Mentre mi apprestavo a scrivere queste righe è accaduto qualcosa. Avrei dovuto limitarmi a dialogare con gli articoli (penso in particolare a quelli scritti da Revelli, Campetti e Prospero) che mi hanno preceduto e che hanno, tra tanti, anche il pregio di non rimuovere per l’ennesima volta la delusione elettorale della sinistra, rimozione che appare sempre più sospettosamente appartenente a quel concetto freudiano di coazione a ripetere, per cui preferiamo tornare compulsivamente sul luogo del delitto piuttosto che cercare di elaborare il lutto e metterci in moto per andare oltre.
Ma nel frattempo è morto Berlusconi ed è stato proclamato lutto nazionale, che io ho celebrato per l’appunto scrivendo queste righe. Ecco, al di là della risonanza privata della faccenda (risonanza per cui la tristezza è un sentimento necessario), mi pare che si possa utilizzare l’uso pubblico che ne è seguito come una cartina di tornasole per spiegare bene perché la sinistra accumula sconfitte. Cioè per rispondere alla questione fondamentale che quegli articoli ci consegnano. Che mi par essere questa: perché la sinistra scompare nell’epoca del trionfo del capitalismo? Perché è in crisi quando le sue tre parole chiave – lavoro, democrazia, pace – sono drammaticamente messe in discussione da una contingenza di sistema che impoverisce i lavoratori, svuota di senso l’esperienza della democrazia, rimette la guerra al centro del mondo? Che questa crisi non sia una nottata da far passare ce lo conferma non solo la cronologia – il fatto che sia i partiti socialdemocratici sia i partiti di sinistra siano ormai in crisi da un decennio, a parte eccezioni poi regolarmente smentite – ma anche la topografia: la sinistra è in crisi persino dove ha potuto governare e lo ha fatto con delle politiche sociali che, con tutti i loro limiti, si possono serenamente riconoscere non come copie sbiadite o contraffazioni, ma come riforme di sinistra (mi riferisco in particolare alla Spagna). Bisogna così avere il coraggio di dirsi che non basta ormai il pur legittimo argomento che tutti qui in Italia abbiamo la tentazione di usare (mi autodenuncio: io stesso ricorro a quest’argomento almeno una decina di volte al giorno, è diventata quasi una dipendenza): “è colpa del PD”. Purtroppo guardare negli occhi la sconfitta vuol dire riconoscerne una profondità genealogica e culturale che non possiamo più eludere.
Che cosa è accaduto, in questo tempo lungo? Sinteticamente: che l’antagonista della sinistra – che non è la destra, ma il capitalismo – ha innescato giganteschi salti di qualità. Ha vinto il suo conflitto, ma non ha concesso ai propri nemici nemmeno la dignità della resa. Il conflitto di classe è diventata una sottomissione di classe. Ed è proprio a questo livello che crisi della sinistra e berlusconismo s’incrociano e quasi finiscono per confondersi. Innanzitutto perché la crisi della sinistra è l’impossibilità di riconoscere quella che un tempo si sarebbe chiamata una «classe antagonista». Evidenza banale e ormai stra-studiata, certamente. Ma val la pena ricordarla sempre, nella misura in cui essa è scomparsa nell’epoca in cui tutte le circostanze apparirebbero propizie perché le sue rivendicazioni avanzino. In cui l’empietà sistematica del capitalismo ha dato luogo al contrario di ciò che chiameremmo antagonismo. Al disimpegno, alla sottomissione, alla servitù volontaria.
Il lutto nazionale per la morte del Caimano è un esempio plastico di quanto la servitù volontaria sia l’unico collante che tiene insieme questo paese. Un rito in cui gli oppressi sono stati costretti a celebrare i loro oppressori e, salvo rare eccezioni, l’hanno fatto di buon grado, con senso di felicità e di emulazione. Nessuno ha colto la gravità simbolica – una ennesima lesione le cui conseguenze non smetteremo di pagare – di un istante in cui persino la morte non ha livellato l’ingiustizia ma è diventata un’occasione per consacrarla. Da questo punto di vista, per quanto critico possa essere il giudizio sul politico Romano Prodi, la dignità da lui testimoniata per la morte della moglie finisce per veicolare un messaggio politico che va ben oltre le intenzioni. Da un lato, a Milano, la morte svelava che la diseguaglianza è ontologica, non soltanto economica. Trasfigura il valore della vita e persino della morte. Dall’altro lato, a Bologna, la morte riconduceva le diseguaglianze, l’appartenenza alle élites, l’esercizio del potere a un’evidenza scarna che non intacca l’universale dignità di una vita che finisce e che è, alla fine, nient’altro che questo: una vita. E persino il potere si astiene dall’entrare con le sue liturgie e i suoi tic ostentati dentro la stanza chiusa in cui si sta consumando una vita. In un solo gesto, abbiamo avuto la conferma che la “rivoluzione liberale” berlusconiana altro non è che la cancellazione di ogni eredità della rivoluzione francese. Il ritorno all’Ancien Régime, laddove i sudditi sono costretti a piangere i loro sovrani. Ecco perché non riesco a non essere politicamente severo rispetto al lutto nazionale. Perché ciò che è stato imposto di celebrare all’intera nazione è il funerale di qualcuno che persino da morto valeva più di tutti gli altri. Non era la celebrazione di una vita, era la celebrazione dell’ingiustizia come unico fondamento di ciò che vale. Pochi giorni dopo la morte di Berlusconi abbiamo avuto un altro esempio plastico di quale sia ormai l’assuefazione all’idea per cui nemmeno i morti sono uguali. Mi riferisco ovviamente ai milionari sepolti in mare a favore di soccorsi e di telecamere. Come ricordato su questo sito da Rocco Artifoni, ci troviamo ormai a celebrare gli abissi dell’ingiustizia. Ma allora non sarà che la nostra servitù volontaria è cominciata nel momento in cui abbiamo smesso non dico di odiare, ma almeno di indicare con chiarezza i responsabili dell’ingiustizia? Nel momento in cui la sinistra ha ceduto all’idea che l’ingiustizia sia un dato metafisico, che si produce dal nulla e contro cui allora c’è poco da fare?
Torniamo a Berlusconi. Confesso una cosa. Sono profondamente incazzato per il fatto che è da un anno che entro ed esco dagli ospedali pubblici e non so bene chi sia il mio medico, visto che ogni volta me ne capita uno diverso, mentre Berlusconi ha un medico personale che lo segue da decenni e un’ala di un intero ospedale tutta per lui. So già quali saranno le obiezioni. Questa mia confessione trasuda “invidia sociale” e non tiene conto del fatto che, evidentemente, Berlusconi può permettersi di pagare un medico personale mentre io no. Ma io non sono invidioso, sono incazzato. Non è l’invidia che la sinistra deve recuperare: ha già fatto abbastanza danni dando luogo alla stagione del veltronismo, per esempio. Piuttosto è la rabbia. Io sono indignato e lo sono non perché Berlusconi ha avuto accesso alle migliori cure possibili, cosa della quale sono lieto, ma perché trovo inaccettabile che la diseguaglianza economica entri dentro la stanza della vita e della morte. Perché non ho paura a dire che la vita di tutti, compresa la mia, vale quanto quella di Berlusconi. E se provo rabbia per questo, magari sono disposto a espormi pubblicamente e a difenderla con le unghie, la vita di tutti che vale come quella di chi ha i soldi per poterla curare. La sinistra rinasce quando non solo non accetta ma si indigna di fronte al fatto che la dignità dei malati abbia un doppio ordine gerarchico, esattamente come la dignità dei morti in mare. E non teme di dirlo, di confessarlo, di fare nomi e cognomi, di uscire dal misticismo dei lutti nazionali e delle beatificazioni e della celebrazione del corpo dei signori da parte dei corpi dei sudditi che non solo potranno a stento pagarsi i funerali – magari con l’ennesimo debito – ma saranno abbandonati alla loro fortuna e al loro destino, senza un medico cui rivolgersi (a meno di non avere i soldi per farlo e, così, di essere diventati signori che sottomettono altri servi).
Ecco, mi rendo conto di aver dato solo una risposta provvisoria e iniziale alla domanda da cui sono partito (perché la sinistra scompare nell’epoca del trionfo del capitalismo?), ma forse val la pena tenere a mente questo semplice insegnamento: non basta più una sinistra che combatta l’ingiustizia, è necessaria una sinistra che combatta gli ingiusti.
A differenza delle forze di destra, le forze di sinistra in Italia, nonostante il loro passato vittorioso, risentono di una debolezza, di un’incapacità a prendere spunto, cioè di far leva sui problemi del presente (disuguaglianza sociale, mancanza di solidarietà, di lavoro, stravolgimento dei diritti, lotta al pacifismo) per riconsolidarsi e ricompattarsi e quindi per progettare il proprio futuro. Più semplicemente: forse le forze di destra, dopo tanti anni, credono ancora nei loro valori; quelle di sinistra, dopo altrettanti anni, non più tanto come dovrebbero.
Ottimo! Complimenti. Soprattutto nella seconda parte e nel finale travolgente: ” una sinistra che combatta gli ingiusti”