Il posto di lavoro sta finendo in pezzi. L’azienda industriale si trasforma in una catena di appalti e subappalti, la proprietà finanziaria si separa dalla gestione industriale, il marchio dei prodotti dalle aziende che materialmente li producono, la sede giuridica e fiscale dai Paesi in cui vivono i lavoratori. I contratti nazionali sono sotto attacco e quelli aziendali si moltiplicano. Letteralmente, in molti casi, il lavoratore non sa da chi dipende, perché deve applicare gli standard che applica, dove finiscono gli oggetti che produce. Chi lavora per una piattaforma (Uber, Foodora) non sa neppure se è un lavoratore dipendente o un libero professionista, perché usa alcuni mezzi propri (l’auto, la bici, di cui paga il consumo e l’usura) e affronta i rischi del traffico senza coperture assicurative, ma non può decidere proprio nulla del suo lavoro, salvo decidere di andarsene. I giudici qualche volta pronunciano sentenze opposte in proposito.
Anche le aziende fordiste avevano, oltre a un nucleo molto grande di lavoratori stabili, assunti direttamente, una nuvola (l’indotto) di fornitori sussidiari con dipendenti propri, nei confronti dei quali l’azienda madre non aveva responsabilità dirette né assumeva iniziative sociali particolari. E non tutti i dipendenti diretti avevano lo stesso trattamento. Perfino la Olivetti, ricordava Gallino, limitava la partecipazione al nucleo di lavoratori più stabili e specializzati. Anche ai tempi del cosiddetto “posto fisso” e dell’articolo 18 (che entra in vigore solo nel 1970, con lo Statuto dei diritti dei lavoratori) in Italia c’è sempre stata una mobilità del lavoro molto alta per l’alta mortalità e alta natalità delle piccole aziende, molte delle quali erano più piccole della soglia di validità dello Statuto. Bruno Contini, economista, che ha dedicato a questi problemi molti suoi lavori, calcolava che la mobilità del lavoro in Italia fosse più alta che negli Stati Uniti, che ogni anno circa tre milioni di lavoratori italiani perdevano il posto di lavoro e più o meno altrettanti lo trovavano. I posti “creati” o “persi” erano, e sono, la differenza di due numeri molto più grandi.
Ma è cambiata radicalmente la tendenza: quella a frammentare prevale su quella ad aggregare (non la proprietà, che tende sempre al monopolio, ma l’organizzazione e le garanzie per i lavoratori). È cambiata anche la valutazione della stabilità: una volta era considerata una condizione normale, anche se conquistata da poco e non da tutti, oggi è considerata un residuo. Certo sono un residuo gli ex-operai FIAT oggi dipendenti con ridotte capacità lavorative di varie aziende della FCA. Continuano ad avere i problemi, e i vantaggi residui, di ciò che sono stati. Presi tutti insieme sono un problema politico, non sono licenziabili. Separati sarebbero stati licenziati da tempo. Qualche volta vengono spostati da una sede all’altra, da un contratto all’altro, senza che debbano andare fisicamente da nessuna parte. Gli cambiano contratto solo per far ripartire da capo per ciascuno di loro la decorrenza della Cassa Integrazione, prossima alla scadenza nella sede in cui stanno.
Le condizioni di lavoro e quelle di vita
Le condizioni di lavoro e quelle di vita sono, ovviamente, interdipendenti. Vorrei invitare a riflettere non solo sui cambiamenti delle condizioni di lavoro a seconda del settore, delle dimensioni aziendali e delle leggi, come ho fatto finora, ma anche sui cambiamenti dei modi di vita, dei diritti sociali, delle abitudini dei lavoratori, al cambiare delle condizioni di lavoro. Non mi riferisco solo alle conseguenze evidenti, come la precarietà del reddito dei lavoratori precari, che determina una precarietà di vita (Luciano Gallino, Il costo umano della flessibilità). Mi riferisco anche alla casa, alla pensione, all’accesso all’istruzione, alle assicurazioni sanitarie. Insieme con le aziende, sotto le stesse spinte sociali, la stessa deriva ideologica, cambia anche il sistema pubblico. Si è diffusa nel secolo scorso, l’istruzione pubblica, che ora sta regredendo. Il Sistema Sanitario Nazionale, oggi tra i migliori al mondo, ma in difficoltà, è in funzione solo dal 1980, dieci anni dopo lo Statuto. Prima c’erano le mutue aziendali (come la MALF, Mutua Aziendale Lavoratori FIAT, in funzione dal ’20 all’84, poi diventata una finanziaria) e le assicurazioni obbligatorie, pagate in parte dal lavoratore in parte dal datore di lavoro, che proteggevano però solo in quanto lavoratori, non in quanto cittadini. Appena meglio della situazione attuale negli Stati Uniti. Anche il sistema pensionistico, peggiorato con la Legge Fornero, è relativamente recente. Ha raggiunto la generalità attuale negli anni ’80, anche in seguito alle lotte. Il primo sciopero realmente riuscito alla FIAT, nel ’67, fu per le pensioni.
Molte grandi aziende, tessili, metalmeccaniche, chimiche, hanno avuto una politica della casa per i dipendenti, con la costruzione di veri e propri villaggi aziendali. È noto che la Olivetti ha avuto una politica del territorio, la cui eredità, culturale e materiale, è sopravvissuta all’azienda. Ma hanno avuto una politica della casa molte grandi aziende, pubbliche e private. Ha avuto una politica della casa per i propri dipendenti lo Stato (INCIS, Istituto Nazionale per le Case degli Impiegati dello Stato, nato col corporativismo fascista nel ’25, ma attivo anche nel secondo dopoguerra). Hanno avuto una politica della casa per i dipendenti la FIAT, l’IRI, l’ENI.
Avere o non avere la casa aziendale faceva una bella differenza. Quando lavoravo per l’AGIP mineraria, dal ’62 al ’66, subito dopo l’uccisione di Enrico Mattei, a Metanopoli, una piccola company town nel comune di San Donato Milanese, avere o non avere la casa aziendale era una differenza fondamentale, più importante delle condizioni di lavoro. Le case aziendali erano ben costruite e ben collocate, di dimensioni umane, con i giardini e i vialetti, e i fitti agevolati. Ma di case aziendali, dopo la morte di Mattei, non se ne facevano più. Per gli ultimi assunti, subito fuori Metanopoli c’era Rogoredo, con i casoni da 15 piani, affittati prima di completarli, ad alto prezzo, con tre mesi pagati in anticipo e tre mesi di caparra (è capitato a me). Altrimenti bisognava passare la vita ad andare su e giù da Milano (prima della linea 3) o, peggio ancora, dai Paesi dell’entroterra, o dalle Coree, come venivano chiamati i quartieri degli immigrati recenti (Milano Corea, inchiesta sugli immigrati negli anni del “miracolo”, di Alasia e Montaldi). Perciò la prima mobilitazione a Metanopoli fu quella dei pendolari, non quella dei chimici, stritolati dalla chiusura dei Laboratori Riuniti Studi e Ricerche, certo più grave per il futuro del lavoro in Italia dell’alto livello degli affitti e della cattiva qualità delle case a Rogoredo.
Il Sistema Sanitario Nazionale, la sanità pubblica per tutti, l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, la pensione per tutti, il completamento della Pubblica Istruzione, arrivano dopo le lotte degli anni ’60 che estendono lo Stato Sociale a tutti cittadini, non solo ai dipendenti pubblici e a quelli delle grandi aziende. Allora il punto di forza fu costituito dai partiti comunista e socialista (in quanto forza politica e in quanto fonti di elaborazione culturale) e dalla concentrazione degli operai nelle grandi fabbriche. Oggi la frantumazione del posto di lavoro polverizza la classe operaia. Sulla elaborazione culturale di ciò che resta delle eredità dei partiti comunista e socialista è meglio non aprire il capitolo delle lamentazioni e delle critiche. Non in questa sede.
Si può provare, invece, ad analizzare le lotte sul territorio, che partono dalle condizioni di vita più che da quelle di lavoro.
Le lotte sul territorio
Non è una scoperta che non ci siano grandi lotte per le condizioni di lavoro. Si vedono operai in sciopero quasi solo davanti a fabbriche in chiusura per delocalizzazione. Gli scioperi dei precari ci sono ma sono difficili, rari e ignorati, se non c’è il morto. È più frequente vedere manifestazioni, anche dure, non solo di lavoratori, su temi legati all’ambiente, al territorio. Basti pensare ai No TAV. O alle manifestazioni di protesta per incidenti o sciagure.
Le lotte per le condizioni di lavoro finiscono sui giornali quando sono anche lotte per i diritti, per la casa, per la libertà, per il rispetto dei diritti umani, come quelle dei lavoratori immigrati a Rosarno e altrove. Sono lotte represse anche con la violenza, o che nascono per rispondere alla violenza. Si pensi all’assassinio di Soumaila Sacko, sindacalista dei braccianti, tra i pochi che parlasse come un sindacalista (sentito e visto postumo), che ricordasse i vecchi sindacalisti, quelli che abbiamo imparato a rispettare da ragazzi, da Giuseppe di Vittorio a Salvatore Carnevale.
Che non ci siano state manifestazioni importanti per l’assassinio di Soumaila Sacko come ci furono per quello di Jerry Masslo è un segno della decadenza del Paese.
Le lotte per la casa sono frequenti. Se ne parla di meno perché sono intrinsecamente locali, nascono dalle emergenze, dalle fabbriche dismesse occupate, dagli impianti sportivi dismessi occupati, dalle case occupate.
Manifestazioni propositive per l’ambiente, il territorio, ci sono, ma raramente, a mia conoscenza, diventano lotte che durano, organizzate, con un obbiettivo individuato e raggiungibile.
In genere le organizzazioni che promuovono queste lotte o sono di movimento, o sono organizzazioni sindacali nuove, come i Cobas, l’USB, in ascesa ma ancora lontane dai media.
In genere le lotte legate all’ambiente, al territorio, alla vita di tutti i giorni, tendono a essere settoriali, a non assumere una forma politica complessiva. Ma non è detto che chi le promuove non lavori o non abbia idee politiche generali. Alla manifestazione contro le uccisioni dei manifestanti da parte dell’esercito israeliano alla frontiera di Gaza, a Torino, c’erano alcuni NoTAV. Tenere insieme le lotte su singoli aspetti, anche molto generali, con quelle sulle condizioni di lavoro, trasformarle in politica, non è solo un fatto organizzativo ma anche culturale. Mettere insieme i verdi e i rossi non è una novità. Forse la novità che manca è un lavoro culturale terra terra, non di accordo tra vertici ma di riflessione di base. Mi chiedo se ci possa essere un modo più diretto di affrontare il razzismo tra i lavoratori, che qualche volta esiste ed è un fatto sociale, non di fabbrica, di quello di partire da Jerry Masslo, sudafricano dell’ANC, e da Soumaila Sacko, sindacalista. O di andare a vedere dove vanno a dormire la sera i compagni di lavoro, di studio, di manifestazione. O dove vivono i loro vecchi; come fanno con le code al Pronto Soccorso; o dove mettono i figli loro quando badano i vecchi o i figli degli altri.
Norme per il lavoro fuori del luogo di lavoro
La ricomposizione culturale e politica del lavoro frantumato non può che avvenire, e di fatto avviene, fuori del luogo di lavoro. Luogo che a volte può materialmente non esistere. È difficile immaginare un futuro migliore, una vita meno sgangherata, per i lavoratori a chiamata, in subappalto, finti autonomi, senza una riduzione della frammentazione, senza una definizione giuridica chiara delle responsabilità del datore di lavoro capofila.
The Fissured Workplace di David Weil, responsabile della Wage and Hours Administration degli Stati Uniti, è una dettagliata analisi, con esempi e statistiche, della frammentazione del rapporto di lavoro in quel Paese, più approfondita e completa della maggior parte delle corrispondenti analisi italiane, molto utile per capire il meccanismo che trasferisce ricchezza dal basso verso l’alto, dalla parte terminale della catena degli appalti o delle forniture, dai lavoratori ai padroni, da chi fa le cose a chi le finanzia. Man mano che si sale di livello si passa dai lavoratori, numerosi e in concorrenza sul prezzo, non in grado di controllare qualità e condizioni del lavoro, alle piccole aziende che fanno direttamente le cose, alle finanziarie, che controllano le piattaforme e le reti, il marchio e le norme, e operano in condizioni di monopolio o di oligopolio, stabiliscono i prezzi e realizzano profitti percentualmente molto alti – negli esempi del libro 37-40%.
Colpisce che, malgrado il sistema giudiziario americano goda fama di severità – ma non nei confronti dei padroni – e malgrado la funzione dell’autore, il testo citi settori industriali in cui la mediana delle retribuzioni di fatto è più bassa del minimo salariale legale. Metà dei lavoratori prende meno del minimo legale. Non dovremmo attribuire i nostri lavori in nero e sottopagati alla nostra arretratezza, alla nostra tendenza mediterranea a non rispettare le leggi. Non sarà l’imitazione dell’America a risollevare le sorti dei lavoratori italiani. Caso mai l’imitazione delle lotte dei lavoratori americani per avere migliori condizioni e più stabili, garantiti e chiari rapporti di lavoro.
Malgrado la differenza di sistemi giuridici – quello americano vicino alla common law – i suggerimenti dell’autore per opporsi alla frammentazione non sono molto diversi da ciò che cerchiamo di fare, che in passato abbiamo fatto, qui. Si suggerisce di attribuire la responsabilità sulle condizioni di lavoro, sulla sicurezza, sul rispetto delle norme antinfortunistiche e sulla formazione del lavoratore all’azienda capofila, che deve controllare il rispetto delle norme da parte delle aziende che lavorano in subappalto e dei fornitori. Si suggerisce anche che nessuna norma può essere rispettata se il lavoratore non è convinto della necessità di rispettarla e non è il primo a controllare. Esattamente ciò che riuscì a ottenere Ivar Oddone qui a Torino.
Il testo aggiunge un capitolo che applica alla sicurezza del lavoro il principio usato da destra sulla sicurezza nei quartieri. Basta un vetro rotto a scatenare il degrado in una strada, si è detto. Allo stesso modo bisogna sapere che basta tollerare un lavoro in nero, una violazione delle norme contro gli infortuni, per scatenare una corsa al ribasso. Se non sono i lavoratori stessi a chiedere il rispetto delle regole, che devono esserci, nessuno gliele può imporre.
Il sistema della formazione e dell’informazione
La formazione di una classe sociale, ancor più quella di un movimento politico, ha cause materiali ma è un processo culturale. Il funzionamento della scuola, dei media, della rete, è fondamentale per spiegare il modo in cui le persone si aggregano o disgregano; ancor più per spiegare le idee politiche e i partiti politici. La produzione e la diffusione di notizie, i giornali, i blog, la rete, la scuola, che in genere si fanno fuori del luogo di lavoro, sono fondamentali per la percezione di sé e degli altri. Della dissoluzione della classe operaia italiana fa anche parte il ripetere che si è già dissolta, che i lavoratori, contro ogni evidenza statistica, non ci sono più.
Fino alla loro, vera, dissoluzione, i partiti socialista e comunista hanno sempre avuto una politica culturale, criticabile e criticata, ma esistente. Non facevano solo propaganda, ma davano importanza alla scuola, a ciò che nella scuola si insegnava, ai programmi, alla formazione dei maestri e dei professori. E non erano i soli. La formazione non si improvvisa. «Non dimentichiamo di formare le maestre», usava dire un sociologo che lavorava per la concorrenza, cioè per la Fondazione Agnelli.
La sinistra è stata accusata di pedagogismo, di illuminismo, non di sordità.
Se manca la fabbrica come luogo privilegiato di produzione culturale, perché l’organizzazione del lavoro separa i gruppi, qualche volta i singoli (come nel caso dei finti lavoratori autonomi) possono esserci aggregazioni locali, di quartiere, di provenienza. Oggi può capitare di identificarsi con i messaggi di un Papa, come capita a me. Non meravigliamoci se chi è credente di un’altra religione, o ad essa vicino culturalmente, ne tragga ispirazione. È avvenuto, tra otto e novecento, anche qui, con la religione locale. Ci sono organizzazioni sindacali vicine al fu partito cristiano o organizzazioni di operai cristiane anche nel nome, come la Gioc. Su una parete esterna della cattedrale di Schio ci sono le lapidi che ricordano le prime leghe dei tessili, nella seconda metà dell’ottocento. In Gran Bretagna le sezioni sindacali locali si chiamavano “chapels” e avevano spesso origine religiosa.
Se non ci sono ideologie politiche in grado di proporre una spiegazione del funzionamento della società, non scandalizziamoci che se ne formino su base etica. Ci sono quelli che traggono ispirazione dalla loro versione di una religione per ammazzare. Anche le ideologie politiche hanno avuto i loro assassini. Se non crediamo in etiche religiose, come accade a me, pratichiamone e promuoviamone di laiche. Non illudiamoci che si possa fare a meno di una cultura condivisa per cambiare in meglio, eticamente, la società.