Il premierato made in Italy: prospettive e problemi

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1.

A poco più di sette mesi dal suo insediamento, Giorgia Meloni iscrive all’ordine del giorno dell’agenda politica la revisione della forma di governo, accelerando su quella che in campagna elettorale è stata presentata come la “riforma presidenziale dello Stato”. Oggi il Governo può (prevedibilmente) contare su ampie convergenze anche al di fuori dei confini della maggioranza, oltre che su un consistente, e forse un po’ allarmante, sostegno diffuso di costituzionalisti e politologi, in buona parte concordi – stando a quanto si è letto e ascoltato nelle ultime settimane – sulla ratio complessiva degli interventi da intraprendere.
Converrà, dunque, partire dalle ragioni e dagli obiettivi di fondo – quelli dichiarati e quelli non espressi – della riforma. Nel programma che Fratelli d’Italia ha presentato per le elezioni politiche del 25 settembre 2022, alla voce “Presidenzialismo, stabilità di governo e Stato efficiente”, la riforma presidenziale dello Stato, finalizzata ad «assicurare la stabilità governativa ed un rapporto diretto tra cittadini e chi guida il Governo», è presentata come rimedio alla «instabilità che ci indebolisce nei rapporti internazionali e che penalizza gli italiani, perché governi che durano così poco non hanno una visione di lungo periodo, ma cercano solo il facile consenso nell’immediato». L’obiettivo dichiarato è quello di «chiudere una fase storica sciagurata: quella che in dieci anni ha visto nascere ben sette governi figli di giochi di palazzo fatti sulla testa degli italiani». Stabilità dei governi, dunque, e saldatura del legame tra il vertice dell’esecutivo e la “volontà popolare” espressa dagli elettori nelle urne. Nel corso del dibattito, mediatico e accademico, delle ultime settimane, in attesa della presentazione di un disegno di legge costituzionale da parte della maggioranza di governo (nel momento in cui si scrive, il solo disegno di legge costituzionale depositato con potenziale incidenza sulla forma di governo dall’inizio della legislatura è quello del senatore del PD Parrini), l’agognato paradigma della stabilità del vertice dell’esecutivo (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/06/29/il-premierato-ovvero-il-fascino-del-capo/) è stato declinato in vari modi. È stato inteso ora come tassello indispensabile al dialogo costante e proficuo con gli omologhi dagli altri Paesi dell’Unione Europea («ce lo chiede l’Europa», insomma), ora come soluzione indispensabile a superare la turbolenza del quadro partitico-parlamentare interno e ad evitare i cosiddetti “ribaltoni” o, ancora e soprattutto, come rimedio funzionale a “restituire lo scettro” al corpo elettorale, in un delicato mix di personalizzazione e presidenzializzazione delle forme istituzionali.
Un’osservazione preliminare può essere svolta a partire dalla ragionevolezza e dalla congruenza di questi obiettivi. Si può essere d’accordo sull’utilità di rafforzare meccanismi e istituti funzionali a garantire continuità all’azione di governo: non necessariamente nel senso della permanenza in carica del suo vertice, ma in quello della più generale stabilità del raccordo tra maggioranza parlamentare ed esecutivo, complessivamente inteso. Ma altre, più pressanti, esigenze andrebbero preliminarmente o contestualmente affrontate. A titolo di esempio: a) la rivitalizzazione di un Parlamento quotidianamente mortificato nella sua effettiva e piena capacità di dibattito e produzione legislativa, b) la ricostruzione di un quadro partitico stabile e impermeabile a fenomeni di “transfughismo” e, soprattutto, c) la riduzione dell’astensionismo diffuso che porta lontano dai seggi proprio quell’elettorato che si vorrebbe dotato di un più immediato potere di investitura. Queste tre esigenze risultano, al momento, fuori dai radar dell’aggregato riformista, offuscate dal reale punto di caduta della riforma: la legittimazione diretta del capo, a tutti i costi… A meno di non voler davvero pensare che l’elezione immediata del vertice dell’esecutivo possa rivitalizzare un elettorato stanco e ondivago. Che cosa sono – d’altra parte – gli sconfortanti tassi di partecipazione al voto registrati in occasione delle ultime elezioni amministrative, se non una plastica rappresentazione di quella illusione?

2.

Si possono fare, al momento, soltanto ipotesi sul perimetro all’interno del quale si muoveranno le proposte di riforma costituzionale. Sembra che siano state scartate le soluzioni più radicali come l’elaborazione di un modello presidenziale o di uno semipresidenziale. La stessa presidente Meloni ha registrato, in coda alla giornata di consultazioni con le forze politiche di opposizione sul tema delle riforme costituzionali (9 maggio 2023), «una chiusura abbastanza trasversale, più netta, su sistemi di modello presidenziale o semipresidenziale».
L’accantonamento delle suggestioni statunitensi e francesi (e un parziale arretramento rispetto a quanto prospettato da Fratelli d’Italia, come si è visto, in campagna elettorale e nella scorsa legislatura), può trovare spiegazioni differenti, che rispondono a diverse sensibilità, per certi versi trasversali agli schieramenti politici. Se ne richiamano quattro, a titolo meramente esemplificativo: a) la necessità strategica di ampliare il consenso (parlamentare, di opinione e “diffuso”) attorno alla riforma; b) una certa consonanza (dichiarata ma non sempre d’intenti) sull’inopportunità di incidere in modo radicale sul ruolo del capo dello Stato; c) la brutta prova che i sistemi ad elezione diretta del presidente della Repubblica hanno dato di sé nel recente passato, in termini di esasperazione di un conflitto politico già molto “spinto” sul terreno della personalizzazione; d) l’intenzione di procedere mediante modifiche che abbiano un impatto modesto – in termini quantitativi – sull’articolato costituzionale (ipotesi che sarebbe incompatibile con l’avvicinamento a Washington o a Parigi), in modo che la riforma si presti ad essere sostenuta (o non osteggiata) anche dai fautori della “semplice manutenzione” costituzionale.
Abbandonate – sempre che tale circostanza venga confermata dai fatti – le più radicali ipotesi presidenziali e semipresidenziali, riecco il “premierato”. O meglio, il cosiddetto “premierato forte”: soluzione già esplorata nel corso della lunga sequenza di tentativi di riforma costituzionale che hanno interessato il nostro Paese e connotata da una certa ambiguità, avendo l’aggettivo “forte” una valenza concreta piuttosto sfuggente (ma anche un potenziale da non sottovalutare in termini comunicativi e promozionali). Ma quali tratti caratterizzano quel modello istituzionale? La formula del premierato esprime ed enfatizza, naturalmente, la centralità del capo del Governo, che acquisisce una preminenza strutturale rispetto agli altri membri dell’esecutivo e che al contempo risulta il principale centro di imputazione dell’azione di indirizzo politico, in virtù di una sua stretta e diretta connessione con il corpo elettorale.
Su questa articolazione di base, tuttavia, si innestano alcune importanti variabili, dipendenti proprio dalla tipologia del raccordo elettore-capo del Governo che si intende instaurare e alimentare. Una prima opzione prevede l’elezione diretta di quest’ultimo: gli elettori trovano sulla scheda il nominativo dei candidati alla guida dell’esecutivo e, votando per uno o per l’altro candidato, sanno che la candidatura che avrà ottenuto il maggior numero di voti sarà quella vincente. Un riferimento, seppur in termini ipotetici, alla «elezione diretta del Presidente del Consiglio, del Capo del Governo» è stata fatta da Giorgia Meloni a margine del già richiamato incontro del 9 maggio. Un meccanismo di questo tipo – inevitabilmente – dovrebbe essere accompagnato dalla previsione di un secondo turno di votazioni, laddove al primo turno nessun candidato o nessuna candidata abbia ottenuto metà più uno dei consensi validamente espressi. Una soluzione alternativa, e apparentemente più sfumata, è quella che prevede l’indicazione del nome del candidato premier sulla scheda elettorale accanto al simbolo e al nome del partito o della coalizione che lo sostiene. In altri termini, se nel primo caso l’elezione del premier trascina il successo del partito (o della coalizione), nel secondo caso il successo del partito (o della coalizione) vincola il procedimento di formazione del governo, imponendo il candidato di quel partito o di quella coalizione come premier in pectore. In entrambe le ipotesi, affinché le urne possano esprimere un risultato certo e per evitare che venga eletto un capo del Governo privo di sostegno parlamentare, sarebbero necessari pesanti correttivi (cioè strumenti di alterazione del voto) in grado di assicurare l’allineamento tra il premier eletto e la “sua” maggioranza parlamentare (nel primo caso) o di garantire (nel secondo caso) che il primo partito o la prima coalizione si configurino come maggioranza stabile ed autosufficiente e non come “maggior minoranza”. L’intera architettura sarebbe permeata, dunque, dalla logica ipermaggioritaria della scelta diretta (primo caso) o condizionante (secondo caso) del capo del governo, rendendo la maggioranza parlamentare una sorta di orpello istituzionale, prevalentemente (se non esclusivamente) funzionale al sostegno del premier scelto dagli elettori.

3.

Ai rischi di forte distorsione del voto prodotta dalla costruzione artificiale e forzata delle maggioranze e a quelli di pesante subordinazione del Parlamento al vertice dell’esecutivo, si possono affiancare ulteriori potenziali storture, che suggeriscono di valutare con estrema prudenza il premierato, indipendentemente da quale delle due “variazioni sul tema” si preferisca.
La prima perplessità riguarda l’indiretto impatto che il modello avrebbe sul ruolo del capo dello Stato. L’elezione diretta (o quasi-diretta) del premier, inevitabilmente, alimenterebbe un dualismo istituzionale piuttosto anomalo, una sorta di semipresidenzialismo atipico, a parti invertite: da un lato il presidente della Repubblica, eletto dal Parlamento e con funzioni di regolazione e di garanzia, dall’altro il capo del Governo, con funzioni di guida politica e forte legittimazione popolare. È difficile pensare che il capo dello Stato, in simili condizioni, possa effettivamente fare ricorso agli strumenti di garanzia e mediazione che gli offre la Costituzione, in ragione dello squilibrio che interesserebbe le due figure in termini di legittimazione (parlamentare per il primo, popolare per il secondo). In altri termini, una soluzione di questo tipo porterebbe ad una marginalizzazione di fatto del presidente della Repubblica, il cui campo di azione effettivo risulterebbe ridotto, con ogni probabilità, al canone simbolico-cerimoniale. Una partita delicata e decisiva, su questo terreno, si giocherebbe sull’attribuzione del potere di scioglimento anticipato delle camere. Qualora venisse affidato al premier, il disequilibrio tra le due figure sarebbe ulteriormente accentuato: tempi e sviluppi della vita politico-istituzionale sarebbero interamente nelle mani del primo ministro.
Quanto alla fiducia parlamentare, nel caso di elezione diretta del premier l’istituto dovrebbe prendere le forme del “simul stabunt, simul cadent”: si tratta della soluzione cosiddetta “neoparlamentare”, utilizzata in Italia a livello regionale e comunale e sperimentata con esiti fallimentari in Israele fra il 1996 e il 2001. Essa prevede che, nel caso in cui una mozione di sfiducia colpisca il premier eletto direttamente, si debba procedere allo scioglimento anticipato dell’assemblea. Si tratta, con tutta evidenza, di un meccanismo volto a blindare la permanenza in carica del capo del governo, che è posto nelle condizioni di ricattare quotidianamente la propria maggioranza. Lo stesso simul simul, laddove (come nella passata esperienza israeliana) non fosse abbinato a una formula elettorale maggioritaria, potrebbe paradossalmente produrre estrema instabilità e – virtualmente – una sequenza incalzante di scioglimenti anticipati, non essendo, in ultima analisi, previste vie di uscita o di mediazione rispetto alla fusione tra volontà del corpo elettorale e scelta della premiership.
Nel caso di elezione diretta del premier, difficilmente applicabile sarebbe la sfiducia costruttiva (l’istituto che impone all’opposizione, nel momento in cui sfiducia il capo del Governo in carica, di individuare e votare un candidato, parlamentare o meno, destinato a sostituirlo): questa soluzione potrebbe essere, teoricamente, compatibile con quella che abbiamo definito elezione condizionante del premier (indicazione dei candidati alla premiership accanto a quelli dei partiti o delle coalizioni). Ma anche nel caso da ultimo ipotizzato potrebbe risultare assai problematico sfiduciare (pur secondo il meccanismo “costruttivo”) un premier legittimato dal voto popolare; premier che, oltretutto, se dotato del potere di scioglimento parlamentare, potrebbe facilmente trovare nelle elezioni anticipate un’alternativa unilaterale alla propria destituzione. La percorribilità e la congruenza di questa seconda strada con l’obiettivo proclamato della stabilità è, insomma, tutta da indagare e non al riparo da controindicazioni.
Il premierato, infine, in entrambe le versioni ipotizzate sin qui, comprimerebbe sino ad annullarla la possibilità di riassetto delle maggioranze fra un’elezione e l’altra. In altri termini: nel precludere i cambi di maggioranza nel corso della legislatura (cambi che – va ricordato – nel bene e nel male fanno parte della fisiologia della forma di governo parlamentare) ingesserebbe gli equilibri istituzionali, “fotografando” la situazione alla chiusura delle urne, rendendo impossibili modulazioni successive. Modulazioni che non necessariamente coincidono con i tanto stigmatizzati “ribaltoni”, ma che possono, per esempio, risultare utili a registrare i cambi di leadership o di equilibri all’interno del partito o delle coalizioni che sostengono il premier in carica. L’investitura diretta e la personalizzazione della contesa elettorale certificherebbero, insomma, la totale estromissione dei partiti dalla dinamica politico-istituzionale.

4.

Qualche considerazione di carattere più generale può completare il quadro. Al di là delle tecnicalità e delle soluzioni offerte dell’ingegneria costituzionale, sono due i principali pericoli che si corrono nell’affrontare le riforme istituzionali.
Il primo è quello di cadere nella tentazione di ricalcare uno o più modelli stranieri, non considerando la loro adeguatezza e congruenza con il contesto nel quale vengono importati. Il secondo, di segno opposto, è quello voler costruire un modello integralmente made in Italy, cioè un’architettura atipica e peculiare, basata su soluzioni e istituti non sufficientemente rodati altrove («c’è anche la possibilità di immaginare un modello che sia italiano», ancora con le parole del presidente Meloni). Nella prima ipotesi il pericolo è quello di un trapianto mal riuscito e di una conseguente disfunzione del modello, nella seconda è quello del “salto nel buio”. Entrambi questi rischi dovrebbero ricordarci come le forme di governo vadano analizzate e valutate non in base alle quello che prevedono le norme scritte (o riscritte) che ne costituiscono lo scheletro, ma piuttosto in base al loro rendimento, cioè agli effetti che quelle norme possono produrre. Tale rendimento è, per certi versi, imponderabile, perché tanti sono i fattori (anche dinamici) che incidono su questi meccanismi… non ultima la trasformazione continua e imprevedibile del sistema partitico. Ma l’esistenza di ampi margini di imprevedibilità non vuol dire che non si possa, comunque, tentare di agire con misura e con cautela, eventualmente procedendo per priorità.
In questa prospettiva, alcuni correttivi orientati a incentivare la stabilità dell’azione di governo senza necessariamente blindare la permanenza in carica del vertice dell’esecutivo potrebbero essere: a) l’elezione parlamentare dello stesso presidente del Consiglio (eventualmente da parte di una sola camera, sul modello del cancellierato tedesco), abbinata a b) un parziale – ma nient’affatto trascurabile – rafforzamento delle sue prerogative (per esempio attribuendogli il potere di nomina e revoca dei ministri e rendendolo un primus super pares) e c) alla sfiducia costruttiva, con il fine di evitare l’apertura di crisi governative al buio. La sfiducia costruttiva rappresenterebbe, peraltro, un importante punto di equilibrio fra il condizionamento che il Parlamento (o una delle sue camere) potrebbero esercitare sul premier in carica e la posizione di forza “relativa” di quest’ultimo, strutturalmente protetto da blitz parlamentari puramente “distruttivi”.
Il potere di scioglimento anticipato, per scongiurare i rischi di eccessiva verticalizzazione, dovrebbe essere lasciato nell’ambito della discrezionalità del capo dello Stato, ma maggiormente disciplinato rispetto all’attuale assetto, per esempio prevedendo che le elezioni anticipate possano essere indette solo in conseguenza del fallimento del meccanismo della sfiducia costruttiva. Qualche garanzia ulteriore, a presidio della continuità dell’azione di governo ma al contempo a tutela delle prerogative e della vitalità parlamentari potrebbe derivare da un intervento sui regolamenti parlamentari, dall’introduzione di tempi (ampi ma) certi per la discussione e deliberazione dei disegni di legge di iniziativa governativa, con la contestuale costruzione di argini alla proliferazione della decretazione d’urgenza. Queste ipotesi di riformismo graduale non sembrano presentare reali controindicazioni, soprattutto se accompagnate da misure che disincentivino la mobilità di senatori e deputati da un gruppo all’altro (in altri termini: il “transfughismo” parlamentare) ed eventualmente da una formula elettorale con soglia di sbarramento in grado di produrre un quadro di multipartitismo temperato, evitando così che formazioni piccole e piccolissime possano capitalizzare la propria presenza in Parlamento e determinare unilateralmente le sorti degli esecutivi.
Sarebbe sufficiente, dunque, intervenire in modo puntuale su pochi e fondamentali meccanismi, senza rincorrere a tutti i costi le suggestioni richiamate dal modello del cosiddetto sindaco d’Italia, del premier “forte”, dell’uomo (o della donna) soli al comando. Si tratterebbe, nel complesso, di stabilizzare il Governo all’interno dell’architettura costituzionale, in una rimodulazione che si dispiegherebbe tutta entro i rapporti fra istituzioni (l’ideale triangolo del potere rappresentato da Parlamento, capo dello Stato e Governo, appunto), senza ricorrere a più dirette (e pericolose) forme di coinvolgimento del corpo elettorale. Su quest’ultimo terreno, in definitiva, prim’ancora che su quello dei minuti tecnicismi, si giocherà – con ogni probabilità – la partita delle riforme istituzionali.

In homepage particolare di Stendardo di Ur, 2500 a.C. Legno intarsiato con lapislazzuli, conchiglie e calcare rosso. Londra, British Museum.

Gli autori

Fabio Longo

Fabio Longo è professore di diritto pubblico comparato presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino.

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