Conviene partire dalle evidenze. Sono anche molto semplici e mi chiedo come sia possibile, di fronte alla tragedia cui stiamo assistendo, non mettersi d’accordo su due evidenze che, in quanto tali, non dovrebbero prestarsi a strumentalizzazioni (per esempio, il loro ordine è semplicemente cronologico, dalla più alla meno recente) e dovrebbero essere riconosciute negli interlocutori, per una sorta di preventiva carità ermeneutica.
La prima evidenza è che nessuno, a meno di non aver perduto qualunque senso d’umanità, può giustificare o legittimare l’empietà dell’azione rivendicata da Hamas. Certo, mi rendo conto che a partire da questa evidenza si aprono tante controversie giuridiche: è un atto di guerra? è un atto di terrorismo (come sostiene, per esempio, Luigi Ferrajoli) Personalmente parlerei di crimine di guerra. Ma l’evidenza non appartiene in questo caso all’ordine giuridico, ma a quello etico. L’evidenza è l’empietà, non trovo altro termine adatto. La seconda evidenza è la disperazione di un popolo oppresso. Siamo dinanzi a una situazione che, con la colpevole complicità dei “potenti del mondo”, ha visto negli anni la volontà di potenza deòòo Stato di Israele costringere un intero popolo a vivere come in una trappola per topi, via via sempre più soffocante e contro ogni diritto non supposto ma riconosciuto. E le scelte dell’ultimo Governo israeliano hanno di fatto tolto qualunque spiraglio di speranza a quelle persone (spiraglio che, per usare un eufemismo, non sarà di certo riaperto dalla sventurata empietà di Hamas).
Se la prima evidenza è l’empietà, la seconda è la disperazione. Confesso che uno dei tic più spietati che vedo diffondersi in questi giorni è la gara a indicare una sorta di preferenza tra l’empietà e la disperazione. Io non so e non voglio scegliere e reclamo il dovere morale di non doverlo fare. Anche perché empietà e disperazione sono in questo caso, a ben vedere, così confuse tra di loro da essere quasi consustanziali. Non c’è una disperazione ormai accecata – quasi biblica, mi verrebbe da dire – nella sola idea di uccidere così barbaramente degli innocenti? E la disperazione di un popolo oppresso non è legata ad atti di barbarie che sono passati sotto silenzio solo perché compiuti nella parte sbagliata del mondo, quella lasciata in ombra, rimossa dalla nostra opinione pubblica colpevolmente selettiva? C’è differenza, in termini d’umanità che resta, tra un bambino ucciso in un kibbutz e un bambino ucciso da bombardamenti unilaterali su un territorio occupato? E sia chiaro, questa domanda non è un modo per ridimensionare l’empietà: non c’è differenza vuol dire che non c’è differenza e che si può e si deve sentire il peso e il dolore per il sangue di entrambi senza dover scegliere, se si vuole restare umani.
Ma, al di là di questa consustanzialità che è un dato non irrilevante, in che modo possiamo parlare del rapporto tra l’empietà di questa mossa di Hamas e la disperazione così antica del popolo palestinese? Anche su questo credo ci si possa facilmente mettere d’accordo su cosa non si può fare. Riconoscendo due errori interpretativi imperdonabili. Il primo è imprigionare il rapporto tra empietà e disperazione nel principio di causalità. Il salto dalla disperazione all’empietà è un abisso, un salto dall’umanità all’inumanità. Nessuna causa – per quanto evidente – può produrre un tale effetto. Ma il secondo errore interpretativo – e qui mi avvicino alla questione su cui vorrei soffermarmi – è quello contrario e, mi pare, sia quello che ormai ha contagiato la parte giusta del mondo (ovviamente sono sarcastico). La riduzione di un evento storico alla puntualità di un fatto. Non solo non esisterebbe causalità, ma nemmeno esisterebbe correlazione. E se qualcuno pacatamente ricorda che senza questa correlazione ci perdiamo il senso degli eventi e, soprattutto, sfuggiamo alla responsabilità di disinnescarne ulteriori conseguenze future, viene subito accusato di voler “ridimensionare ciò che è accaduto”.
Del resto la prima dichiarazione del capo dei giusti, il presidente Biden, è proprio un esplicito tentativo di sostituire la storia con il punto e basta del fatto: «Israele ha il diritto di difendere se stesso e il suo popolo, punto e basta». Punto e basta. Anche se quel punto non è l’inizio e, per certo, non sarà la fine. Non basterà affatto, già non sta bastando, purtroppo. È di questo che voglio parlare. Non perché sia la cosa più importante, ma perché riguarda noi stessi e, in fondo, ciò che possiamo fare di noi stessi per stare davvero dalla parte delle vittime. La postura del punto e basta mi sembra davvero gravissima, perché suggerisce che l’Occidente stia combattendo una battaglia culturale e politica contro se stesso e contro una delle sue più grandi conquiste di civiltà, la nozione di storia. Ora, sono pienamente consapevole che la storia sia da usare con molta circospezione e anche con molto spirito critico. Ma se il Novecento è stato il secolo dell’eccesso di storia, mi pare che adesso siamo esattamente alla sua rimozione. L’attitudine storica è quella che rifiuta l’autosufficienza del fatto. Non esistono, nella storia, hàpax, parole che ricorrono una sola volta. Difficilmente si va a capo; quando va bene si può tirare il fiato con un punto e virgola, prima di ricominciare. Ma il punto e basta, non esiste. Solo con questa consapevolezza storica noi possiamo contestualizzare, prevedere, imparare, rendere ragione, riconoscere che un fatto è molto più complesso di se stesso e richiede un lavoro radicale, nel senso preciso di un lavoro che scavi le radici. Sapendo bene che le radici storiche non sono deterministiche, non hanno una causalità automatica, sono affidate alla buona volontà degli esseri umani o, più frequentemente, alla cattiva. Dire che alla radice dell’empietà vi sia la disperazione degli oppressi vuol dire precisamente questo: rendere i fatti alla loro complessità, senza il determinismo della causalità né il riduzionismo del fatto come un semplice fermo immagine.
C’è un filo rosso, se ci pensiamo, che lega l’autocomprensione dell’Occidente rispetto alle sue prese di posizione geopolitiche. Anzi, due fili rossi.
Il primo è legittimare una scelta di potenza con la retorica del puro presente e la cancellazione della correlazione storica. Se qualcuno prova a dire che la questione ucraina non è cominciata dal nulla una sera piovosa di febbraio dell’anno scorso, viene subito espulso dalla discussione. Ma ciò che viene espulso è quella capacità critica che, inserendo un fatto dentro una storia, permette di uscire dal pensiero magico. Le macerie della Palestina sono pietre portanti della storia e non potremo capire nulla se pensiamo che tutto è cominciato in un sabato quasi estivo di ottobre in cui quasi tutti eravamo invitati a una festa di piazza e poi siamo stati costretti a non festeggiare. Perché l’Occidente sta deliberatamente rinunciando a uno dei suoi strumenti di civiltà? Certamente perché la complessità della storia implica un’educazione alla cittadinanza critica e non alla servitù volontaria o al tribalismo del tifo. E in un Occidente sempre più in imbarazzo rispetto a se stesso fa comodo interdire il pensiero critico.
Ma il secondo filo rosso è ancor più inquietante. Perché la logica del punto e basta ha immiserito così tanto la nostra immaginazione politica da non riuscire più a pensare ad altre forme di risoluzione dei conflitti che non siano le guerre. Se ci pensiamo, la guerra è il contrario della storia. Ogni guerra è un tentativo di porre fine a una storia. Ed è per questo che la storia ha finito con essere una sequela interminabile di guerre, perché la guerra fallisce sempre e la storia continua. Ma sempre più contorta, con meno ragioni chiare e più disperazione in corpo, mai più risolta. L’unica guerra destinata a non fallire è in fondo quella in cui, grazie alla potenza tecnologica e distruttiva delle armi a disposizione, la storia sarà definitivamente sconfitta perché non ci sarà più umanità. Non è un’evocazione fuori luogo. Perché la conquista dolorosa dell’Occidente dopo la seconda guerra mondiale era proprio questa: scommettere sulla storia e non più sulla guerra. Credere che il potere consistesse nel creare spazi al futuro, non nel soffocare ogni speranza tramite la dittatura dei fatti.
La sensazione è che siamo disperati anche noi, persi ormai dentro la coazione a ripetere della violenza che segue altra violenza che segue altra violenza. Un codice unico della guerra diventata culto della potenza e insieme dissimulazione della violenza, per cui inumano è sempre ciò che subiamo e mai ciò che facciamo. Osserviamole, le infinite guerre che si consumano adesso. Buona parte di esse sono guerre del tutto asimmetriche, in cui la violenza degli oppressori è difesa preventiva o legittima reazione mentre quella degli oppressi è terrorismo. La nostra disperazione – se abbiamo il coraggio di andare alla radice e di non fermarci al presente – non nasce da un’oppressione subita, ma agita. È la disperazione degli oppressori. Di chi ha perduto ogni immagine di sé al futuro e non sa fare altro che affidarsi alla logica brutale della vendetta e della guerra. Eccolo l’Occidente, sempre più riconoscibile sotto il cappello atlantista eppure sempre più sfigurato. Ci rimane solo la falsa coscienza di chi giudica la propria violenza come buona e la violenza degli altri come cattiva. Di chi reagisce all’empietà con ulteriore empietà. E non ha ormai altra strada che definire politica quel che è solo falsa coscienza.
PS. «Niente elettricità, niente cibo, niente gas, non entrerà più nulla. Stiamo combattendo degli animali umani e agiremo di conseguenza» (Yoav Gallant, Ministro della difesa di Israele). È la prima volta, per quanto mi consta, che l’attributo di umanità viene usato in senso diminutivo. Non si tratta più semplicemente di far scivolare l’umanità nella nuda vita dell’animale. C’è qualcosa di diverso. All’animale non umano daremo cibo e calore, non lo maltratteremo. Ma all’animale umano, proprio in quanto umano, dovrà essere tolta ogni cosa. Una celebre storia ebraica recita così: «In un bosco dove mi ero nascosto, incontrai di notte un cane, malato, famelico, forse anche impazzito, con la coda fra le gambe. Entrambi sentimmo subito la comunanza, se pure non la somiglianza della nostra situazione, infatti la condizione dei cani è certo di gran lunga migliore della nostra. Si appoggiò a me, affondò la testa nel mio grembo e mi leccò le mani. Non so se ho mai pianto come in quella notte: mi gettai al suo collo e scoppiai in singhiozzi come un bambino. Quando affermo che allora invidiavo le bestie, non c’è da stupirsi, ma ciò che provai in quel momento era più che invidia, era vergogna. Mi vergognavo davanti al cane di non essere un cane, ma un uomo» (Zvi Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio).
Individuate quelle che per lei sono le “due evidenze”: “l’empietà”( male assoluto?) di Hamas e “la disperazione” del Popolo palestinese oppresso, lei afferma di non sapere scegliere e di rivendicare il dovere morale di non farlo, cosa che invece vede gli altri fare a gara. Mi pare che nessuno è chiamato a fare tali scelte morali, col rischio di accodarsi al coro dei sepolcri imbiancati, perché il problema non è morale, è un problema storico-politico e culturale, che richiede una soluzione conseguenziale. Il problema, che è aperto da decine di anni e rimane tale con tutti i risvolti tragici possibili, è la condizione di schiavitù, di oppressione in cui è tenuto il Popolo palestinese, contro il diritto e le convenzioni internazionali, contro le stesse risoluzioni dell’ONU, contro tutti i diritti umani, con la complicità degli Stati occidentali. È su questo che si richiede un pronunciamento politico-culturale chiaro e netto, altrimenti le violenze, le guerre ed ogni “empietà” continueranno, anche senza il determinismo storico e al di là dei nostri problemi morali.
Penso che ormai l’Occidente non senta più altra alternativa che schierarsi “dalla propria parte”, dei propri interessi, o almeno creduti tali, di natura politica, economica, ideologica. Questo a prescindere da una seria riflessione sulla natura dei fatti e delle loro “radici”. E’ una disposizione che denuncia una paura da stato di assedio, come quello che deriva dalla costatazione, magari spesso inconscia, di essere giunti alla parabola discendente della propria strapotenza mondiale, con i nuovi soggetti “geopolitici” emergenti (i cosiddetti Brics) e l’evidente crisi del modello coloniale prima e capitalistico tradizionale poi. Quando succedono fatti come quelli che hanno innescato la guerra in Ucraina e ora in Palestina, l’occidente e il suo relativo apparato mediatico , sa già da che parte schierarsi, a prescindere.