Le norme in materia di lavoro contenute nel cosiddetto “decreto dignità”, approvato dal Consiglio dei ministri il 2 luglio, costituiscono un primo, timido passo diretto a contrastare la precarietà nonché a rafforzare le tutele in materia di licenziamenti illegittimi.
Iniziamo dalle misure introdotte in materia di contratti a tempo determinato.
Come noto, con il decreto legge 20 marzo 2014 n. 34 (il famigerato “decreto Poletti”), il governo Renzi aveva del tutto abolito le “causali” previste per giustificare l’apposizione di un termine al contratto di lavoro. A presidio della natura temporanea, che dovrebbe connotare per definizione il contratto di lavoro a temine, rimanevano solo due limiti: quello massimo di durata, fissato in 36 mesi e peraltro allungabile dalla contrattazione collettiva; quello numerico del 20 per cento rispetto agli assunti a tempo indeterminato, anch’esso ricco di possibili numerose deroghe. Il decreto Poletti fu presentato come un intervento temporaneo, destinato ad essere rivisto con l’introduzione del cosiddetto contratto “a tutele crescenti”, ma non andò così perché, nonostante l’approvazione del Jobs Act, la liberalizzazione dei contratti a tempo determinato rimase nel nostro ordinamento ed anzi la relativa disciplina fu ulteriormente peggiorata con il decreto legislativo n. 81/2015, nel quale stabilì, tra l’altro, che la violazione del tetto numerico non comportava la conversione del contratto a tempo indeterminato. Il risultato (inevitabile) è stato che, esauritosi l’effetto “dopante” degli incentivi previsti nella finanziaria 2014 per i contratti a tempo indeterminato, le assunzioni a termine sono progressivamente aumentate, sino a raggiungere una percentuale superiore al 90 per cento di quelle totali: una esplosione clamorosa, dunque, del lavoro precario, che il Governo Renzi, almeno a parole, si era impegnato a contrastare.
Il “decreto dignità”, con un’inversione di tendenza rispetto alla legislazione più recente, tenta di porre un freno a questa situazione intollerabile, principalmente con le seguenti misure: a) accorciando il limite temporale complessivo da 36 a 24 mesi; b) riducendo da cinque a quattro il numero di proroghe possibili e prevedendo anche un sia pur modesto onere contributivo ulteriore al fine di disincentivare i rinnovi; c) reintroducendo le causali sia nel contratto a tempo determinato sia nella somministrazione a termine (sostanzialmente quelle esistenti prima del decreto Poletti), peraltro con il grave limite che vedremo tra poco. Inoltre il decreto allunga il temine per l’impugnazione stragiudiziale dei contratti a termine da parte del lavoratore, portandolo da centoventi a centottanta giorni,e ciò in considerazione dell’evidente stato di soggezione in cui si trova il lavoratore tra un rinnovo e l’altro.
La direzione in cui si muove l’intervento legislativo è senz’altro quella giusta, in quanto tende a ricondurre questa tipologia di contratto al suo naturale ambito: quello cioè di strumento non ammissibile per sopperire ad esigenze strutturali delle imprese. Sia per il diritto interno che per quello comunitario, infatti, il contratto a tempo indeterminato rappresenta la “forma comune” di rapporto di lavoro, mentre il lavoro temporaneo costituisce, o meglio dovrebbe costituire, l’eccezione. Così non è stato con il Jobs Act il quale, come detto, ha generato solo ulteriore lavoro precario.
L’obiezione, ripetuta come un mantra sulla stampa “indipendente”, secondo cui l’innovazione rischierebbe di incrementare il contenzioso, è strumentale e infondata: se le aziende rispetteranno le regole, e assumeranno a termine solo in presenza di reali e comprovate esigenze di natura temporanea, non vi sarà alcuna conseguenza in termini di contenzioso. La gran parte del contenzioso di massa che ha intasato i nostri tribunali negli anni passati è stato il prodotto di comportamenti assai poco virtuosi adottati da qualche grande azienda pubblica. Basta non ripetere gli errori del passato e nulla accadrà sul piano del processo del lavoro!
Il limite della nuova normativa è piuttosto quello che essa non si applica ai contratti di durata inferiore ai dodici mesi, ma solo a quelli di durata superiore ovvero ai rinnovi o, ancora, alle proroghe eccedenti i dodici mesi. Poiché – come le statistiche dimostrano ‒ la grande maggioranza delle assunzioni a tempo determinato è di durata breve o addirittura brevissima la nuova disciplina avrà purtroppo un impatto ridotto. Meglio sarebbe stato quindi reintrodurre le causali sin dall’inizio del rapporto, com’era nel testo originario del decreto legislativo n. 368 del 2001.
Rappresenta un’inversione di tendenza, ma persino più timida di quella sui contratti a temine, l’aumento dell’indennità da corrispondersi in caso di licenziamento illegittimo al lavoratore assunto a “tutele crescenti”.
Come noto, la reintegrazione nel posto di lavoro prevista dall’art. 18 dello statuto dei lavoratori per il caso di licenziamento dichiarato illegittimo dal giudice (sia pure nel testo già depotenziato dalla legge Fornero n. 92/2012) è diventata, per gli assunti dopo il 7 marzo 2015, una tutela residuale, riservata solo ai licenziamenti nulli o discriminatori ovvero del tutto privi di giusta causa per totale insussistenza del fatto contestato al lavoratore (con esclusione per il giudice della possibilità di valutare la sproporzione del licenziamento a questi fini). La reintegra è invece esclusa per il licenziamenti cosiddetti “economici” (cioè individuali per giustificato motivo oggettivo ovvero collettivi per riduzione di personale). La tutela standard per i nuovi assunti (e anche per coloro che hanno cambiato lavoro) è dunque quella solo indennitaria (due mensilità per anno di anzianità, con un minimo di quattro e una massimo di ventiquattro, che pertanto si raggiunge dopo dodici anni di anzianità). È evidente che il regime sanzionatorio previsto dal Jobs Act non costituisce un valido deterrente per scoraggiare i licenziamenti ingiustificati: il contratto a tutele crescenti rappresenta infatti una forma di precariato a tempo indeterminato (una sorta di contratto a tempo “indeterminabile” come qualcuno lo ha definito), che condiziona libertà e dignità dei lavoratori per tutta la durata del rapporto, rendendo assai poco effettivi anche gli altri diritti riconosciuti dalla legge.
A fronte di ciò il rimedio adottato nel “decreto dignità” è un modesto aumento dei limiti, minimo e massimo, dell’indennità, che vengono portate rispettivamente a sei e trentasei mensilità (il massimo si raggiungerà dunque, per i primi assunti con il Jobs Act, soltanto nel 2033…). Si tratta, dunque, di un semplice palliativo che, muovendosi all’interno della logica del decreto legislativo n. 23/2015, non riporta la tutela reintegratoria al centro del sistema. Anzi, mantenendo il doppio regime di tutela tra vecchi e nuovi assunti, non sottrae il decreto legislativo n. 23 alle censure di costituzionalità sollevate dal Tribunale di Roma con ordinanza del 26 luglio 2017, sulla quale la Corte costituzionale è chiamata a decidere il 25 settembre prossimo.
Per concludere, va segnalato che, dopo gli iniziali annunci e le prima bozze di decreto, sono state espunte dal testo sia le norme relative all’abolizione della somministrazione a tempo indeterminato (cosiddetto “staff leasing”, pericolosa forma di scissione legale tra titolare formale del rapporto di lavoro ed effettivo beneficiario della prestazione) sia quelle relative alla tutela di fasce di lavoratori assolutamente privi di ogni garanzia, quali i riders. Evidente il cedimento alle pressioni della associazioni imprenditoriali. La speranza è che queste esclusioni vengano riconsiderate nel corso del dibattito parlamentare in sede di conversione del decreto.