Lavorare per il re di Prussia

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Il radicale ridimensionamento delle pensioni, nel nostro Paese, parte da lontano (dai primi anni Settanta, dal 1992 con l’abolizione della scala mobile e, poi, dal 1995, con l’introduzione del calcolo con il sistema contributivo operato dal Governo Dini). Ma è negli ultimi due decenni che la situazione è precipitata. Si è iniziato con il cosiddetto “scalone Maroni” che, nel 2008, ha innalzato l’età pensionabile da 57 a 60 anni e, nel 2009, ha adeguato le pensioni all’aspettativa di vita (lo “scalone” è stato parzialmente corretto dallo “scalino” Prodi che, peraltro, non ha evitato un sostanziale innalzamento dell’età pensionabile a 62 anni). E si è proseguito con la controriforma nota con il nome della ministra Elsa Fornero.

La legge Fornero ha aumentato di un anno le pensioni di anzianità, ridenominate “anticipate”, e abolito le quote (somma di età anagrafica e anzianità contributiva), rafforzato l’adeguamento pensionistico all’aspettativa di vita (ormai siamo sulla soglia dei 67 anni), introdotto l’estensione pro-rata del metodo contributivo a quelli che erano precedentemente esclusi dalla riforma Dini, aumentato da 60 a 65 anni l’età di pensionamento di vecchiaia delle lavoratrici dipendenti private, bloccato totalmente la perequazione delle pensioni superiori a tre volte il trattamento minimo. La legge ha, inoltre, creato il dramma degli “esodati”: oltre 200.000 lavoratori che si sono trovati improvvisamente, per il repentino cambiamento delle regole, senza reddito da lavoro e senza pensione, e ha imbrogliato i giovani perché i risparmi non sono rimasti all’INPS per la loro futura previdenza ma sono stati usati per “rassicurare” la finanza internazionale rispetto al debito pubblico.

Questo disastro sociale, il continuo allungamento dell’età lavorativa e il peggioramento dei redditi pensionistici sono avvenuti senza alcuna opposizione usando l’alibi del debito pubblico. Sul debito però non c’è mai stata la necessaria chiarezza su chi lo detiene e perché continua a crescere nonostante i tagli nell’istruzione come nella sanità e nei servizi pubblici. La cosa certa è che il debito viene strumentalmente usato come una clava per scaricarne i costi sul welfare e sui diritti, conquistati con le lotte del periodo compreso tra il 1968 e la fine degli anni Settanta. Di più. Lo scorso anno non c’è stata alcuna presa di posizione delle autorità monetarie sul fatto che sul debito pubblico sono stati scaricati 30 miliardi per il salvataggio delle banche in fallimento per gestioni scorrette, speculative, clientelari di cui nessun manager, tra patteggiamenti e prescrizioni, risponderà. E occorre anche sottolineare quanto il debito sia gonfiato da speculazioni finanziarie internazionali e come il Tesoro abbia sottoscritto, incredibilmente, derivati che si sono rivelati delle vere e proprie truffe a danno della finanza pubblica. A questo proposito è stata clamorosa la sottoscrizione di un derivato con la banca americana Morgan Stanley: per una commissione di 47 milioni nel 2004 la Morgan Stanley ha incassato, nel 2012, un miliardo di interessi ma i due ex ministri del Tesoro Vittorio Grilli e Domenico Siniscalco, messi sotto inchiesta dalla Corte dei Conti, sono stati assolti e hanno fatto anche carriera all’ombra della stessa Morgan Stanley.

Poi c’è il mantra del deficit INPS e dell’elevata spesa pensionistica rispetto alla media europea: “falsità reali” diventate “verità virtuali”, a cui i più credono per la pessima qualità dell’informazione dei media, fedeli alle linee governative a loro volta fedeli alle linee delle lobby e potenze finanziarie internazionali, Fondo Monetario Internazionale in primis.

Il calcolo della spesa pensionistica, infatti, viene effettuato, scorrettamente, al lordo della tassazione mentre dovrebbe essere fatto al netto visto che un quarto della spesa è, nei fatti, una partita di giro: esce, nominalmente, sotto forma di pensione ma in realtà resta nelle casse dello Stato sotto forma di tassazione. I dati sono chiari: in presenza di una spesa per la previdenza nel 2016 di circa 200 miliardi annui ben 50 miliardi sono rientrati subito (anzi non sono usciti) per le tasse.

Il bilancio complessivo dell’INPS, poi, risulta penalizzato da una serie di carichi assistenziali che nulla hanno a che vedere con la previdenza (cioè con i contributi versati dai lavoratori per la propria pensione) e che dovrebbero essere messi in carico alla fiscalità generale. Ma a tutti i Governi ha sempre fatto comodo scaricare sulla previdenza costi dell’assistenza come gli assegni sociali, l’invalidità civile, ammortizzatori sociali (leggi Cassa Integrazione) o bonus bebè. In sostanza l’INPS eroga 440 prestazioni di cui solo 150 sono di natura pensionistica e nel 2015, escludendo la spesa assistenziale, ha registrato un attivo di 3,7 miliardi.

C’è poi il tema della tassazione delle pensioni: in Italia si paga in genere quasi il 30 per cento in più degli altri Paesi europei ma il confronto diventa impietoso con riferimento a quelle più modeste, che nel nostro Paese sono le più diffuse. In Italia su una pensione mensile lorda di € 1.500 si pagano 4.000 € di tasse annue, in Germania 35 €, in Francia 1.000 €, in Inghilterra 1.500 e in Spagna 2.000 (dati del Centro Studi Confesercenti). A questa già elevata tassazione IRPEF vanno poi aggiunte le tassazioni locali (Comuni e Regione). È evidente che, se non si tiene conto dell’elevata tassazione delle pensioni italiane rispetto a quelle europee, confrontare al lordo la spesa pensionistica significa falsificare il confronto e, difatti, al netto della tassazione e dell’improprio addebito della spesa assistenziale, quella italiana risulta inferiore a quella della Francia e di poco superiore a quella della Germania. In sostanza rientra perfettamente nella media europea.
A questo punto è lecito chiedersi perché in tutti questi anni è stata data, sia agli Italiani che all’Europa, l’immagine di un’Italia spendacciona nel settore previdenziale.

La risposta sta nel fatto che sulle pensioni, o meglio sui contributi versati dai lavoratori italiani, è stata caricata, in particolare con la controriforma Fornero, una quota del debito pubblico. Ma se il debito pubblico è in gran parte alimentato e vampirizzato dalla speculazione finanziaria internazionale e nazionale, appare evidente come la previdenza sia vittima della speculazione e in questi anni sia stata spremuta, anche con l’allungamento della vita lavorativa, per mettere le mani proprio sul risparmio delle famiglie italiane, che nel 2017 è arrivato a 4.300 miliardi, e, oltre a risultare il doppio del debito pubblico, è nettamente superiore alla media degli altri Paesi.

Gli autori

Giovanni Vighetti

Giovanni Vighetti vive a Bussoleno ed è esponente del Movimento No Tav

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