La canea politica e mediatica intorno alla vicenda della giudice catanese Iolanda Apostolico, colpevole di aver partecipato, cinque anni fa, a una manifestazione diretta a ottenere lo sbarco di un gruppo di migranti trattenuti da giorni sulla nave Diciotti in condizioni igieniche e sanitarie precarie, non si placa. Anzi, si fa ogni giorno più aspra. Per questo, pur avendone già detto su queste pagine (https://volerelaluna.it/controcanto/2023/10/06/toghe-rosse-e-calzini-azzurri/), è bene tornarci su.
All’inizio, la presidente del Consiglio, il ministro Salvini e altri esponenti del Governo e delle maggioranza si erano limitati a contestare, in ragione della partecipazione alla manifestazione, il decreto, emesso dalla dottoressa Apostolico, di mancata convalida del trattenimento di tre migranti nel centro per richiedenti asilo di Pozzallo. Ma presto hanno alzato il tiro spingendosi a chiederne le dimissioni o l’allontanamento dalla magistratura e contestando finanche il ritardo del vicepresidente del Consiglio Superiore (di estrazione leghista) nell’attuare i desiderata dei propri danti causa. La ragione? È presto detto: essere stata presente alla già ricordata manifestazione ed essersi unita al coro “Siamo tutti antifascisti”, ritmato dai presenti con battiti di mani (sic!). Contemporaneamente è iniziata una caccia all’uomo (o alla donna) per individuare altri giudici “complici” delle Ong e magari anche degli scafisti.
Inutile usare perifrasi: siamo in piena tradizione fascista, dove la variante è solo, per ora, la sostituzione dell’olio di ricino e della violenza fisica con la campagna mediatica delegittimante e l’insulto protratto (propiziati dalla predisposizione di dossier tipica di ogni regime autoritario). Del resto, il partito della premier non ha mai fatto mistero della sua continuità con la cultura e le politiche del fascismo e l’alleato leghista ha anticipato i suoi metodi fin dai primi passi, quando l’allora segretario Bossi discettava sul «costo delle pallottole» per i giudici sgraditi e l’ideologo Gianfranco Miglio proclamava che «è sbagliato dire che una Costituzione deve essere voluta da tutto il popolo. Una Costituzione è un patto che i vincitori impongono ai vinti. Qual’è il mio sogno? Lega e Forza Italia raggiungono la metà più uno. Metà degli italiani fanno la Costituzione anche per l’altra metà. Poi si tratta di mantenere l’ordine nelle piazze». Nessuna sorpresa, dunque, se non per la perdurante minimizzazione da parte dell’establishment, che, incomprensibilmente, persiste nell’invito ad “essere prudenti” e a non gridare «al lupo, al lupo», asseritamente senza ragione.
Ma non ci sono solo il radicarsi del fascismo e la sua sottovalutazione. Ad essi si accompagna una regressione culturale fonte della interiorizzazione, anche a sinistra, di modelli propri della destra (della serie «non possiamo permetterci di lasciare il fascismo ai fascisti», oggetto dell’amara satira di Maurizio Crozza). Lo dimostra, in modo scolastico, proprio la vicenda catanese. La “difesa” della giudice Apostolico e dei suoi colleghi sottoposti a linciaggio mediatico è, da parte della sinistra, ferma ed esplicita (senza eccezioni, ché considerare i dissenzienti Renzi e Italia Viva parte della sinistra è, ormai, operazione preclusa anche agli acrobati più spericolati). Ma in questa difesa si insinua spesso un passaggio ambiguo e, in prospettiva, pericoloso e potenzialmente idoneo a scardinare l’assetto democratico e costituzionale della magistratura. Mi riferisco alla diffusa affermazione secondo cui gli attacchi e gli insulti della destra sono inaccettabili ma, per parte loro, la dottoressa Apostolico e i suoi colleghi avrebbero fatto – e farebbero – meglio a starsene a casa invece di andare a manifestare o di esporsi in occasioni pubbliche. Ancora una volta «sì, però…». Non è così e, anzi, questa posizione cerchiobottista va respinta con fermezza, anche se, grazie a decenni di martellamento mediatico, ha fatto breccia in molti.
Conviene andare con ordine. La partecipazione alla vita pubblica con interventi, dichiarazioni, presenza in dibattiti o manifestazioni e via elencando – si dice – ha trasformato l’immagine dei magistrati, rendendoli, agli occhi dei cittadini, uomini o donne “di parte”. E ciò è inaccettabile perché l’imparzialità è la cifra irrinunciabile del giudice. La suggestione è forte ma infondata. Per una pluralità di ragioni.
C’è, anzitutto, un dato non esorcizzabile. Non esiste – non può esistere, guai se esistesse – un giudice senza idee. Ci sono, invece, giudici tra loro diversi: per credo religioso, cultura, frequentazioni, estrazione sociale, censo, sesso (con le diverse sensibilità che il genere porta con sé), abitudini, colore della pelle e via seguitando… Ciò incide, inevitabilmente, sul loro approccio professionale e anche sulle loro (legittime) scelte interpretative: è così da sempre e in ogni parte del mondo ma ciò, di per sé, non ne intacca l’imparzialità, che non è indifferenza o neutralità culturale bensì estraneità agli interessi in conflitto ed equidistanza dalle parti in causa. Ma – si continua – non basta essere imparziali, occorre anche apparire tali; una cosa è avere delle idee, altro è manifestarle pubblicamente; quel che è visibile in sé (il sesso, il colore della pelle, le abitudini più naturali di vita…) passi, ma le convinzioni occultabili sarebbe bene occultarle. Perché, altrimenti, un imputato, una parte offesa, l’attore o il convenuto di una causa civile potrebbe vedere il giudice come un proprio “avversario politico”. Può darsi che, in alcuni casi limite (peraltro assai rari e spesso montati ad arte), ciò accada, ma qual è l’alternativa? L’isolamento, il silenzio e la chiusura dei magistrati in una sorta di clausura? Se così fosse, essi, però, non dovrebbero partecipare a funzioni religiose (perché, altrimenti gli atei li vedrebbero come avversari), né impegnarsi in attività solidaristiche (ché non è dato vedere la differenza tra collaborare con la San Vincenzo o il Banco alimentare e sostenere Ong che si occupano di migranti), né acquistare quotidiani o riviste (che ne svelano le simpatie politiche e culturali) e neppure partecipare a manifestazioni o forme di impegno civile (per esempio contro le mafie o contro la violenza di genere o contro le morti sul lavoro) o finanche assistere in modo partecipe a udienze pubbliche papali (spesso ricche di giudizi di valore assai impegnativi) e magari anche a eventi sportivi. Difficile pensare che ciò contribuirebbe a rendere la magistratura più indipendente, adeguata al suo ruolo e credibile agli occhi della generalità dei cittadini.
Ma c’è di più. Sino agli anni Settanta, quando ebbe inizio la deprecata esposizione mediatica di alcuni magistrati, infatti, giudici e pubblici ministeri erano prevalentemente – e non a torto – visti come i tutori acritici di una società ingiusta e disuguale: una parte (forse prevalente) del Paese li viveva come ostili, anche se – essendo la parte meno uguale della società – questa frattura non trovava audience sulla grande stampa e nel dibattito pubblico, ma solo in ambiti politici di opposizione e nelle parole di alcuni artisti capaci di dar voce a diffusi sentimenti popolari (come non ricordare canzoni di Fabrizio de André come “Il gorilla” o pagine indimenticabili come quelle del racconto di Italo Calvino sul disprezzo – ricambiato – del giudice Onofrio Clerici per i suoi quotidiani “clienti”?). Così, con maggiore fondamento di quanto faccia oggi il pensiero dominante, è lecito chiedersi come potessero i meno protetti avere fiducia in quei magistrati. E non si può ignorare che sono state proprio alcune prese di posizione pubbliche e presenze nel corpo sociale di magistrati ad avvicinare alla giustizia settori tradizionalmente ad essa ostili, contribuendo a un rapporto diverso – di fiducia (seppur non incondizionata) anziché di contrapposizione – tra ampie fasce di popolazione e i loro giudici.
Eppure il pensiero dominante (che rischia di diventare unico) non demorde e prosegue affermando che tra le cause principali della caduta di credibilità della giustizia ci sono l’esposizione mediatica e la politicizzazione (chissà perché associate) di giudici e pubblici ministeri. Come tutti i luoghi comuni, anche questo viene ripetuto ossessivamente da improbabili maitres à penser, accompagnato dall’evocazione di un’epoca felice, di una sorta di paradiso terrestre perduto in cui i magistrati erano riservati e apolitici e, per questo, autorevoli e circondati da generale consenso. Le cose ‒ superfluo dirlo ‒ non stanno così. Nel “bel tempo antico” dell’epoca liberale la magistratura era un’articolazione della classe politica di governo tout court: la maggior parte degli alti magistrati era di nomina governativa e spesso di estrazione direttamente politica con frequenti passaggi dall’ordine giudiziario al Parlamento e al Governo, al punto che, fra il 1861 e il 1900, metà dei ministri della giustizia e dei relativi sottosegretari proveniva dai ranghi della magistratura. La situazione restò inalterata nel ventennio fascista (con l’8 per cento dei senatori reclutato tra i magistrati), allorché la commistione tra magistratura e regime fu pressoché totale: per obbligo di iscrizione al partito e per spontaneo adeguamento, tanto da consentire al guardasigilli Alfredo Rocco di affermare, già nel 1929, che «lo spirito del Fascismo [era] entrato nella magistratura più rapidamente che in ogni altra categoria di funzionari e di professionisti». Evidente il contrasto di tale rilievo con la solenne affermazione dello stesso ministro secondo cui la magistratura «non deve far politica di nessun genere; non vogliamo che faccia politica governativa o fascista, ma esigiamo fermamente che non faccia politica antigovernativa o antifascista», affermazione, peraltro, foriera di cerimonie in cui i più alti magistrati del regno – come ricordato da Piero Calamandrei – si radunavano in divisa a palazzo Venezia, compiacendosi di fronte al riconoscimento del ministro di avere finanche superato «i limiti formali della norma giuridica» per «obbedire», quando si era trattato di difendere i valori della Rivoluzione, «allo spirito e alla sostanza rinnovatrice della legge», applaudendo ripetutamente le parole del duce e lasciando quindi la sala al canto di inni della Rivoluzione… Se non la ragione, almeno uno sguardo a una storia neppur troppo lontana dovrebbe fare giustizia di slogan e luoghi comuni. Ma tant’è!