altro, contro le condizioni imposte dagli organismi economici sovranazionali e la loro esecuzione da parte dei governi nazionali.

Da alcuni mesi viene pubblicato l’osservatorio del lavoro nel mondo sul sito www.volerelaluna.it che si propone di raccontare condizioni e lotte dei lavoratori. Per conoscere più diffusamente la situazione, si consiglia di prenderne visione.

Il diritto all’acqua

Ancora in questi mesi le raccoglitrici di tè in India e i lavoratori in Nigeria e in Salvador si stanno battendo per un accesso a un’acqua sana e contro le privatizzazioni. In America Latina, in Africa e in una parte almeno dell’Asia i sindacati sono promotori o partecipano attivamente alle battaglie per affermare l’accesso all’acqua come diritto fondamentale.

C’è purtroppo chi ormai sta vivendo gli effetti del cambio climatico con il venir meno delle risorse idriche che hanno dato avvio a gravi tensioni tra le comunità locali. È il caso di tutti i territori dell’Africa subsahariana, dal Mali, al Niger, al Ciad, al Sud Sudan, all’Etiopia dove i conflitti, anche armati, tra agricoltori stanziali e pastori nomadi sta gravemente diffondendosi.

Il salario

La lotta per un salario “degno” caratterizza diffusamente lo svolgimento degli scioperi e delle manifestazioni, mese per mese, per rivendicare un salario che possa permettere di vivere. In alcuni Paesi si organizzano le lotte generali per aumentare il salario minimo.

Il più delle volte sono lotte locali dei lavoratori di diversi settori. Le più diffuse sono quelle delle lavoratrici tessili in Bangladesh e, ormai, delle lavoratrici africane dove si stanno spostando in aziende di subfornitura lavorazioni di confezionamento di importanti multinazionali.

Il precariato e i licenziamenti

La lotta contro i lavori precari e la libertà di licenziare ha invece una diffusione generale. Sono stati licenziati in Cina lavoratori che si proponevano di dare vita a un sindacato indipendente così come negli USA coloro che denunciavano agli ispettori il mancato pagamento dei salari. Si sta scioperando in Finlandia contro la proposta di legge di abolire le norme di tutela dai licenziamenti arbitrari dei lavoratori delle imprese con meno di 20 addetti. Ed è quel poco che conosciamo.

Quello che sappiamo è che dopo il 2011-12 diversi governi hanno adottato misure di legge che riducevano o eliminavano i vincoli ai licenziamenti arbitrari. Questo è avvenuto in Italia nel 2011 con le modifiche all’articolo 18 contenute nel cosiddetto decreto salva Italia, subito dopo in Spagna con il governo Rajoy, e poi ancora in Italia con il famigerato decreto jobs act e successivamente in Francia. Ma le stesse misure sono state adottate dal governo Macri in Argentina e Temer in Brasile.

Con la diffusione dei lavori precari si vanno via via diffondendo le azioni di resistenza e di lotta pressoché in tutto il mondo: nelle industrie tessili, meccaniche, chimiche e del petrolio e energia, nei settori del commercio, della ristorazione e del turismo. E ora anche il quello finanziario e delle assicurazioni.

L’inchiesta internazionale condotta dal sindacato ITUC CSI segnala che negli ultimi due anni, quasi 4 lavoratori su 10 hanno vissuto direttamente la disoccupazione o la riduzione dell’orario di lavoro, nel proprio lavoro o in quello di un membro della famiglia.

Il welfare

Come abbiamo potuto conoscere considerando il lavoro informale, la maggioranza dei lavoratori e, soprattutto, delle lavoratrici non ha una protezione sociale per gli infortuni, le malattie e la vecchiaia. Continua a prevalere la beneficenza per i poveri.

Ma anche per i lavoratori privilegiati negli ultimi anni, soprattutto dopo la crisi finanziaria del 2008, le prestazioni previdenziali sono sotto attacco e in molti casi hanno subito tagli pesanti. In Europa è avvenuto in Portogallo, in Spagna, in Italia e in Francia. In Grecia la devastazione dello Stato sociale pubblico è stata analoga a quella dei redditi.

Solo recentemente sono scese in lotta, anche contro il parere del sindacato, decine di migliaia di lavoratrici del sistema scolastico in West Virginia. Uno sciopero ad oltranza di alcune settimane che alla fine ha obbligato il governo statale a rinunciare al taglio annunciato dei finanziamenti per la protezione sanitaria e sociale.

Anche la tensione sociale in Nicaragua sfociata in una durissima repressione da parte del governo con la morte di centinaia e centinaia di manifestanti ebbe inizio con l’annuncio del governo Ortega del taglio delle pensioni.

I diritti sindacali

Prima di tutto il diritto alla vita. Ogni anno vengono uccisi molti militanti sindacali, soprattutto in Africa ed in America latina. Dopo il cambio di governo in Colombia sono ripresi gli omicidi politici di militanti sociali e sindacali (e di ex militanti delle Farc), solo nei primi quattro mesi di quest’anno sono stati assassinati 19 sindacalisti. In Brasile è di nuovo aumentato il numero di omicidi di persone impegnate a sostegno delle popolazioni indigene o quilombolas.

Lo scontro per affermare i diritti sindacali è globale e permanente, sia il diritto di rappresentanza che il diritto di sciopero. Nel mese scorso è iniziata la lotta contro la multinazionale Coca Cola con lo slogan “Coca Cola Zero Rights” e in Turchia ci sono lavoratori in lotta da mesi contro i licenziamenti di rappresaglia decisi da importanti multinazionali. Il cambio del governo in Zimbawe ha rafforzato il potere militare che ha represso intervenendo con armi da fuoco contro le manifestazioni.

 

Gli autori

Fulvio Perini

Perini Fulvio, sindacalista alla CGIL, ha collaborato con la parte lavoratori, Actrav, dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro.

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