Non è un 25 aprile come gli altri

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Il 25 aprile è la Festa della Liberazione. Festa dei liberatori, di quelli che – minoranza virtuosa – sulla base di una libera scelta, decisero di mettere in gioco la loro pelle (e molti la persero) per restituire a questo Paese la sua dignità. E festa dei liberati, di quella massa di donne e uomini che non ne potevano più del fascismo, delle sue guerre sciagurate, del suo dispotismo oppressivo, dei suoi rituali macabri, e che hanno accolto con un’esplosione di gioia genuina l’arrivo della Gran Festa d’Aprile (per dirla con Franco Antonicelli). Non è la festa di chi contro quel moto di liberazione si oppose, con la tortura, le fucilazioni, i rastrellamenti e gli eccidi, al servizio di un alleato che si portava addosso le insegne dello sterminio razziale. E di quanti, ancora oggi, per quella parte nera della storia nutrono simpatia o nostalgia. Non è la festa degli epigoni degli oppressori, di chi nonostante che si sappia ormai tutto, ma proprio tutto, dell’orrore di quell’esperienza catastrofica, continua a coltivare i suoi miti nefasti di grandezza, di arroganza nazionalistica, di superiorità etnica, conservando nei propri salotti o nelle cantine i busti del Duce, stinte camicie nere, sbrindellati gagliardetti con i loro simboli di morte. Non è la festa di quanti avendo finora vissuto con un senso di lutto questo giorno non riescono neppure a pronunciare la parola anti-fascismo, e giunti alla guida del Governo tradiscono ogni giorno la Costituzione su cui hanno giurato. No, il 25 aprile non è la “festa di tutti”. Non lo è e non può esserlo. Chi continua a sognare una mitica “pacificazione” intorno a questa data, che cancelli le opposte passioni che si scontrarono negli “anni del furore” (così li definì Giorgio Agosti, lucidissimo combattente della libertà), quasi fossero cascami logorati dal tempo, non ha capito nulla della Resistenza e del suo profondo significato storico.

25 aprile

La Resistenza non è stata solo una guerra di liberazione nazionale. Una guerra contro un invasore nemico, per liberare la propria Nazione. La Resistenza è stata anche, e per molti aspetti soprattutto, una guerra dell’Italia contro se stessa. Contro i propri vizi, le proprie storiche debolezze, la propria vocazione di servilismo e passività, le proprie pulsioni a sottomettersi ai peggiori Capi scambiandoli per Condottieri. Lo disse con lucidità straordinaria Vittorio Foa, in un articolo del marzo del ’44 sui “Quaderni dell’Italia Libera”, quando scrisse che a differenza di altri popoli l’italiano “non deve soltanto combattere e vincere un nemico esterno ben identificato nel suo volto minaccioso e violento, ma dovrà insieme combattere se stesso, il vuoto miraggio dei destini imperiali, l’arido egoismo che rinnega il lavoro comune dei popoli, in una parola il nazionalismo”, che l’aveva afflitto come una malattia vergognosa nei decenni precedenti. La Resistenza è stata una resa dei conti con quella “autobiografia della nazione” che Piero Gobetti, all’inizio del Ventennio – quando ancora pochi, pochissimi avevano intuito il tunnel oscuro in cui si stava entrando – aveva indicato come reale natura del fascismo, incarnazione di tutte le tare storiche accumulate nel processo di Nation building e di State building nel lungo ciclo della nostra malata modernità.

25 aprile
Genova Luglio ’60

Quell’Autobiografia così faticosamente smentita e riscritta nella stagione alta della Resistenza, non è stata tuttavia pienamente cancellata e ha continuato a lavorare, nel sottofondo melmoso di un’Italia solo formalmente “nuova”, riaffiorando carsicamente, minacciosa (ricordate il 1960 e il sanguinoso luglio di Tambroni, o il 12 dicembre del ’69? E la strategia della tensione, le trame nere, i depistaggi…), per arrivare oggi, baldanzosa e provocante a ostentare i propri vizi in piena luce dal palcoscenico degli stessi Palazzi di Governo. Non è la storia di una democrazia compiuta, messa definitivamente in sicurezza, quella che ci sta alle spalle, tutt’altro. Ma fino all’ inizio di questo secolo, ogniqualvolta accadesse che quel fondo oscuro, quella sorta di deep state provasse a superare la soglia critica della completa visibilità, aveva trovato a brutto muso una mobilitazione popolare capace di rimandarla sotto, che fossero le magliette a strisce di Genova nel ’60 o le 200.000 tute blu di Piazza Duomo a Milano del ’69 venute a presidiare la propria democrazia, o il milione di lavoratori che nel ‘74 a Brescia risposero alla strage di Piazza della Loggia. Il 25 aprile del 1994 fu forse l’ultimo momento forte di quella Resistenza che continuava, quando un oceano di manifestanti invase Milano per rispondere allo sfregio costituito dal neonato Governo Berlusconi, e sfilammo per ore, sotto una pioggia torrenziale, facendo capire che un limite non può essere superato. E riuscendo persino ad aprire una fenditura in quell’embrione di blocco di destra, staccando sia pur provvisoriamente una Lega bossiana sconcertata da quella reazione dal basso nella sua Milano, dal corpo infetto di una destra in fieri.

Milano 25 aprile 1994

Oggi, al contrario di allora, in uno scenario decisamente più nero, la risposta rimane flebile, timida, rassegnata. Eppure questo è un salto di specie, uno spill over per così dire, nella ridefinizione regressiva della destra italiana più radicale, e profondo – una riconfigurazione dell’autobiografia di questa desolata e desolante nazione più aggressiva, molto più aggressiva e penetrante dell’operazione berlusconiana. Berlusconi infatti aveva lavorato ancora a dosi omeopatiche sullo zoccolo antropologico del Paese, producendone un lento e pervasivo corrompimento, “dolce” per così dire. Innervando le logiche di mercato e la monetizzazione integrale dell’esistenza nella pancia della Nazione senza apparentemente toccarne l’involucro politico-culturale. Giocando la propria egemonia sul potere della comunicazione televisiva e sui codici nascenti del marketing più che sulla conquista brutale degli spazi tradizionali. Questi invece vanno all’assalto dei posti di comando con l’intento di realizzare un rovesciamento radicale dello stesso immaginario nazionale. Qualcosa che assomiglia a una contro-egemonia, tale da sostituire all’universo culturale e simbolico della Repubblica nata alla fine del secondo conflitto mondiale un’identità radicalmente e dichiaratamente diversa, e di sanare una volta per tutte la cesura valoriale del ’45.

25 aprile

Chi si è preso l’ingrato compito di visionare le otto interminabili ore di discussione – registrate da Radio radicale – nel corso dell’incontro tenutosi il 6 di aprile all’Hotel Quirinale con la pomposa definizione di “Stati generali della cultura nazionale” (in origine era “della cultura di destra”), sotto l’informale protezione del nuovo ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano e con l’organizzazione formale dei suoi tre aiutanti (i cosiddetti “tra moschettieri”, Emanuele Merlino, figlio del finto anarchico infiltrato Mario Merlino e Capo della segreteria tecnica del Ministro, Alessandro Amorese, deputato di FdI e capogruppo alla Commissione cultura della Camera, e Francesco Giubilei, editore di estrema destra, tutti provenienti dall’area ex missina), ha avuto modo di constatare che lì, in

I tre moschettieri

realtà, di cultura si è parlato assai poco. Ma in compenso molto si è concertato per realizzare l’occupazione degli spazi strategici (Ministero e Rai in primis) per affermare una diversa “narrazione” e una diversa immagine del Paese (l’hanno chiamato “Pensare l’immaginario italiano”), improntata a quella che Norberto Bobbio nel suo Profilo del Novecento aveva chiamato l’”ideologia italiana”: un misto di spiritualismo di maniera e di nazionalismo, di attualismo gentiliano e di tradizionalismo bigotto da dio patria e famiglia, di rifiuto del sano conflitto sociale in nome dell’unanimismo nazionale e di una retorica da primato degli italiani d’ascendenza giobertiana. Se si considera questo retroterra, allora quelle che sembrano e sono considerate da quasi tutti gli osservatori critici delle gaffes, compiute da buona parte dei nuovi ras della corte meloniana (le idiozie di Lollobrigida sulla “sostituzione etnica”, la faziosa ignoranza di La Russa sull’attentato di via Rasella e sulle Fosse Ardeatine, i deliri del ministro dell’Istruzione e del merito Valditara sull’uso dell’umiliazione come metodo didattico, la purificazione della lingua caldeggiata da Rampelli con l’idea balzana del reato di esterofobia lessicale, e via sproloquiando…) appaiono sotto una luce diversa, come più o meno consapevoli interventi di micropsichica del potere mirati a disseminare punti dissonanti, fratture nell’edificio del senso comune condiviso, frammenti di una diversa e opposta visione del mondo, anacronistica certo ma come ogni istanza reazionaria orientata a trovare sostegno in tempi di assoluta confusione e incertezza. Per questo preoccupa il senso di desistenza che si respira nell’aria,anche a sinistra, anche tra chi in quel lontano 1994 il 25 aprile aveva fatto muro, e oggi balbetta, quasi che l’antifascismo fosse diventato cosa desueta, da relegare tra le considerazioni inattuali, e ciò che ci accade intorno fosse normalità o quasi. E’ per molti aspetti l’aria che tirava nel 1923 o giù di lì, quando il capo sindacale D’Aragona si preparava a presentarsi nel listone nazionale, insieme a buona parte di quei notabili liberali che Mussolini si preparava a liquidare alla prima occasione.

Per tutto questo il 25 aprile di quest’altro ’23 non è come tutti gli altri.

L’opera riprodotta nella homepage (come quelle che affiancano gli altri contributi dello slider sul 25 aprile) è di Renato Guttuso.

Gli autori

Marco Revelli

E' titolare delle cattedre di Scienza della politica, presso il Dipartimento di studi giuridici, politici, economici e sociali dell'Università degli Studi del Piemonte Orientale "Amedeo Avogadro", si è occupato tra l'altro dell'analisi dei processi produttivi (fordismo, post-fordismo, globalizzazione), della "cultura di destra" e, più in genere, delle forme politiche del Novecento e dell'"Oltre-novecento". La sua opera più recente: "Populismo 2.0". È coautore con Scipione Guarracino e Peppino Ortoleva di uno dei più diffusi manuali scolastici di storia moderna e contemporanea (Bruno Mondadori, 1ª ed. 1993).

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One Comment on “Non è un 25 aprile come gli altri”

  1. Perchè nel dopo guerra non si fece il processo ai fascisti? Mi sembra che ha fatto molto meglio MANDELA che ha emanato condanne senza PENA, invece di PENE senza condanna! Si sarebbe dovuta esprimere la piena condanna per lasciare il segno storico da non dimenticare. Ma come avremmo fatto la ricostruzione? Come avremmo avuto il piano Marchal? Bene, abbiamo ricostruito teniamoci il PONTE costruito su cattive fondamenta! Purtroppo fu difficile ed ora lo ancora di più!

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