L’ultimo capitolo della storia del rapporto tra politica (o meglio: Governo) e magistratura prorompe da un caso specifico. Se volessimo attestarci sul lessico enfatico dei media, potremmo chiamarlo “affaire Delmastro”: un giudice di Roma ordina al pubblico ministero di quella città di formulare l’imputazione coatta nei confronti (nientemeno!) del Sottosegretario alla Giustizia. A ben vedere, tuttavia, non c’è alcun caso. Per chiarirlo, vale la pena di provare a scomporre i fatti, metterli in fila, tentare l’anatomia di uno scandalo che, all’esito dell’analisi, si potrà riscontrare non essere tale. Chinare la testa sul caso concreto costituisce l’unico criterio proficuo per affrontare il dibattito suscitato dalle decisioni giudiziarie. La critica ai provvedimenti dei magistrati, che provenga dalla politica, dall’opinione pubblica o dall’interno della magistratura, non soltanto è legittima – il potere giudiziario non è sottratto al controllo democratico –, ma è addirittura il lievito dell’indipendenza della magistratura, un incentivo all’esercizio trasparente della funzione giudiziaria, un momento prezioso nella continua tessitura dei legami di fiducia tra giudici e società. Tutto questo a condizione che si affronti il merito delle questioni, senza strumentalizzare le vicende in uno scontro tra fazioni opposte, entrambe pericolose per la democrazia: da un lato chi è insofferente all’indipendenza della magistratura e al controllo di legalità, dall’altro chi attribuisce ai magistrati una missione salvifica da compiere anche a costo di sacrificare le garanzie. Proviamo, dunque, a cimentarci con la concretezza del fatto.
1.
Il 31 gennaio 2023, nel corso di dichiarazioni alla Camera, il vicepresidente del Copasir, Giovanni Donzelli, diffonde il contenuto di una relazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sulle conversazioni tenute in carcere dall’anarchico Alfredo Cospito, sottoposto al regime di cui all’art. 41-bis, con altri detenuti sottoposti a quel regime. Sostiene di aver ricevuto le informazioni direttamente dal sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro. La Procura di Roma, a seguito di un esposto di alcuni parlamentari, ipotizza la possibile commissione del reato di rivelazione di segreto d’ufficio e apre un’indagine a carico del Sottosegretario. La conclusione è una richiesta di archiviazione. Da una nota della Procura di Roma, in data 22 maggio 2023, capiamo che «la richiesta di archiviazione riconosce l’esistenza oggettiva della violazione del segreto amministrativo» e, tuttavia, esclude ogni dolo. In quella stessa occasione apprendiamo che il Gip del Tribunale di Roma ha fissato udienza per decidere se accogliere o meno la richiesta. La fine è nota. Va raccontata con le parole dell’Ansa, 6 luglio 2023, ore 18.42: «Imputazione coatta per il sottosegretario alla Giustizia Andrea Dalmastro […]. È quanto ha deciso il Gip di Roma che non ha accolto la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura, che ora dovrà formulare una richiesta di rinvio a giudizio». Apriti cielo.
A fronte di equilibrate dichiarazioni dello stesso Delmastro, Palazzo Chigi lascia filtrare una nota informale nella quale mette nero su bianco che «non è consueto che la parte pubblica chieda l’archiviazione» e il giudice «imponga che si avvii il giudizio». Nella nota la vicenda Delmastro viene accostata a quella della Ministra Santanché (che avrebbe appreso dai giornali di essere indagata proprio il giorno dell’informativa in Parlamento) e la conclusione è tranchant: «È lecito domandarsi se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione. E abbia deciso così di inaugurare anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee». Con altrettanta tempestività, fonti del Ministero della Giustizia aggiungono che «l’imputazione coatta è irragionevole», che il pubblico ministero «non può essere smentito da un giudice sulla base di elementi cui l’accusatore stesso non crede» e si affrettano a promettere l’inserimento della proposta di abolizione delle norme che consentono tale scempio nel c.d. “pacchetto Nordio”. Immediata la reazione dell’Anm: «Il Governo rispetti le prerogative dei magistrati».
2.
Una riflessione più pacata consente di verificare come la decisione del Giudice per le indagini preliminari di Roma di addivenire alla c.d. “imputazione coatta” (vedremo tra poco di cosa si tratta) è stata adottata nell’ambito di un fondamentale meccanismo di protezione del principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale: si chiama “controllo del giudice sull’inazione del pubblico ministero”. Per capire meglio – afferrare che non si tratta di fumisterie ideologiche – occorre chiarire alcune premesse e uscire dalle tecnicalità del linguaggio giuridico.
Esercitare l’azione penale significa chiedere di svolgere un processo per accertare il dovere del giudice di punire colui che risulti aver commesso un reato, vale a dire un fatto per il quale le norme di legge comminano una pena. Nel nostro Paese, come in tutti quelli in cui vige il sistema accusatorio, a chiedere che si proceda a un giudizio penale non può essere lo stesso magistrato che andrà a giudicare – accadeva nei sistemi inquisitori, privi di garanzia in ordine all’assenza di pregiudizi del giudice onniscente: ricerca le prove, chiede il giudizio, condanna –, ma unicamente il diverso magistrato del pubblico ministero, monopolista dell’azione penale. Sulla base dell’art. 112 della Costituzione, inoltre, «il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale».
Mettiamo ordine nelle sequenze procedimentali: per definire un’azione umana in termini di reato è necessario che ci sia una legge del Parlamento che in conseguenza di quella azione preveda una pena; ogni qual volta il pubblico ministero, all’esito di indagini, ravvisi la probabile commissione di un reato ad opera di taluno, deve esercitare l’azione penale, dunque chiedere a un giudice che si apra un processo per verificare la tesi accusatoria; diversamente, se già il requirente si convince dell’inesistenza del reato nel caso concreto, chiederà l’archiviazione; soltanto all’esito della condanna definitiva (non basta il rinvio a giudizio, neppure una misura cautelare e, ancora, non è sufficiente una sentenza di primo grado o di appello oggetto di impugnazione) ci potrà essere un autore di reato: fino ad allora, sempre per Costituzione, si è presunti innocenti (art. 27 Costituzione).
Perché, in questo delicato sistema di garanzie, i costituenti hanno sancito che il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale? Perché non è stata prevista una semplice discrezionalità? L’evidenza logica della risposta non toglie nulla alla sua importanza in termini di garanzie: se i comportamenti di reato sono stabiliti da leggi valide per tutti, dinanzi alle quali tutti sono uguali, allora non è tollerabile che le procure possano scegliere di procedere nei confronti di alcuni e non di altri. Discrezionalità dell’azione penale – solo entro certi limiti sopportata dal nostro ordinamento, a causa dei grandi numeri e della conseguente impossibilità di gestire in tempo utile tutte le notizie di reato – significherebbe affidare al pubblico ministero la decisione sul se procedere, offrendogli la possibilità di farlo soltanto nei confronti del “brigante” e non del “galantuomo”, del migrante e non del cittadino, del socialmente marginale e non del titolare di pubblici poteri, del povero e non del ricco (si potrebbe aggiungere un “e viceversa”, se non fosse che i Robin Hood sono statisticamente minoritari!). L’obbligatorietà dell’azione penale, dunque, traduce a livello processuale il principio sostanziale di uguaglianza di tutte le persone davanti alla legge.
Non è sufficiente, tuttavia, sancire un principio per farlo esistere, neppure metterlo nero su bianco nella Costituzione. Come ha scritto Franco Cordero, “non basta dirlo: se tutto finisse lì, sarebbe puro eufemismo”. Per questo motivo, il nostro sistema processuale si è posto un ulteriore problema. Cosa succede se il pubblico ministero, convinto che una persona abbia commesso un reato, decidesse di non agire, violando l’obbligo? Ecco scattare i meccanismi protettivi di cui sopra, vale a dire il controllo di un giudice terzo sulla decisione del requirente di non procedere. Quando il pubblico ministero scelga di non domandare l’apertura di un processo per verificare l’imputazione – l’enunciato che attribuisce a una specifica persona un determinato fatto di reato –, deve chiedere al giudice di essere esonerato dall’obbligo, formulando la c.d. richiesta di archiviazione. Su questa domanda il giudice può decidere conformemente, disponendo l’archiviazione, oppure dissentire. In tale evenienza avrà a disposizione due alternative: ordinare al pubblico di indagare ancora e di riconsiderare la decisione all’esito del supplemento investigativo o, qualora ritenga che gli elementi di prova siano sufficienti per chiedere un giudizio, disporre che il pubblico ministero proceda a formulare l’imputazione. È la c.d. imputazione coatta di cui si è discusso in questi giorni. Il Gip di Roma non ha condiviso la scelta del pubblico ministero di archiviare l’ipotesi di rivelazione di segreto d’ufficio a carico del sottosegretario Delmastro e ha ordinato di chiedere il giudizio.
3.
La vicenda Delmastro, debitamente inquadrata nelle norme che la disciplinano, può essere affrontata con maggior chiarezza. In primo luogo, la decisione adottata dal giudice, come visto, rientra nelle opportune possibilità di sindacato che il giudice terzo esercita sull’inazione del pubblico ministero, al fine di garantire che la legge sia davvero uguale per tutti: poveri o ricchi, deboli o potenti, sprovvisti di ogni titolo o muniti di cariche pubbliche. Non meno importante è porre l’attenzione sul soggetto cui la legge attribuisce il sindacato: il giudice. Non è sempre stato così: nel codice del Regno d’Italia erano i pubblici ministeri – allora procuratori del Re – a sbarazzarsi delle decisioni di non procedere, gettandole in archivio senza chiedere permessi al giudice. Sarà di nuovo così, dopo una breve parentesi, con il codice Rocco del 1930: i procuratori tornano a essere i padroni della scelta di non agire. Il codice di rito entrato in vigore nel 1989, quello della riforma in senso accusatorio del processo, viceversa, incarica il giudice terzo della decisione di controllo. È un bene: niente accade al buio (ancora Franco Cordero) e, allo stesso tempo, si chiude la strada all’opzione alternativa, ossia che a esercitare il medesimo controllo siano gli organi di vertice delle Procure Generali. Prospettiva rischiosa, quest’ultima: la decisione rimarrebbe nei corridoi degli uffici requirenti, i quali, vedendo aumentata la struttura piramidale, pagherebbero dazio sul versante dell’indipendenza interna. Un’ulteriore conclusione importante vale anche come avviso ai naviganti giustizialisti (diffusi a destra e a sinistra, egemoni sui media e puntualmente dimentichi del principio di non colpevolezza): ordinare di formulare l’imputazione coatta non significa aprire il processo, ma, come detto, disporre che il pubblico ministero chieda un rinvio a giudizio. Si dovrà fare un’udienza preliminare, che potrà anche concludersi con sentenza di non luogo a procedere. Particolare non irrilevante: a sedere, in quell’udienza, non potrà esservi il giudice che ha deciso di imporre l’imputazione coatta.
Esaurita l’analisi, tornano le domande: ordinare l’imputazione coatta è un atto fuori dal sistema? O, viceversa, uno strumento per garantire che la legge valga per i cittadini upper class come per gli underdogs, senza alcuna perdita di garanzie processuali? È possibile fare di una decisione giudiziale l’appiglio per eliminare dall’ordinamento un sistema di difesa di questi principi? Non si chiede molto, ma almeno che si discuta di questo e non di presunte opposizioni politiche.