«Il mio lavorare non è vita» (Karl Marx)
Materiali marxiani su lavoro e alienazione scelti e commentati da Enrico Donaggio e Peter Kammerer
La radice di ogni cosa
Alla radice del mondo moderno sta la proprietà privata. Il suo movimento segna e compie la storia umana. Questo concetto è il nodo centrale che – dal punto di vista filosofico come da quello politico – divide i comunisti da tutti gli altri movimenti socialisti e riformatori. La proprietà privata, per Marx, non riguarda tanto le cose e il loro regolamento giuridico, quanto l’ordine materiale e sociale della produzione, la separazione dei lavoratori prima dalla terra, poi dal capitale e la loro subordinazione al comando dei proprietari dei mezzi di produzione. Solo la soppressione di questa dipendenza potrà liberare il lavoro per farne la “proprietà attiva” di chi lo svolge. Per questa ragione la necessità di superare il lavoro salariato percorre come un filo rosso i Manoscritti economico-filosofici del 1844 e, da quel momento in poi, tutta l’opera di Marx.
È quasi superfluo notare che, a livello mondiale, nessuna forza politica oggi scrive sulle proprie bandiere la richiesta della soppressione della proprietà privata. Circostanza che fa capire quanto fuori luogo, e dunque difficili o addirittura incomprensibili, possano risultare ai nostri giorni i Manoscritti. Eppure la questione rimane di capitale importanza. Poiché concerne non solo l’esclusione di masse crescenti dal mercato del lavoro o la loro condanna a una precarietà degradante, ma la capacità degli uomini di decidere coscientemente non solo come si producono le cose, ma anche con quali tecnologie e che cosa si produce.
Una scienza economica che affida decisioni di questa portata alle forze anonime ed estraniate del denaro e del mercato non potrà mai risolvere questo problema capitale in modo umano. Trattare infatti il lavoro soltanto nella forma di un’attività retribuita, di mera fonte di guadagno, significa astrarre dalla sua natura reale e complessa. Considerarlo esclusivamente in questa prospettiva – renderlo cioè compatibile con il mercato – implica ridurre l’essere umano a homo oeconomicus: il mostro dell’economia politica che Mary Shelley descrive nel suo Frankenstein, pubblicato non a caso nel 1818, un anno dopo On the Principles of Political Economy and Taxation di David Ricardo.
Una scienza e una società che ignorano cosa sia il lavoro realmente umano – il tema sottotraccia di tutti i Manoscritti – non potranno mai risolvere le questioni brucianti del non lavoro, della precarietà, dell’esclusione dal mercato, della realizzazione di un’esistenza piena e dignitosa. Per Marx il lavoro è un processo attivo e cosciente tra l’uomo e la natura per produrre gli oggetti necessari alla vita. E, nel corso della storia, l’uomo stesso. Sulla base di questo postulato, nel manoscritto su James Mill, egli può chiedersi: cosa significa produrre “in quanto uomini”? Domanda che a un economista moderno non potrebbe mai venire in mente, interrogativo destinato quindi a non avere risposta da parte della religione del nostro tempo. Sorprendente è invece quanto afferma Marx, contraddicendo non poco l’immagine che di lui si è imposta: il lavoro che realizza l’essenza dell’uomo è godimento e amore.
Questo risultato – secondo i Manoscritti – sta alla fine della strada intrapresa dall’umanità lungo la storia. Una meta raggiungibile solo mediante l’affermazione e la soppressione della proprietà privata dei mezzi di produzione, un’oggettivazione dell’uomo che diventa estraneazione e alienazione, la perdita completa e un ritorno dell’uomo a se stesso. La realizzazione dell’essenza umana tramite il lavoro prevede dunque che si produca prima il suo contrario, cioè un mondo irreale e disumanizzato.
Questo pensiero, sorto da una fede nella dialettica, si è rivelato una speranza continuamente mortificata, deviata, ingannata dalla nostra storia recente. La strada della disalienazione pare sempre più ardua, quando non sbarrata una volta per sempre. La vecchia questione filosofica della vita buona e della felicità – come quella altrettanto antica del rapporto tra lavoro e libertà – si pongono dunque oggi in forme inedite. I Manoscritti economico-filosofici ci costringono a fare chiarezza su questi problemi inaggirabili. Continuando a sperare che nella terra di nessuno tra una realtà di fatto, che s’impone come l’unica possibile senza alternative, e una realtà sconfitta, che prometteva di realizzare la vera essenza dell’uomo, si trovino ancora giacimenti di nuove energie rivoluzionarie.
(E. Donaggio e P. Kammerer, Postfazione, in K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Feltrinelli, Milano, 2018, pp. 254-257)
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Noi siamo partiti dai presupposti dell’economia politica. Abbiamo accettato la sua lingua e le sue leggi. Abbiamo ammesso la proprietà privata, la separazione di lavoro, capitale e terra, così come di salario del lavoro, profitto del capitale e rendita fondiaria, come pure la divisione del lavoro, la concorrenza, il concetto di valore di scambio, ecc. Muovendo dall’economia politica stessa, con le sue proprie parole, abbiamo mostrato che il lavoratore decade a merce e alla più miserabile delle merci, che la miseria del lavoratore sta in rapporto inverso alla potenza e alla grandezza della sua produzione, che il risultato necessario della concorrenza è l’accumulazione del capitale in poche mani, quindi la più tremenda ricostituzione del monopolio, che infine la differenza tra capitalista e proprietario fondiario, come tra contadino e lavoratore manifatturiero scompare e tutta la società deve scindersi nelle due classi dei proprietari e dei lavoratori senza proprietà.
L’economia politica parte dal fatto della proprietà privata. Non ce lo spiega. Coglie il processo materiale della proprietà privata, che si compie nella realtà, in formule generali, astratte, che valgono poi per essa come leggi. Non comprende queste leggi, cioè non fa vedere come esse derivino dall’essenza della proprietà privata. L’economia politica non ci dà nessuna delucidazione sul fondamento della divisione di lavoro e capitale, di capitale e terra. Quando, per esempio, determina il rapporto del salario di lavoro con il profitto del capitale, l’interesse del capitalista vale per essa come fondamento ultimo; essa cioè presuppone quel che deve spiegare. Allo stesso modo la concorrenza interviene dappertutto. Viene spiegata in base a circostanze esterne. In quale misura queste circostanze esterne, apparentemente accidentali, siano soltanto l’espressione di uno svolgimento necessario, su questo l’economia politica non ci insegna nulla. Abbiamo visto come lo stesso scambio le appaia come un fatto accidentale. Gli unici ingranaggi che l’economia politica mette in moto sono l’avidità e la guerra tra gli avidi, la concorrenza.
Proprio perché l’economia politica non comprende il contesto del movimento, si è potuto di nuovo contrapporre, ad esempio, la dottrina della concorrenza alla dottrina del monopolio, la dottrina del libero mestiere alla dottrina della corporazione, la dottrina della divisione del possesso fondiario alla dottrina della grande proprietà fondiaria, poiché concorrenza, libertà di mestiere, divisione del possesso fondiario sono state spiegate e comprese soltanto come conseguenze accidentali, intenzionali, violente, non come conseguenze necessarie, inevitabili, naturali del monopolio, della corporazione e della proprietà feudale.
Quindi ora noi dobbiamo comprendere la connessione essenziale tra la proprietà privata, l’avidità, la separazione di lavoro, capitale e proprietà fondiaria, di scambio e concorrenza, di valore e svalorizzazione dell’uomo, di monopolio e concorrenza, ecc. di tutta questa estraniazione con il sistema del denaro.
Non trasferiamoci, come l’economista politico quando vuole dare una spiegazione, in una condizione originaria inventata. Una tale condizione originaria non spiega nulla. Sposta soltanto il problema in una grigia, nebulosa lontananza. Presuppone nella forma di fatto, di evento, ciò che deve dedurre, cioè il rapporto necessario tra due cose, per esempio tra divisione del lavoro e scambio. Il teologo spiega così l’origine del male con il peccato originale, presuppone cioè come un fatto, in forma storica, ciò che deve spiegare.
Noi partiamo da un fatto dell’economia politica, attuale.
Il lavoratore diventa tanto più povero quanta più ricchezza produce, quanto più la sua produzione cresce in potenza e dimensione. Il lavoratore diventa una merce tanto più a buon mercato quante più merci egli crea. Con la valorizzazione del mondo delle cose cresce in proporzione diretta la svalorizzazione del mondo dell’uomo. Il lavoro non produce soltanto merci; produce se stesso e il lavoratore come una merce e proprio nella proporzione in cui produce merci in generale.
Questo fatto non esprime nient’altro che: l’oggetto che il lavoro produce, il suo prodotto, gli si contrappone come un essere estraneo, come una potenza indipendente dal produttore. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, è diventato una cosa, è l’oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare nella condizione economico-politica come derealizzazione del lavoratore, l’oggettivazione appare come perdita dell’oggetto e asservimento all’oggetto, l’appropriazione come estraniazione, come alienazione.
La realizzazione del lavoro appare a tal punto come derealizzazione che il lavoratore viene derealizzato sino alla morte per fame. L’oggettivazione appare a tal punto come perdita dell’oggetto che il lavoratore viene derubato degli oggetti più necessari non solo per la vita, ma anche per il lavoro. Il lavoro stesso, anzi, diventa un oggetto di cui egli può impadronirsi soltanto con il più grande sforzo e con le più irregolari interruzioni. L’appropriazione dell’oggetto appare a tal punto come estraniazione che quanti più oggetti il lavoratore produce, tanto meno egli può possedere e tanto più va a finire sotto il dominio del suo prodotto, del capitale.
Tutte queste conseguenze si trovano nella determinazione che il lavoratore si rapporta al prodotto del suo lavoro come a un oggetto estraneo. Poiché è chiaro secondo questo presupposto che: quanto più il lavoratore si consuma nel lavoro, tanto più potente diventa il mondo estraneo, oggettivo, che egli si crea di fronte, tanto più povero diventa egli stesso, il suo mondo interiore, tanto meno riesce a possedere qualcosa. Lo stesso accade nella religione. Tanto più l’uomo mette in Dio, tanto meno egli serba in se stesso. Il lavoratore pone la sua vita nell’oggetto; ora essa però non appartiene più a lui, bensì all’oggetto. Quanto più grande è dunque questa attività, tanto più il lavoratore è privo di oggetto. Quel che è il prodotto del suo lavoro, egli non lo è. Quanto maggiore dunque questo prodotto, tanto minore è egli stesso. L’alienazione del lavoratore nel suo prodotto ha il significato non solo che il suo lavoro diventa un oggetto, un’esistenza esterna, ma che esso esiste fuori di lui, indipendente, a lui estraneo, e diventa di fronte a lui una potenza autonoma, e che la vita che egli ha conferito all’oggetto gli si contrappone ostile ed estranea.[1]
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L’unica lingua comprensibile che parliamo fra noi sono i nostri oggetti in relazione fra loro. Un lingua umana non la capiremmo e resterebbe priva d’effetto; da una parte verrebbe intesa e sentita come preghiera, come supplica e perciò come un’umiliazione, e quindi sarebbe pronunciata con vergogna, con un senso di degradazione, dall’altra parte sarebbe presa e respinta come sfrontatezza o follia. Siamo a tal punto reciprocamente alienati dall’essenza umana, che la lingua immediata di questa essenza ci sembra una ferita alla dignità umana, mentre la lingua alienata dei valori delle cose ci sembra la dignità umana, giustificata, fiduciosa di sé, che riconosce se stessa.
Certamente: ai tuoi occhi il tuo prodotto è uno strumento, un mezzo per impossessarti del mio prodotto e quindi per soddisfare il tuo bisogno. Ma ai miei occhi esso è lo scopo del nostro scambio. Per me tu sei piuttosto il mezzo e lo strumento della produzione di questo oggetto, che è uno scopo per me, come tu, al contrario, in questo rapporto sei il mio oggetto. Ma 1) ciascuno di noi fa realmente quel per cui l’altro lo vede. Tu hai effettivamente fatto di te il mezzo, lo strumento, il produttore del tuo proprio oggetto, per impadronirti del mio; 2) il tuo proprio oggetto è per te soltanto la scorza sensibile, la forma nascosta del mio oggetto; infatti la sua produzione significa, vuole esprimere: l’acquisizione del mio oggetto. Quindi tu sei di fatto diventato per te stesso il mezzo, lo strumento del tuo oggetto, il cui servo è la tua brama, e hai reso servigi servili affinché l’oggetto non faccia mai più una grazia alla tua brama. Se questa reciproca servitù dell’oggetto su di noi all’inizio dell’evoluzione appare ora anche realmente come il rapporto di signoria e schiavitù, ciò è soltanto l’espressione rozza e sincera del nostro rapporto essenziale.
II nostro valore reciproco è per noi il valore dei nostri oggetti reciproci. Dunque l’uomo stesso è per noi reciprocamente privo di valore.
Supponiamo di avere prodotto in quanto uomini: ciascuno di noi avrebbe nella sua produzione affermato se stesso e l’altro due volte. Io avrei 1) oggettivato nella mia produzione la mia individualità, la sua peculiarità, e avrei quindi goduto, durante l’attività, di una manifestazione individuale della vita, cosi come nella contemplazione dell’oggetto avrei goduto della gioia individuale di sapere la mia personalità come un potere oggettivo, sensibilmente visibile e quindi elevato al di sopra di ogni dubbio. 2) Nel tuo godimento o nel tuo uso del mio prodotto io avrei immediatamente il godimento della consapevolezza di avere soddisfatto nel mio lavoro un bisogno umano, quindi di avere oggettivato l’essenza umana e avere quindi procurato il suo oggetto corrispondente al bisogno di un altro essere umano, 3) di essere stato per te il mediatore tra te e la specie, quindi di venire inteso e sentito da te stesso come un completamento del tuo proprio essere, come una parte necessaria di te stesso, di sapermi quindi confermato nel tuo pensiero come nel tuo amore, 4) di avere procurato immediatamente nella mia individuale manifestazione di vita la tua manifestazione di vita, dunque di avere confermato e realizzato immediatamente nella mia attività individuale la mia vera essenza, la mia essenza comune, umana.
Le nostre produzioni sarebbero come altrettanti specchi dai quali la nostra essenza rilucerebbe a se stessa. Questo rapporto sarebbe dunque reciproco, dalla tua parte accadrebbe quel che accade dalla mia.
Consideriamo i diversi momenti come compaiono nella supposizione:
II mio lavoro sarebbe libera manifestazione della vita, quindi godimento della vita. Sotto il presupposto della proprietà privata esso è alienazione della vita, infatti io lavoro per vivere, per procurarmi mezzi per vivere. II mio lavorare non è vita.
In secondo luogo: nel lavoro sarebbe perciò affermata la peculiarità della mia individualità, poiché mia vita individuale. Il lavoro sarebbe dunque proprietà vera, attiva. Ma sotto il presupposto della proprietà privata la mia individualità è alienata fino al punto in cui questa attività mi è detestabile, è un tormento e piuttosto soltanto la parvenza di un’attività, perciò anche un’attività soltanto imposta e soltanto da un accidentale bisogno esteriore, non da un necessario bisogno interiore.
Il mio lavoro può apparire nel mio oggetto solo come quel che è. Non può apparire come quel che non è per sua essenza. Quindi esso appare ancora soltanto come l’espressione oggettiva, sensibile, contemplata e perciò al di sopra di ogni dubbio, della mia perdita di me stesso e della mia impotenza.[2]
NOTE
[1] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Feltrinelli, Milano, 2018, pp. 69-73.
[2] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Feltrinelli, Milano, 2018, pp. 208-211.