C’era grande attesa per la decisione della Corte costituzionale sui licenziamenti in regime di Jobs Act e questa attesa non è andata delusa.
Come si legge nel comunicato stampa ufficiale del 26 settembre, l’art.3, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015 è illegittimo «nella parte – non modificata dal successivo decreto legge n. 87/2018, cosiddetto “decreto dignità” – che predetermina in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore licenziato senza giusta causa o giustificato motivo. In particolare, la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è, secondo la Corte, contraria ai princìpi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione». La motivazione della sentenza sarà pubblicata nelle prossime settimane, ma già dal comunicato si comprende che si tratta di una decisione di grande portata.
Ricapitoliamo la questione.
Con il Jobs Act e il cosiddetto “contratto a tutele crescenti”, in vigore dal 7 marzo 2015, il governo Renzi aveva sostanzialmente abrogato per tutti i nuovi assunti la reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo prevista dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, sostituendola con una modesta indennità risarcitoria: da un minimo di quattro a un massimo di ventiquattro mensilità, agganciate semplicemente all’anzianità (due mensilità per ogni anno di servizio). Tale indennità era stata poi aumentata dall’attuale governo del 50 per cento nel cosiddetto “decreto dignità”, passando così a sei mensilità nel minimo e trentasei nel massimo: misura del tutto insufficiente non soltanto perché non aveva rimesso la reintegrazione al centro del sistema sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi, ma anche dal punto di vista della mera adeguatezza economica, in particolare perché l’aumento del massimo dell’indennità avrebbe iniziato a operare solo dal 2027 (il massimo di trentasei mensilità sarebbe stato raggiunto addirittura solo a partire dal 2033!).
La Corte interviene ora su un punto non toccato dal decreto dignità, e cioè quello della predeterminazione rigida dell’indennità risarcitoria, restituendo al giudice il potere di stabilire il risarcimento tra il minimo e il massimo di legge, in base a parametri anche diversi dalla semplice anzianità di servizio.
Per avere indicazioni più precise bisogna attendere la motivazione della sentenza, ma è facile immaginare che gli altri parametri potrebbero essere individuati nell’entità del pregiudizio patito dal lavoratore illegittimamente licenziato, nella dimensione dell’impresa, nella gravità dell’inadempimento datoriale e in generale nel comportamento delle parti (princìpi già sanciti dai commi 5 e 7 dell’art. 18, che potrebbero essere utilizzati in via analogica).
Sono invece già esplicitati i profili di illegittimità costituzionale accolti dalla Consulta: oltre all’art. 4 (effettività del diritto al lavoro riconosciuto dalla Repubblica), anche l’art. 24 Costituzione (diritto ad agire in giudizio per la tutela dei propri diritti), diritto vanificato non soltanto dalla irrisorietà dell’indennità, specie per chi vanta una breve anzianità, ma anche dal perverso meccanismo dell’offerta conciliativa introdotta dall’art. 6 del decreto legislativo n. 23/2015 concepito per rendere antieconomico il ricorso al giudice. La norma censurata violava anche, e forse soprattutto, i princìpi di ragionevolezza e di uguaglianza, che impongono non soltanto di non trattare in modo differenziato situazioni eguali, ma anche di non trattare in modo uniforme situazioni fortemente differenziate (i licenziamenti non sono tutti identici né nei presupposti né nelle conseguenze).
Pur avendo la Corte disatteso altri profili di sospetta illegittimità (principalmente la disparità di trattamento tra vecchi e nuovi assunti), la restituzione al giudice della possibilità di esercitare la sua funzione con riferimento al caso concreto, senza essere più schiacciato in una applicazione ragionieristica delle sanzioni, costituisce un risultato di grandissima importanza, perché scardina uno dei pilastri della filosofia del Jobs Act. Viene infatti dato un colpo mortale alla teoria del firing cost (costo del licenziamento), secondo la quale l’impresa deve conoscere in anticipo il prezzo da pagare per liberarsi di un dipendente.
Come ha efficacemente scritto il prof. Luigi Mariucci («La Corte costituzionale riapre la partita sulla questione dei licenziamenti», in www.Comma2.it), è stata cancellata un norma in evidente contrasto anche con i principi del liberalismo classico, ispirata com’era ai «canoni predicati da quella scuola cosiddetta di law and economics che suggerisce di applicare al diritto del lavoro gli stessi criteri su cui si fondano gli scambi commerciali. Come se il lavoro fosse, appunto, una semplice merce da trattare, sul libero mercato, come tutte le altre merci».
E ciò, di questi tempi, non è davvero poca cosa.