Extra-profitti delle banche: la tassa non è per i poveri

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Lo scorso 7 agosto, con una norma infilata nel cosiddetto “decreto omnibus”, il Governo ha deciso a sorpresa di istituire una tassa straordinaria sugli extra-profitti delle banche. La misura, secondo Matteo Salvini, dovrà servire a reperire risorse aggiuntive per far fronte al caro-mutui, per «abbassare le tasse» e per tagliare, ancora, il cuneo fiscale. Introiti attesi? Forse «alcuni miliardi», è stata la conclusione laconica del ministro. Si vedrà.

Intanto, il primo effetto della decisione è stato il crollo in borsa dei titoli bancari (bruciati 9 miliardi di capitalizzazioni). I mercati hanno detto la loro: in Italia come in Europa, perché si teme che dopo Madrid e Roma, anche altri Paesi possano mettere nel mirino i lauti guadagni degli istituti di credito. Non tutti nelle crisi ci perdono. L’inflazione che attacca il potere d’acquisto dei ceti popolari è la stessa che fa ricchi i soci delle banche (come guerra e speculazione hanno fatto il bene delle compagnie energetiche), complice la politica monetaria della Bce (i recenti fallimenti di alcuni istituti americani, tuttavia, dicono che la politica dei tassi alti può anche nuocere ai bilanci delle banche, dal momento che ne risente il valore delle obbligazioni che le stesse banche hanno in pancia).

L’aliquota, fissata al 40%, verrebbe applicata al cosiddetto «margine di interesse» delle banche, «escluse le società di gestione dei fondi comuni e le società di intermediazione mobiliare», se questo, nel 2022, ha ecceduto del 5% quello dell’anno precedente e nel 2023 è stato maggiore del 10% rispetto al 2021. Il «margine di interesse», ad ogni buon conto, è la differenza tra gli interessi passivi e quelli attivi di una banca, ergo tra quanto costa il denaro alla banca e quanto costano i prestiti a cittadini e imprese.

Grazie alla stretta monetaria (rialzo dei tassi), le banche hanno visto lievitare di molto i loro profitti negli ultimi due anni. Si stima che le prime cinque banche italiane, nel primo trimestre di quest’anno, abbiano visto crescere del 57,6% il proprio «margine di interesse». Hanno fatto meglio delle altre banche europee, perché i loro attivi sono maggiormente agganciati a tassi variabili, quindi immediatamente influenzabili dalle scelte di Francoforte (rate aumentate del 63% da inizio 2022). In valore assoluto, i numeri rendono ancora meglio l’idea. Nel 2020 il margine di interesse aggregato delle cinque più grandi banche del Paese (Intesa, Unicredit, Banco Bpm, Bper e Mps) è stato di 38,74 miliardi. Nei primi sei mesi di quest’anno le stesse banche hanno già totalizzato 40 miliardi. La sola Intesa San Paolo, da gennaio ad oggi, ha fatto registrare un aumento degli utili dell’80%, con dividendi per gli azionisti pari a 3 miliardi di euro.

Applicando l’aliquota del 40% al «margine di interesse» dei primi sei mesi dell’anno, secondo alcuni analisti lo stato incasserebbe non meno di due miliardi e mezzo di euro. Ma non è affatto scontato. Bisognerà innanzitutto attendere la versione finale della norma (e i criteri applicativi), confidando nella fermezza del Governo nel voler perseguire fino in fondo i suoi obiettivi (le marce indietro sono una costante del Governo Meloni). Finora, l’unica certezza è che sono bastati i tonfi in borsa delle principali banche del Paese e un duro ammonimento di JP Morgan («Italia sotto osservazione dopo il provvedimento del Governo sulle banche») a far fare all’esecutivo un primo passo indietro sulle soglie di profitto oltre le quali scatterebbe il prelievo straordinario (dal 3 al 5% quella del 2022, dal 6 al 10% quella del 2023).

Ma è l’utilizzo che si dovrebbe fare di questi soldi che lascia maggiormente perplessi (c’è da considerare comunque che il prelievo è una tantum). Vada per l’aiuto a chi ha fatto il mutuo per la prima casa, ma se tra gli obiettivi c’è anche quello di «abbassare le tasse» a chi può pagarle (per i ceti meno abbienti il problema non è la tassa sul reddito ma il reddito stesso, che non c’è o è insufficiente), oppure quello di porre a carico del bilancio dello stato gli aumenti salariali che dovrebbero discendere invece dalla contrattazione (il sempreverde «taglio del cuneo fiscale»), la manovra rischia di tradursi in un trasferimento di risorse da un capo all’altro dello stesso segmento medio-alto della società. Un altro regalo a chi sta sopra, insomma, dopo la cancellazione del reddito di cittadinanza per 160 mila famiglie (altre 90 mila da qui a dicembre).

Un curioso paradosso: l’unico, tra i banchieri, a mostrare comprensione per la scelta del Governo è stato Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa San Paolo, che però ha ammonito: «I proventi vengano utilizzati per far fronte all’emergenza sociale del Paese, quella della crescita delle disuguaglianze, con misure per chi si trova in maggiore difficoltà». Ma non è difficile scavalcare a sinistra Salvini e i suoi amici del Governo.

Gli autori

Luigi Pandolfi

Luigi Pandolfi, laureato in scienze politiche, giornalista pubblicista, scrive di politica ed economia su vari giornali, riviste e web magazine, tra cui "Il Manifesto", "Micromega", "Economia e Politica". Tra i suoi libri più recenti: "Metamorfosi del denaro" (manifestolibri, 2020).

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