Un’omelia fuori luogo

image_pdfimage_print

L’omelia dell’Arcivescovo di Milano per i funerali di Silvio Berlusconi, elogiata da politologi, politici, giornalisti come la quintessenza della pietas cristiana, è stata un capolavoro retorico. Definisce quanto di più proprio apparterrebbe a un essere umano: «Vivere. Vivere e amare la vita. Vivere e desiderare una vita piena. Amare e desiderare di essere amato. Essere contento e amare le feste. Godere il bello della vita». E poi lo trasferisce a Berlusconi: «Che cosa possiamo dire di Silvio Berlusconi? È stato un uomo: un desiderio di vita, un desiderio di amore, un desiderio di gioia». Secondo il metodo deduttivo – dal generale al particolare – anche Berlusconi ha incarnato a pieno il desiderio di vita nelle sue varie forme, proprio di ogni essere umano, messo nell’esistenza da Dio, e dunque tenuto ad essere gioiosamente riconoscente a Dio del dono di esistere. Vale a dire che Berlusconi nel corso della sua esistenza avrebbe rappresentato l’obbligo morale di essere contenti della vita, di volerla vivere nella sua pienezza, di non arrendersi alle difficoltà. Egli insomma assurgerebbe a paradigma della gratitudine che ogni essere umano dovrebbe provare per il fatto di esistere, desiderare, amare, godere dei benefici della vita in sé.

Per una volta non indulgiamo sul modo in cui Berlusconi ha goduto della vita. Solo per una volta, perché l’omelia dell’Arcivescovo di Milano merita un’analisi più approfondita di quanto le è stato dedicato.

Il primo rilevo importante della visione antropologica che traspare da essa riguarda un’idea di essere umano irrelato, cioè privo di relazioni. Il desiderio umano, nelle sue varie manifestazioni, è quello proprio di un uomo concepito come individuo, portatore di bisogni e interessi individuali, colto nel bisogno individuale di piacere, godimento, realizzazione, soddisfacimento, a partire da sé, dalle sue esigenze e aspirazioni: «Essere contento e amare le feste. Godere il bello della vita. Essere contento senza troppi pensieri e senza troppe inquietudini. Essere contento degli amici di una vita. Essere contento delle imprese che danno soddisfazione […] dei momenti belli, degli applausi della gente, degli elogi dei sostenitori».

È, ancora, l’idea di un individualismo utilitaristico, mosso da una relazionalità strumentale, volto al perseguimento del proprio interesse; di un individualismo possessivo e acquisitivo, in cui le passioni (certo molte intense in Berlusconi) generano forme di relazionalità strumentale o conflittuale, nelle quali l’altro diventa un nemico o un rivale, o in cui la formazione di un legame sociale ha una funzione di strumento, di mezzo volto al conseguimento del proprio piacere (che sia di natura sessuale, edonistica o economica): «Quando un uomo è un uomo d’affari, allora cerca di fare affari. Ha quindi clienti e concorrenti. Ha momenti di successo e momenti di insuccesso. Si arrischia in imprese spericolate. Guarda ai numeri a non ai criteri. Deve fare affari. Non può fidarsi troppo degli altri e sa che gli altri non si fidano troppo di lui. È un uomo d’affari e deve fare affari».

E ancora, si sfiora il patetico quando l’omelia si arrischia a presentare l’uomo, con evidente riferimento traslato al Berlusconi, mosso da «un desiderio di amore», come colui che teme «che l’amore possa essere solo una concessione, una accondiscendenza, una passione tempestosa e precaria». Forse è per questo che Berlusconi pagava escort, olgettine, minorenni da sole e in gruppo? Perché mai avrebbe dovuto temere che l’amore fosse «solo una concessione, una accondiscendenza»? «Feste, successo, affari, godimenti, senza troppi pensieri, senza fidarsi troppo degli altri, applausi della gente, elogi…». È il narcisismo edonistico tanto caro ai Ferrara, che bacchettano i bacchettoni moralisti.

C’è una spia rivelatrice nell’omelia di Delpini quando dice: «Essere contento di sé e stupirsi che gli altri non siano contenti». Come si spiega che gli altri possano non essere contenti come Berlusconi lo era della sua vita? Forse perché non hanno lavoro, non arrivano a fine mese, vivono un’esistenza precaria, non hanno ville, holding, yacht, donne a disposizione, hanno come unico piacere lo strafogamento nella visione di Uomini e donne, Il grande fratello, l’Isola dei famosi, Amici e altra pattumeria inqualificabile? Si indigna – insegnava Spinoza (che non era un cristiano, né un ebreo professante) – chi con altri si associa per difendere colui che soffre e combattere il potere ingiusto che quella sofferenza impone. Quello che per i Ferrara è l’invidioso e rabbioso moralismo degli esclusi è in realtà la scelta di stare dalla parte degli esclusi, contro il paradigma, purtroppo sdoganato e veicolato anche da taluni settori della stessa sinistra, dell’autorealizzazione edonistica, indipendente o insofferente di ogni vincolo etico e sociale. Stare dalla parte degli ultimi e dei penultimi, di coloro che sono stati impoveriti materialmente e culturalmente anche dallo strapotere berlusconiano, significa contrastare l’azione disgregatrice dell’individualismo acquisitivo e narcisistico, favorire l’insorgenza di passioni comunitarie, dell’impegno politico per la giustizia, irriducibili ai rapporti di interesse economico o di potere, che facciano del legame sociale un fine e non un mezzo, volti alla creazione di una socialità non regressiva ed esclusiva.

Non c’era nell’omelia dell’Arcivescovo l’invito a combattere la propria sofferenza sconfiggendo quella altrui. Anche a Delpini appare naturale che «quando un uomo è un uomo politico, allora cerca di vincere […]. Quando un uomo è un uomo d’affari, allora cerca di fare affari. […] Si arrischia in imprese spericolate». Mancava quel prezioso riferimento allo «stato ontologico di dipendenza e di vincolo che accomuna gli individui in una rete di reciprocità» (E. Pulcini, 2020), che pure papa Francesco sempre assume come indicazione di vita. Essere un uomo vincente o essere un homo reciprocus?

Solo questo S. Ambrogio avrebbe pietosamente detto di Berlusconi nell’omelia: «È un uomo e ora incontra Dio».

Gli autori

Cristina Quintavalla

Cristina Quintavalla è portavoce regionale della lista L'Altra Emilia Romagna e referente della Commissione Audit sul debito pubblico di Parma.

Guarda gli altri post di:

2 Comments on “Un’omelia fuori luogo”

  1. Io ho interpretato l’omelia in tutt’altro modo. A mio parere il cardinale Delpini ha descritto un’umanità che si crede superiore e si realizza nella realizzazione di un sé che fagocita quel che incontra negli ambiti in cui cerca successo e riconoscimento.
    Ma ora tutto di tutto questo scoprirà il valore vero, di fronte alla Verità di Dio

Comments are closed.