È successo ciò che nessuno si aspettava: la destra non ha vinto. O la sinistra non ha perso. I sondaggisti davano i Popolari in netto vantaggio. La somma delle destre sembrava a un passo dalla maggioranza assoluta. E la maggioranza assoluta era il traguardo minimo, perché si sapeva che nessun altro partito avrebbe dato loro i voti mancanti per conquistare il governo. La partita sembrava fatta, specialmente dopo il dibattito tra i candidati, due settimane prima del voto. Lo sfidante era riuscito a mettere alle corde il Presidente in carica, il quale, dal canto suo, non aveva fatto altro che protestare insoddisfatto: «non è vero, non è vero», diceva, senza trovare l’affondo necessario a smontare le provocazioni dell’avversario, il suo tono acre, irritato. Agli occhi dello spettatore era apparso un quadro di malgoverno, di lassismo, di capitolazione alle richieste dei perfidi alleati, dipinti come una manica di separatisti, di radicali, di bugiardi, di femministe fanatiche, di ecologisti dogmatici ecc.
Il giorno seguente il verdetto dei commentatori era concorde: il dibattito sarebbe stato il punto di svolta della campagna elettorale. L’audience televisiva era stata superiore a ogni precedente occasione e l’eco mediatica della sconfitta, amplificata ad arte, avrebbe dato il colpo di grazia all’incerta rimonta socialista. Difatti, appariva probabile che sarebbero stati in molti gli elettori che quella sera avrebbero modificato il loro voto: in termini sportivi, ci si mette sempre dalla parte del vincitore. Inoltre, la deludente prestazione di Sanchez avrebbe spinto all’astensione un’ulteriore fetta della sinistra. Secondo le stime degli specialisti, tra una cosa e l’altra, si parlava di circa il 5-6% dell’elettorato.
Poi le cose sono andate diversamente. Una delle virtù impareggiabili del rito elettorale è proprio quella di mettere alla prova le valutazioni impressionistiche. Perché sull’ostentata sicurezza dei popolari si aggirava un’ombra di incertezza. Il quadro di malcontento e indignazione che compariva in ogni messaggio del candidato si discostava troppo dal clima generale vissuto nelle piazze e nelle case di un paese in cui le cose, tutto sommato, non stanno andando del tutto male, per molti, nonostante la pandemia, la guerra, l’inflazione ecc. Inoltre, siamo sicuri che gli elettori vogliano mettersi sempre dalla parte del vincitore? Molte altre motivazioni diverse possono intervenire e modificare la risposta. Paradossalmente, alcune sconfitte possono tornare più utili agli sconfitti che ai vincitori.
L’eccesso di fiducia non è stato l’unico limite della campagna dei popolari. Il momento di frenesia nell’imminenza della vittoria potrebbe essere interpretato come espressione di un modo di fare diffuso – un atteggiamento, un linguaggio, una strategia, un insieme di luoghi comuni… – che viene da lontano e ha la capacità di sollevare gli animi di una buona parte del Paese, ma che finisce anche per scatenare l’insofferenza di larghe fasce della popolazione. La spavalderia, l’atteggiamento arrogante di quelli che pensano che finalmente sia arrivata l’ora di mettere le cose a posto, di restituire il governo della nazione a coloro ai quali appartiene per natura, ha scatenato ancora una volta la risposta infastidita degli avversari. I quali, senza troppo rumore, sono andati a votare. Non tantissimi: 2 o 3 punti percentuali. Quanto bastava. Per i fedelissimi della destra, l’adesione e, anzi, l’esibizione di un certo codice comunicativo – un linguaggio, un’estetica, un gesto – rappresenta un segno di riconoscimento di cui andare fieri. Alla lunga, però, si trasforma in un ostacolo che appanna il giudizio e impedisce di interpretare gli umori degli altri in modo preciso. Il paradosso è questo: proprio ciò che consente alla destra di serrare le fila, fa crescere anche il suo antidoto. In questo caso, l’intensità del contraccolpo è stata tale da capovolgere i pronostici della vigilia. Non per il carisma di Sanchez o la solidità del suo programma. Non per paura di VOX. Ma perché la destra spagnola, la destra profonda, funziona così. E provoca queste reazioni.
Nella prospettiva del poi, non mi sembra stravagante sostenere che, nonostante i pronostici, la sorpresa ci stava. La destra aveva forzato troppo la mano sulla sua ben nota capacità di manovrare l’agenda pubblica. Forse per eccesso di ambizione, ciò che era una risorsa si è trasformato in un vizio. Per saturazione, le mezze verità, le forzature, le strumentalizzazioni che solitamente occupano il dibattito pubblico spagnolo, sempre sbilanciato a destra, questa volta sono state punite.
E così si arriva al giorno dopo le elezioni. Sappiamo com’è andata: una sconfitta che vale una vittoria, e viceversa. La ripresa del rumore mediatico è stata immediata. Tra le diverse partite in gioco, il panorama resta ancora condizionato dalla presenza di VOX, che continua a giocare a favore della sinistra. I popolari non si potranno mai permettere di rinunciare a VOX: altro che patto ad excludendum! Gli elettori popolari, presuntamente moderati, non glielo consentirebbero mai. Essi desiderano l’unità di tutte – ma proprio tutte – le destre, come sempre è stato nella storia quasi trentennale del Partito popolare. Ma la presenza di VOX allontana ogni alternativa alla coalizione di sinistra: le minoranze basche e catalane non accetterebbero mai un patto di governo che includesse l’appoggio anche esterno della destra estrema. Con la sua quota di visibilità e di potere istituzionale. Certamente, nemmeno per i socialisti sarà facile mettere insieme una maggioranza di governo. Ma una (prima) cosa è certa: il messaggio del cambiamento, la promessa di inaugurare un ciclo politico dedicato allo smantellamento delle politiche progressiste – il superamento del “sanchismo”, come si è detto in campagna elettorale –, l’aspettativa di tornare a un ordine delle cose nazionalista e centralista, rimarrà disattesa. Le destre hanno vinto le elezioni, ma hanno fallito. Non andranno al governo.
Una seconda circostanza da tenere presente riguarda la polarizzazione del Paese e il ruolo delle due destre. Si è parlato in questi giorni, alla luce della situazione italiana, del passo indietro – addirittura, il crollo! – dell’estrema destra. Prima di affrettarsi a stabilire analogie incerte, sarebbe necessario ricostruire le specifiche linee di frattura della polarizzazione politica spagnola. Perché (anche) la Spagna è oggi un paese profondamente diviso geograficamente e ideologicamente, ma non è diviso a metà, in due parti simmetriche. A destra, la capitale e un vastissimo potere diffuso nelle regioni centrali, alcune regioni del nord e, ormai da qualche anno, anche del sud, fino al punto che i Popolari sono il partito più votato in 40 provincie su 57. A sinistra, le fasce colte dell’elettorato urbano e le regioni con maggiori spinte centrifughe. Troppo poco per resistere alla spinta di destra se non fosse perché le due realtà nazionali basca e catalana hanno creato il collante indispensabile per costruire un efficace muro di contenimento. Altrimenti, le destre avrebbero sfondato. Un punto decisivo, in prospettiva, è che la somma dei Popolari con VOX continua ad assestarsi al di sopra degli 11 milioni di elettori. Se si fossero presentati insieme alle elezioni avrebbero ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi. Il premio per una riconciliazione delle due anime di destra è molto alto.
Un ultimo punto di analisi riguarda la posizione relativa delle due parti e quindi, di nuovo, le caratteristiche locali della destra nuova e vecchia, e della sinistra che arranca. La novità, in questa ultima tornata elettorale, e da qualche tempo, sta nel fatto che la linea che in passato divideva i due campi opposti non si trova più al centro, ma si è spostata a destra. Egli ben volentieri si illude, ma il fatto è che oggi l’elettore mediano spagnolo si riconosce in coordinate ideologiche che sono assai lontane dalla tradizione liberale e democratica. In Spagna, come si sa, la questione è aggravata dall’eredità storica del franchismo, mai completamente elaborata. Ciò spiega, almeno in parte, il ruolo apparentemente periferico ma determinante assunto da VOX in questi anni e la somiglianza di famiglia con il nucleo portante dell’elettorato popolare, amalgamata da una sconclusionata identità populista. Che, tuttavia, anche quando perdono le elezioni, continua a funzionare. Non c’è alcun dubbio che l’agenda politica dei popolari, se dovessero arrivare al governo, sarebbe indistinguibile da quella della nuova destra internazionale, magari strumentalmente nascosta (anche qui) da una facciata soft: sul piano sociale, la denigrazione di qualsiasi politica volta a produrre cambiamenti strutturali in senso egualitario, nel nome di un (irresponsabile) taglio alle tasse; sul piano economico, la resa incondizionata al modello di uno stato che si adopera a ogni livello nella difesa dei grandi gruppi di interesse, ossia uno stato che sia debole coi forti e forte coi deboli; e sul piano strettamente politico, una strategia di polarizzazione permanente, che non perda occasione – reale o presunta – per demonizzare l’avversario, perché la costruzione di un capro espiatorio è sempre il meccanismo più efficace per alleviare il risentimento.
Intanto, il futuro è già cominciato. “No pasarán” gridavano in strada i (pochi) militanti socialisti davanti alla sede del partito la sera dello scrutinio. “La Spagna precipita nel baratro dell’ingovernabilità”, titolavano i giornali di destra il giorno dopo. Sembrerebbe semplice restituire al mittente, specialmente dopo quanto è successo, il rigurgito allarmista e destabilizzatore. Ma non lo è. L’insofferenza della parte progressista, democratica e antiautoritaria, fa presto a dileguarsi. Anche stavolta sarà così. Lavora sottotraccia. In questi anni ha sofferto parecchio per l’epidemia dell’altro populismo, quello di sinistra, che oggi ormai ha fatto i conti con il principio di realtà. Le destre, invece, rimangono sempre in prima linea. Il loro sogno sarebbe quello di riportare la nazione al luogo originario da cui non avrebbe mai dovuto allontanarsi. Espellere i corpi estranei e riprodurre l’unità, l’afflato indelebilmente impresso nella legge, di cui loro credono essere i sacri custodi. Ecco perché la destra spagnola, nuova o vecchia che sia, non riesce mai a capacitarsi di aver perso, e poi si rivela implacabile quando vince. La previsione, a questo punto, è che il confronto politico torni nei prossimi mesi ad attestarsi sui livelli consueti di litigiosità. Oltre alla competizione elettorale, una guerra culturale è in corso e non sono previste grandi variazioni sul fronte di battaglia.
Purtroppo in Spagna la sinistra è nei guai: se cerca di fare un governo con una maggioranza risicata e rissosa, nella quale sono determinanti gli indipendentisti catalani, si troverà o a fare concessioni che gli spagnoli non catalani vedono come il fumo negli occhi, oppure a cadere dopo poco; se rifiuta id fare il governo e si torna alle elezioni non c’è garanzia che la gente visti i fatti le volti le spalle. Stanno come stava Prodi con Mastella e Bertinotti, se non peggio.