La Costituzione dalla parte del lavoratore e il lavoratore nudo della gig economy

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1. Lavoro e democrazia

La Costituzione sceglie di stare dalla parte del lavoratore, dalla parte del lavoro come strumento di dignità della persona.

In primo luogo vi è «la Repubblica fondata sul lavoro» (art. 1 Cost.): non una mera petizione di principio ma «una precisa volontà delle forze politiche» (Mortati) di sancire il lavoro come elemento connotante la democrazia. I costituenti non avevano dubbi sulla centralità del nesso democrazia-lavoro; per tutti, si può ricordare Moro che propose la formula: «il lavoro e la sua partecipazione concreta nelle organizzazioni economiche, sociali e politiche è il fondamento della democrazia italiana».

Il lavoro è il trait d’union fra democrazia politica e democrazia economica: una democrazia dove chi lavora non è tutelato, dove i rapporti sociali sono sbilanciati, non è una democrazia. La democrazia sociale è il fondamento della democrazia politica. Si assiste a un mutamento nella «concezione dei fini e della funzione dello Stato, non più solo garante delle libertà, chiamato com’è a intervenire nella disciplina dei rapporti sociali per contrastare da una parte le prevaricazioni del potere economico e promuovere dall’altra una più equa distribuzione tra le classi dei beni della vita» (Mortati).

Con il riferimento al lavoro si rigettano polemicamente i valori che contrassegnavano l’ordine sociale precedente e si fonda una nuova democrazia. Il lavoro, cioè, è strettamente collegato alla democrazia, ma non in senso neutro, la connota, ne supporta una particolare visione: la democrazia sociale, sostanziale. Scriveva La Pira: «oggi esistono effettivamente due tipi di democrazia: una limitata al campo politico, derivata dai princìpi liberali del 1789, e una estesa al campo dell’economia. Questo nuovo tipo di democrazia deve essere specificato e affermato».

2. Lavoro, eguaglianza e dignità

Il lavoro è strumento di emancipazione e di dignità della persona, richiama insieme il principio personalista e quello solidarista, nonché la prospettiva dell’eguaglianza sostanziale. Il lavoro, cioè, è strettamente connesso al nucleo della Costituzione: il perseguimento dell’eguaglianza effettiva, l’emancipazione sociale. Non a caso, la norma che contiene il cuore del progetto costituzionale, l’art. 3, c. 2, si riferisce all’«effettiva partecipazione di tutti i lavoratori».

Legare la Repubblica al lavoro esprime la «volontà di fondare la Repubblica su un elemento profondamente egualitario e addirittura universalistico, su un dato insuperabilmente umano» (Luciani).

Evoca esplicitamente la connotazione del lavoro in termini di strumento di dignità l’art. 36, c. 1, Cost., laddove sancisce il diritto a una retribuzione non solo «proporzionata alla quantità e qualità» del lavoro ma altresì sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia «un’esistenza libera e dignitosa», in coerenza con l’art. 3, c. 2, dove alla Repubblica è affidato il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il «pieno sviluppo della persona umana».

La volontà di tutelare il lavoro sul piano dell’effettività emerge quindi esplicitamente nell’art. 4 Cost., che vincola (dovrebbe vincolare) il legislatore a perseguire politiche dirette a garantire la piena occupazione o, quantomeno, a ridurre la disoccupazione; in subordine, il legislatore dovrebbe prevedere misure alternative: nella prospettiva del diritto, non del beneficio assistenzialista.

Nell’articolo 4 emerge altresì il profilo solidarista o deontico del lavoro, che coniuga emancipazione individuale ed emancipazione della società; il lavoro, dunque, come «mezzo necessario, per una parte, all’affermazione e allo sviluppo della personalità, e per l’altra al progresso materiale e spirituale della società», con l’unione del principio personalista con quello di solidarietà (Mortati).

Seguono, quindi, le norme che tutelano in maniera specifica i lavoratori (artt. 35, 36, 37 e 38, Cost.).

Queste ultime, in alcuni casi, sanciscono direttamente a livello costituzionale diritti del lavoratore, come quelli al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite (art. 36, c. 3); in altri, prevedono una riserva di legge, come per la durata massima della giornata lavorativa (art. 36, c. 2) o il limite minimo di età per il lavoro salariato (art. 37, c. 2). Nell’ipotesi della riserva di legge – è evidente – la tutela è più debole, ma è comunque da registrare una volontà garantista, opposta alla de-giuridicizzazione oggi imperante. Resta peraltro che rimettere alla legge la disciplina della condizione del lavoro significa abbandonarla ai rapporti di forza che storicamente riflettono, a livello politico-partitico, quelli nelle relazioni industriali, senza dotare il lavoratore dello scudo costituzionale.

3. Una Costituzione dalla parte del lavoratore

La Costituzione assume l’esistenza del conflitto, lo considera giuridicamente non irrilevante e disegna un progetto nel quale sceglie la prospettiva dell’emancipazione sociale, della limitazione del potere, politico ed economico.

Nel conflitto capitale-lavoro, la carta costituzionale si schiera dalla parte più debole, il lavoratore, da tutelare e rafforzare, nella prospettiva di una eguaglianza effettiva. I costituenti rigettano la formula «Repubblica di lavoratori», ma ciò solo per escludere un’interpretazione che potesse rinviare all’idea di uno Stato monoclasse, non per disconoscere l’esigenza di una particolare valorizzazione della figura del lavoratore.

In altri termini, pur muovendo dalla considerazione che «comunque il diritto costituzionale italiano (o di altri Stati) tutela e garantisce anche i capitalisti» (Rescigno), è indiscutibile che la Costituzione nel conflitto capitale-lavoro prevede esplicite garanzie a tutela del lavoratore e si esprime per un progetto di trasformazione della società che tende alla riduzione delle disuguaglianze e, quindi, a “favorire” il soggetto svantaggiato, non rimettendo interamente la risoluzione del conflitto ai rapporti di forza tra le parti.

Al di là dei diritti di cui si è detto, vi sono nella Costituzione strumenti tesi a rafforzare la posizione del lavoratore nella dinamicità delle relazioni industriali: i sindacati, la contrattazione collettiva nazionale e il diritto di sciopero (artt. 39-40). Essi traducono nel mondo del lavoro il principio di eguaglianza sostanziale ed esprimono un favor per il lavoratore, legato alla sua posizione di soggetto debole ma anche al valore del lavoro nel disegno costituzionale.

La libertà di associazione sindacale conferisce «ai lavoratori un’efficienza capace di contrapporre efficacemente la loro forza a quella che deriva dal possesso dei beni» (Mortati). Il contratto collettivo è uno strumento per riequilibrare la debolezza del lavoratore rispetto al datore di lavoro, nonostante la mancata efficacia erga omnes, prevista ex lege solo in caso fosse diventato operativo il meccanismo di registrazione dei sindacati di cui all’art. 39 Costituzione. Attraverso il contratto collettivo nazionale i lavoratori oppongono la forza del numero al possesso dei mezzi di produzione.

Lo sciopero, infine, è garantito dalla Costituzione proprio anche «quale strumento di coazione» per bilanciare il minor potere contrattuale dei sindacati. Richiamando le parole del costituente Mancini: «il diritto di organizzazione sindacale, senza un connesso diritto di sciopero, non avrebbe importanza. Il lavoratore si organizza a scopo di difendersi. La difesa non può essere che lo sciopero»; e – come precisa Mortati – «è apparso correttivo necessario» della sperequazione fra le parti «conferire rilievo costituzionale al diritto di sciopero… senza che ad esso corrisponda un potere di serrata del datore, perché questo comprometterebbe l’equilibrio delle forze».

Ci sono poi le norme “dimenticate”, o cadute in disuso, che possono conoscere una nuova vita con il fenomeno delle imprese recuperate, come quella relativa alla collaborazione dei lavoratori alla gestione delle aziende (art. 46) o quella che prevede la nazionalizzazione o l’assegnazione a comunità di lavoratori o utenti delle imprese specificate all’art. 43.

Le norme costituzionali in materia di lavoro devono infine essere lette, in un nesso sostanziale e logico, con quelle riguardanti la cd. costituzione economica, laddove il riconoscimento della libertà di iniziativa economica privata (art. 41) si accompagna alla possibilità di prevedere limitazioni nonché attività di indirizzo e controllo da parte del legislatore per fini sociali.

4. Il lavoro tra precarietà, contrattazione aziendale, de-regolamentazione: il “lavoro incostituzionale”

Oggi assistiamo a una evidente ristrutturazione o, meglio, de-strutturazione dei termini del conflitto capitale/lavoro, un percorso in atto ormai da alcuni anni.

Innanzitutto una premessa: oggi ormai è un tabù, o appare quanto mai vetero, out, parlare di conflitto, è molto più à la page discorrere di concertazione, governance, obiettivi comuni fra imprenditore e lavoratore, ma il conflitto esiste ed è sempre più duro; negarlo significa semplicemente precludergli uno spazio di riconoscimento ed espressione, sedarlo, nella prospettiva della vittoria di un potere sempre più pervasivo e arrogante, un biopotere legibus solutus, di fronte al quale stanno, soli, lavoratori sempre più frammentati e deboli, falsi imprenditori di se stessi e veri precari sfruttati. La libertà contrattuale e la libertà della partita Iva occultano condizioni sempre più servili; la gig economy nasconde un’alienazione totalizzate del lavoratore.

Il lavoro diviene merce e la flessibilità investe anche i diritti dei lavoratori, non più inviolabili e indisponibili: dalle leggi n. 169 del 1997 (il cd. pacchetto Treu) e n. 30 del 2003 (la cd. legge Biagi), al decreto legislativo n. 23 del 2015 (appartenente al cd. Jobs Act), passando per il cd. “collegato lavoro” (legge n. 183 del 2010), sino ad arrivare alle necessità produttive «da conciliare» con i diritti (accordo interconfederale del 28 giugno 2011).

Si riduce lo spazio della legge a favore della contrattazione e il contratto collettivo nazionale si liquefa nella contrattazione di secondo livello o aziendale: in periodi, come l’attuale, di debolezza delle forze del lavoro, ciò non può che veicolare un peggioramento delle condizioni di lavoro (i cd. give-back agreements). La fictio della libertà delle parti e di una artificiale parità fa da sfondo al meccanismo conciliativo-concertativo dove la negazione del conflitto segna il dominio della parte più forte.

In coerenza con il mutamento di senso della contrattazione collettiva, le clausole di tregua sindacale, introdotte negli ultimi anni, “liberalizzano” il diritto di sciopero, affidandolo alla contrattazione delle parti, ovvero rendendolo un diritto disponibile, in coerenza con il disegno che lo vuole alla pari con il diritto di serrata (come nell’art. 28 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), nella prospettiva di una libertà cieca alle disuguaglianze. È la logica della “libera” competitività, in nome della quale, fra l’altro, i lavoratori devono competere fra loro per «cercare lavoro», in un orizzonte dove il diritto al lavoro è sostituito dal «diritto di lavorare» e dalla «libertà di cercare un lavoro» (art. 15, Carta dei diritti fondamentali UE): un mero diritto di libertà negativa, una possibilità dell’individuo, senza alcun obbligo o vincolo per le istituzioni.

Il diritto del lavoro si restringe, si assiste a una de-giuridicizzazione e de-regolamentazione in favore dell’autonomia contrattuale privata, che lascia libertà di azione a rapporti di forza nettamente sbilanciati a favore del capitale, o finanzcapitalismo (Gallino), in coerenza con un sistema delle fonti post-moderno dove tutto si scioglie nella liquidità di norme senza più forma e generate in processi di governance fluidi, a tutto vantaggio dei soggetti più forti.

Non solo: la legge diviene derogabile dalle parti (art. 8, legge n. 148 del 2011), dai contratti aziendali. Norme flessibili? Regole sfuggenti e informali funzionali a un sistema economico che plasma diritto e politica?

Senz’armatura e senz’arma, dunque, il lavoratore, e senza unione: si attaccano autonomia, indipendenza e pluralismo del sindacato e si favoriscono i sindacati aziendalizzati, nel duplice senso di frammentati a livello di azienda e di complici dell’azienda.

Diritti flessibili, norme fluide, corporativizzazione delle relazioni industriali: verso rapporti di lavoro vassallatici?

Il lavoro come strumento di dignità ed emancipazione sociale è in liquidazione, le fondamenta della democrazia e della Costituzione sono sempre più instabili.

Gli autori

Alessandra Algostino

Alessandra Algostino è docente di Diritto costituzionale presso l’Università di Torino. Fra i suoi temi di ricerca: diritti, migranti, lavoro, democrazia, partecipazione e movimenti, rapporto fra diritto ed economia, pace. Fra i suoi libri e saggi: "L’ambigua universalità dei diritti. Diritti occidentali o diritti della persona umana?", Napoli, 2005; Democrazia, rappresentanza, partecipazione. Il caso del movimento No Tav, Napoli, 2011; "Diritto proteiforme e conflitto sul diritto", Torino, 2018; "La partecipazione dal basso: movimenti sociali e conflitto", in Quaderni di Teoria Sociale, n. 1/2021; "Genere ed emancipazione fra intersezionalità e dominio: una riflessione nella prospettiva del costituzionalismo", in Uguaglianza o differenza di genere? Prospettive a confronto, Napoli, 2022; "Pacifismo e movimenti fra militarizzazione della democrazia e Costituzione", in Il costituzionalismo democratico moderno può sopravvivere alla guerra?, Napoli, 2022.

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